Voci escluse

Il destino delle narrazioni alternative all’interno dei media

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“L’uomo è un animale che racconta storie” scriveva il filosofo Alasdair MacIntyre. Le storie ci aiutano a capire chi siamo e da dove veniamo, creano legami che danno senso alla nostra vita facendo sì che essa prenda forma mentre le diamo forma. Per questo siamo sempre intenti a raccontare a qualcuno di qualcosa, per questo i bambini, insaziabili e vogliosi conoscitori del mondo, nutrono per le favole e il cinema un così grande interesse. Quell’ interesse che li spinge a pronunciare quell’ ancora una, ad aspettare con ansia il momento che precede la buonanotte solo per conoscere una nuova storia.

Attraverso il “c’era una volta” si inizia a prendere coscienza di quelli che sono i ruoli sociali e i meccanismi del mondo. Conoscere una storia dà sostegno a un’identità e nutre il nostro senso di appartenenza, ci offre il diritto di riconoscersi in un “io” in comunicazione con quel “noi” che convalida sul piano sociale la nostra funzione, indispensabile alla formazione di una comunità così intesa. 

Attraverso questa pratica vengono tramandati quei valori culturali che si fanno bagaglio eterogeneo da portare sulle spalle durante il nostro viaggio e che ci avvicinano a quello che riconosciamo come più simile a noi. 

Nonostante la vastità delle storie messe a disposizione fin dal nostro primo vagito, c’è la tendenza a presentare, attraverso esse, solo una parte di mondo. 

A tal proposito è interessante riportare qui le parole della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie pronunciate durante il suo TED Talk del 2009 con il titolo “The danger of a single story:

 

«Sono anche stata una scrittrice precoce. E quando ho iniziato a scrivere, più o meno all’età di sette anni, storie scritte in matita, illustrate coi pastelli che la mia povera madre era costretta a leggere, scrivevo storie come quelle che leggevo. Tutti i miei personaggi erano bianchi, con gli occhi azzurri. Giocavano nella neve. Mangiavano mele. E parlavano molto del tempo, di quanto era bello che fosse uscito il sole. Questo nonostante io vivessi in Nigeria. Non ero mai uscita dalla Nigeria. Non c’era la neve. Mangiavamo manghi. E non parlavamo mai del tempo, perché non c’era bisogno».

 

La carenza di un punto di vista alternativo crea in ognuno di noi il preconcetto secondo il quale a determinate caratteristiche morali e sociali corrisponda un determinato aspetto. Questo è quello che porta la Chimamanda bambina a riconoscersi con i bianchi eroi delle sue storie, disconoscendo la propria identità. Raccontare un’unica storia crea stereotipi. Il problema però non è legato alla loro falsa natura bensì alla mera incompletezza del punto di vista che offrono. È così che una storia diventa la sola e unica possibile. Il fenomeno che si crea è quello che lo psichiatra Frantz Fanon chiama “sbiancamento”: la volontà da parte della minoranza di allontanarsi il più possibile dal proprio fenotipo per potersi riconoscere uguali al modello proposto. In una civiltà che si fa erede di un passato coloniale ancora oggi rumoroso, quel modello non può che coincidere con la figura del colonizzatore. E così per sopravvivere, il nero – dice Fanon – si trova costretto in una “maschera bianca” per nascondere il colore della propria pelle. 

Il fatto che ancora oggi la letteratura e il cinema siano terreno manifesto di questo meccanismo ci porta a riscoprire quel germe d’inferiorità che persiste in un’eterna primavera. 

Ci ritroviamo ad assistere a quella istintiva tendenza a oggettivare le persone “altre” secondo i propri cliché, con la conseguente difficoltà a immaginarle non solo come diverse ma altresì degne di una posizione pari alla nostra. In una sfera che fatica a lasciar spazio alla loro naturale attuazione queste figure si trovano a ricoprire ruoli che contribuiscono a consolidare quello stereotipo che li accompagna da tempo e che le vede escluse da ruoli più alti, come quelli dirigenziali, che quantomeno offrirebbero loro la possibilità di liberarsi dal sopra citato “pericolo di un’unica storia”. 

In un mondo sempre più veloce il rischio è quello di ricadere sempre negli stessi errori, di perpetuare quell’imperialismo benevolo che ci porta a sentirci in diritto di narrare dal nostro punto di vista ogni tipo di rappresentazione.

“Il problema con Apu” apre un dibattito

È emblematico il personaggio di Apu ne I Simpson, l’indiano gestore del minimarket di Springfield con la sua famiglia numerosa e il suo marcato accento. A lungo unico personaggio con origini del sud dell’Asia a comparire nella serie, è uno dei personaggi più apprezzati del cartone. L’attore bianco Hank Azaria ha doppiato Apu fino al 2020: tra il 2018 e il 2021 si è più volte scusato davanti ai microfoni, riconoscendosi colpevole di aver contribuito per anni a stereotipizzare le persone di origine indiana in America. Il caso arriva all’attenzione pubblica nel 2017 quando il comico americano di origine indiana Hari Kondabolu dirige il documentario The Problem With Apu, che partendo proprio dall’omonimo personaggio dei Simpson indaga sul razzismo e le discriminazioni ai quali i personaggi indiani e dell’Asia meridionale sono soggetti da sempre in America. Per Kondabolu il problema non è solo che Apu alimenti un’accozzaglia di stereotipi, ma che è un personaggio che manca di una certa mobilità sociale, e che siccome i Simpson fanno satira e la satira si basa sulla realtà una serie come questa dovrebbe raccontare la verità nella sua interezza. La verità è che nel 1990, quando Apu compare per la prima volta, nessuno ha pensato di farlo doppiare a un volto appartenente a quella minoranza per dare una visione più completa del personaggio perché mancava un attore con la sensibilità tale da confrontarsi con questo ruolo, ma mancava per un problema a priori: nessuno a livello produttivo e dirigenziale aveva la medesima sensibilità, e sembra non esserci nessuno ancora oggi.


Anche in Italia abbiamo casi simili: la doppiatrice e attrice transessuale Vittoria Schisano definì «un mero atto di violenza» la scelta della Universal di far doppiare l’attrice transessuale Laverne Cox da un doppiatore uomo in Una donna promettente: la polemica portò a un nuovo doppiaggio con una voce femminile. La stessa Schisano ha poi doppiato un personaggio transessuale nella serie animata di Netflix Big Mouth. Tutto ciò non sembra essere abbastanza, e infatti l’attrice dice di non conoscere altri doppiatori e doppiatrici transessuali in Italia. Viene lamentata anche una mancanza di doppiatori neri. Questo problema del doppiaggio ha fatto da apripista a un discorso più ampio, in cui la colpa non è tanto degli attori o di una persistente ristretta varietà di ruoli che ancora non riesce ad andare di pari passo con la sensibilità del grande pubblico, ma si collega in maniera diretta alla questione della diversità e della rappresentazione sul piccolo e grande schermo, da un punto di vista anche produttivo. The Problem With Apu sottolinea come, nel caso de I Simpson, manchino sceneggiatori o produttori di origine indiana, ma oltreoceano i dati evidenziano un problema che va oltre non solo quella etnia.

 

Fare cinema è una corsa a ostacoli, ma per alcuni ancora di più

Se gli Stati Uniti rimangono i leader, almeno a livello quantitativo, per quanto riguarda la produzione ed esportazione su larga scala di film e serie tv, oltre a essere uno dei paesi più multietnici del mondo, è normale usarli come termometro della situazione a livello globale. Già solo pensando a chi viene inquadrato durante la cerimonia di premiazione degli Oscar o dei Golden Globes, quando si parla di miglior regia o miglior sceneggiatura, è raro che ci venga in mente qualcuno che non sia un uomo bianco, soprattutto se ci si concentra sulle produzioni occidentali. Purtroppo i dati confermano la prima impressione: uno studio della società di consulenza McKinsey&Co. evidenzia le molteplici difficoltà che i professionisti afroamericani devono affrontare per farsi strada nell’industria cinematografica statunitense. Per quanto il report si concentri in particolare sulla comunità nera, i dati possono essere estesi a grandi linee alle altre etnie marginalizzate, e alcune conclusioni possono valere in generale anche per categorie di persone discriminate non in base al colore della pelle. 

 

Un primo assunto è che la presenza di membri di una minoranza in ruoli apicali è un catalizzatore fondamentale delle possibilità di espressione della minoranza stessa: secondo il report, registi e sceneggiatori neri sono sistematicamente esclusi dai progetti che non siano almeno in parte portati avanti da dirigenti della stessa etnia: le probabilità di un regista nero di essere scelto salgono dal 3% al 43% se almeno uno dei produttori è nero, mentre le chance per uno sceneggiatore salgono da meno dell’1% al 73% o al 30% nel caso che rispettivamente un produttore o il regista siano a loro volta neri. Ma negli Stati Uniti solo l’8% dei produttori e il 6% dei registi è nero. Questa scarsa rappresentazione è dovuta prima di tutto al mix di barriere sociali ed economiche che le persone non bianche si trovano davanti quando tentano di fare ingresso nel mondo della produzione audiovisiva; dal punto di vista finanziario, il cinema è un’industria dove la paga per chi inizia è spesso molto bassa o addirittura nulla, rendendo impossibile ottenere un’indipendenza economica in breve tempo. Se negli Stati Uniti il reddito medio di una famiglia bianca è ancora più alto di quello di una famiglia nera, allora saranno i figli di quest’ultima a dover cercare un’occupazione differente. Inoltre, il cinema tende a essere un mondo piuttosto chiuso a chi non sia già “nel giro” o che quantomeno non abbia già un collegamento di qualche tipo con l’ambiente. Se quindi la maggior parte degli addetti ai lavori è uomo, bianco e benestante, ha avuto l’opportunità di frequentare determinate università ed entrare in contatto con determinati gruppi, tenderà a cooptare altri individui con lo stesso background socio-economico. 

 

Ma anche una volta entrati nell’industria, i membri di minoranze devono accontentarsi di progetti stereotipati. Sempre secondo il report, se un film conta almeno due neri tra sceneggiatori, registi e produttori, raddoppiano le probabilità che la trama sia almeno in parte race-related. Per dirla con le parole di uno dei professionisti intervistati da McKinsey, “Quando [gli studios] cercano storie provenienti dalle comunità nere, si aspettano il Wakanda o la povertà, senza vie di mezzo”. E per quanto ciò sia limitante già dal punto di vista creativo, questo tipo di produzioni (ma in generale tutte quelle con almeno due neri in quei ruoli) ricevono in media un budget inferiore del 40%. Ciò a causa della convinzione che questi film, avendo di solito attori a loro volta neri, sarebbero un flop sul mercato internazionale, pregiudizio che non trova conforto nei dati ma che è causato piuttosto dalla mancanza di diversità negli uffici marketing e tra i dirigenti che valutano dove bisogna investire. Se chi decide non si sente a proprio agio con la storia, non riesce a identificarsi coi suoi personaggi, allora quella storia non viene raccontata. Quindi, per le minoranze in generale, la rappresentazione sullo schermo non può non passare prima da quella ai vertici delle case di produzione e distribuzione.



Le storie ancora da raccontare

Quando parliamo di “colonialismo cinematografico” parliamo di un problema trasversale in cui le problematiche delle varie categorie sono interconnesse: ci si concentra spesso sugli attori e le attrici, ma è evidente che le minoranze sono escluse in maniera sistematica, in senso lato, anche dai ruoli dirigenziali all’interno di questa industria. Così, meno del 22% sono registe e meno del 33% sono sceneggiatrici, nonostante secondo l’Hollywood Diversity Report del 2022 i film scritti e diretti da donne nell’ultimo anno avevano un cast più inclusivo. Ma le donne e le persone non caucasiche hanno più difficoltà a veder finanziati i propri film, e quando succede il budget è inferiore rispetto ad un film gestito da uomini bianchi. Per non parlare di quanto poco guadagna un’attrice nei confronti dei suoi colleghi, ancora meno se l’attrice è di colore: Viola Davis, tra queste la più premiata della sua generazione, ha detto che in quanto attrice nera viene forse pagata almeno dieci volte di meno rispetto a una sua collega bianca. Anche se gli Studios stanno iniziando a prepararsi per rispettare gli standard di rappresentazione e inclusione che l’Academy ha lanciato come criteri di candidabilità dei film per le premiazioni della prossima stagione, il lavoro arriva ancora “dal basso” con non-profit che cercano di portare avanti creatori e autori sottorappresentati con la missione – la medesima dell’Academy – di dar voce a tutte quelle storie che hanno bisogno di essere raccontate ma che non sono state ancora raccontate. Chimamanda Ngozi Adichie, nella sua raccolta di saggi Il pericolo di un’unica storia (Einaudi, 2020) scrive: «quando rifiutiamo l’unica storia, quando ci rendiamo conto che non c’è mai un’unica storia per nessun luogo, riconquistiamo una storia di paradiso».




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