21 gennaio 2021. In Italia l’attenzione è rivolta all’incombente crisi del governo Conte II. Nel frattempo, sul giornale online dell’Università di Bologna “UniBo Magazine” viene pubblicato un articolo intitolato «Huawei e Alma Mater insieme per promuovere la formazione universitaria nel campo dell’Intelligenza Artificiale». È la prima notizia pubblica riguardo a un Memorandum of Understanding tra UniBo e Huawei Italia. Il 22 gennaio Scomodo ha inviato a UniBo una richiesta di accesso civico generalizzato, ottenendo così il testo integrale del memorandum – che secondo quanto ha dichiarato la stessa UniBo a Scomodo è stato firmato il 27 novembre, 2 mesi prima di essere reso pubblico. In accordo ai principi di trasparenza Scomodo ha pubblicato qui il testo in PDF. 

Si tratta di un memorandum molto generico: non ci sono intese su singoli progetti, nulla di operativo, nessun importo. È una dichiarazione di intenti. Nonostante questo, sono molti gli elementi discutibili. Gli aspetti da considerare si possono dividere in due grandi categorie: da un lato il genere di rapporti che ci sono tra UniBo e Huawei, dall’altro le obiezioni di tipo politico e etico all’interno del contesto internazionale. 

 

Dove pende la bilancia

Innanzitutto bisogna considerare il modo in cui è stato pubblicizzato l’accordo. Non solo le prime notizie online risalgono a due mesi dopo la firma del memorandum, ma sono anche decisamente riduttive sulla portata dell’accordo stesso. Secondo l’articolo di “UniBo Magazine”, il memorandum consiste in alcuni corsi di formazione erogati da Huawei per docenti universitari di UniBo, insieme a qualche altro elemento marginale. Così recita l’articolo: 

«Il percorso di formazione […] prevede l’erogazione da parte di Huawei dei corsi a 5 futuri trainer AI, ovvero docenti universitari che poi a loro volta faranno da trainer agli studenti. Le sessioni di training saranno erogate da Huawei in modalità online e a titolo totalmente gratuito. […] A completare il pacchetto di formazione, materiali teorici, casi pratici, demo virtuali e l’accesso alla Developer Community di Huawei»

In realtà, le implicazioni del memorandum sono molto più ampie. Lo si vede fin dai primi articoli dell’accordo, secondo cui lo scopo della collaborazione è «lo sviluppo congiunto di un ecosistema aperto di industria AI in Italia» e «condurre analisi, test e validazioni della preparazione delle tecnologie AI in diversi ambiti, in particolare nel settore sanitario e manifatturiero». La cosa diventa ancora più chiara man mano che si entra nei dettagli: ad esempio, viene esplicitamente detto che UniBo e Huawei collaboreranno in diversi progetti europei. «Huawei può sfruttare questo accordo per inserirsi in progetti europei» spiega a Scomodo Riccardo Coluccini, collaboratore di testate come Vice e Wired e ricercatore del Centro Hermes per la Trasparenza e i Diritti Umani Digitali. «Nel MoU viene citato l’FP9, cioè l’Orizon, e GAIA-X, un progetto per allestire un cloud sicuro europeo. C’erano già state discussioni sull’ingresso di Huawei all’interno di un cloud europeo. È singolare vedere che non solo Huawei cerca di entrare direttamente nel progetto GAIA-X ma anche attraverso diversi attori, pubblici, che forniscono la chiave di accesso a questi progetti». 

Oltre a questo, diversi elementi fanno pensare che il MoU porti molti più benefici a Huawei che a UniBo. Innanzitutto, Huawei ha vietato a UniBo la possibilità di stringere altri accordi simili con qualsiasi competitor dell’azienda senza la sua approvazione. Insomma, qualsiasi attività nell’ambito AI UniBo la può fare solo con Huawei (o da sola), a meno che l’azienda cinese non sia d’accordo. Allo stesso tempo invece Huawei può delegare i diritti e i doveri previsti dal memorandum a qualsiasi sua società affiliata, almeno 35 sparse per il mondo secondo un documento dell’Università del Minnesota.

Se si procede nello studio dei vari articoli del memorandum, se ne notano altri piuttosto ambigui. L’articolo 4.1.2 ad esempio dà ad UniBo – per la precisione ad Alma AI, il dipartimento di UniBo che si occupa di intelligenza artificiale – il compito di «promuovere Huawei AI ad altri potenziali partner». Come nota Coluccini, in questo modo Alma AI diventa «letteralmente un braccio pubblicitario di un’azienda privata, e questo è un grosso problema». Considerando che nel memorandum non viene citato neanche alcuno scambio di denaro, è molto difficile capire quali siano i benefici che UniBo ottiene. 

Infine, l’ultimo aspetto riguarda il coinvolgimento nel memorandum di una terza società, la Evidence srl. Come viene spiegato sul suo stesso sito, Evidence è un’azienda – nata nel 2002 e affiliata alla Scuola Sant’Anna di Pisa – specializzata nella creazione di software. Almeno così è stato fino al settembre 2019, quando Huawei ha deciso di acquistare interamente la società tramite la sua subsidiaria olandese, la Huawei Technologies Coöperatief U.A. Tra le numerose attività di Evidence, alcune saltano all’occhio. In particolare i numerosi finanziamenti ottenuti da enti statali. Nel 2009 la società ha intrapreso un progetto intitolato “ASCOLTA” in collaborazione con altre aziende e con l’Università Sant’Anna. A finanziare il tutto con più di due milioni di euro era Regione Toscana. ASCOLTA riguardava lo sviluppo di tecnologie per monitorare alcune patologie come scompensi cardiaci. Questo potrebbe dare qualche indizio sul perché sia stata scelta Evidence come terzo attore del memorandum: tra i settori in cui UniBo e Huawei dovrebbero collaborare nella creazione di tecnologie AI c’è proprio la sanità. Oltre a questo, secondo il database dell’Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP), Evidence ha ricevuto finanziamenti europei nell’ambito dei progetti HERCULES e AXIOM nel 2014 e nel 2015. Infine, anche dopo essere passata sotto la proprietà di Huawei ha continuato a prendere soldi pubblici: un documento del 2020 mostra come la Evidence abbia ricevuto dal MIUR circa 161 mila euro nel settembre dello stesso anno.

Ma se il cambio di proprietà non ha influito sulle dinamiche dei finanziamenti pubblici ad Evidence, ha sicuramente avuto un grosso effetto sul bilancio dell’azienda. L’utile netto dalla società nel bilancio 2019 era di 9mila euro. Un anno dopo è arrivato a più di 4 milioni, circa 440 volte in più. 

Il fatto che un’azienda di proprietà Huawei abbia ricevuto finanziamenti pubblici, e che l’abbia fatto anche in passato, non è illegale. È però strano che un’azienda da poche migliaia di euro sia stata improvvisamente acquistata da uno dei maggiori gruppi industriali cinesi e che compaia come terzo attore del memorandum con UniBo.

Trasparenza aziendale: #404 not found

In conclusione i vari articoli del memorandum, anche se generici, in realtà presentano un forte squilibrio tra le prerogative di UniBo e quelle di Huawei. A ciò si aggiungono le ragioni etiche e politiche che si potrebbero opporre contro il memorandum.

Secondo un working paper del Carnegie Endowment for International Peace (CEIP), uno dei think-tank più importanti del mondo, «è sempre più chiaro che Huawei sia molto meno indipendente dal governo cinese rispetto a quanto dichiarato». Il report prosegue citando fonti europee e statunitensi secondo cui Huawei riceve grossi finanziamenti da Pechino. I dubbi sull’effettiva indipendenza dell’azienda si fanno più forti se si guarda alla sua stessa struttura societaria. Questa è stata analizzata da un paper scritto da due professori di un’università americana e una vietnamita. Huawei si dichiara totalmente di proprietà dei propri lavoratori: «nessuna organizzazione esterna o agenzia governativa possiede azioni in Huawei» ha spiegato un dirigente dell’azienda; lo schema, in realtà, è il seguente: solo l’1% dell’azienda appartiene al suo fondatore, mentre il restante 99% di Huawei appartiene a un’entità chiamata Huawei Investment & Holding Company Trade Union Committee. Di quest’ultima si sa molto poco, ma se è effettivamente controllata da una “Trade Union Committee”, si può facilmente supporre che sia direttamente o indirettamente controllata dal governo, visto il funzionamento abituale di questo tipo di organi nella struttura statale cinese.

Sulla proprietà effettiva di Huawei, come spiega il “New York Times”, si possono fare solo supposizioni. Ma i problemi rimangono: «Huawei è un’azienda cinese, e deve sottostare alle leggi cinesi» spiega Coluccini. «Sappiamo, ad esempio, che in Cina vige la Cyber Security Law che permette al governo di richiedere alle aziende cinesi l’accesso ai dati raccolti. Quindi c’è il problema di come verranno gestiti questi dati. Nel Memorandum è scritto che dovranno rispettare il GDPR (General Data Protection Regulation, ndr) ma non è chiaro se i dati rimarranno solo a Huawei Italia o se finiranno in altri server che si trovano in Cina». Considerando che tra gli ambiti al centro del memorandum ci sono sia la sanità che il settore manifatturiero, questa ambiguità di fondo risulta particolarmente importante. Dopotutto, anche il governo italiano nutre dubbi su Huawei: la partecipazione dell’azienda cinese allo sviluppo di infrastrutture 5G nel Paese è un continuo tema di diffidenza da parte delle istituzioni nostrane.

Infine, sembra difficile ignorare le accuse di coinvolgimento dell’azienda nella campagna di genocidio contro gli Uiguri cinesi condotta dal governo di Pechino. Secondo diversi articoli della BBC e del Washington Post, Huawei avrebbe sviluppato e poi brevettato nel 2018 un sistema di intelligenza artificiale in grado di riconoscere l’etnia di una persona, citando esplicitamente l’etnia Uigura oltre a quella Han, dominante in Cina. Alcuni documenti ottenuti dalla testata specializzata IPVM inoltre parlano di un «allarme Uiguro» che un sistema co-creato da Huawei sarebbe in grado di inviare alle autorità. Secondo quanto scrive sempre il Washington Post, questi due sono solo i casi più eclatanti: sono molti i sistemi di riconoscimento etnico che Huawei avrebbe già sviluppato o che sta sviluppando. È legittimo chiedersi che peso abbiano avuto questi argomenti nella decisione di UniBo di stringere il Memorandum of Understanding proprio con Huawei. Ai molti interrogativi posti da Scomodo, nè UniBo nè Huawei hanno non ha finora risposto. 

Fra la Via Emilia e l'Est

C’è un’altra storia, emblematica dei rapporti – seppur indiretti – fra Università di Bologna e Cina, che parte da molto più lontano. Quella di Fabio Alberto Roversi Monaco, Rettore dell’Università di Bologna per 4 mandati consecutivi, dal 1° novembre 1985 al 31 ottobre 2000. Ha svolto gran parte della sua carriera in seno all’Alma Mater: dal 1972 al 2012 è stato professore di diritto, dal ’72 al ’79 membro del CdA dell’Università bolognese. E ancora, per due mandati a capo dell’Accademia di Belle Arti di Bologna e dal 2001 al 2013 ai vertici di Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna. Senza considerare poi, come si legge nel suo curriculum, gli «importanti contatti con Istituzioni di ogni tipo […] in tutto il territorio italiano». 

Fra le istituzioni con cui l’ex rettore di UniBo ha avuto rapporti c’è anche la massoneria. Il suo nome, infatti, compare nei documenti sequestrati dalla Commissione parlamentare Anselmi su «P2 e Massoneria» nel 1987. Roversi Monaco, infatti, risulta iscritto dal 1972 – anno in cui diventa ordinario nell’ateneo felsineo – alla loggia massonica bolognese «Zamboni-De Rolandis». In pochissimo tempo scala tutti i gradi della massoneria, in quanto, si legge nel fascicolo, «elemento molto noto anche in ragione della professione che esercita» e «attaccatissimo a nostro rito». Inoltre, almeno dal 1975 al 1977 Roversi Monaco è stato socio del «Centro studi filosofici e sociali». Secondo un rapporto della DIGOS, il Centro è stata la copertura «del Capitolo nazionale coperto sciolto nell’aprile 1978», di cui avrebbero fatto parte anche piduisti e ufficiali dei servizi. 

Dopo aver raggiunto il più alto grado – quello di «venerabile», il 33esimo – Roversi Monaco è “uscito” dalla massoneria, come lui stesso ha affermato ai microfoni di “Report”, il 1° gennaio 1986. Le date sono importanti, perché viene eletto rettore il 1° novembre ’85. Per tre mesi, dunque, il Rettore dell’Università di Bologna è stato un massone attivo. Non è un caso che, come raccontava “Report”, Roversi Monaco sia «considerato il vero padrone» di Bologna. Uno a cui «i problemi sono sempre scivolati addosso»: la sua immagine non viene intaccata dall’appartenenza alla loggia «Zamboni-De Rolandis», inquisita per «stabilire l’influenza della massoneria nella vita politica e universitaria cittadina» e sospettata di contatti con la P2. Né lo scalfisce il caso degli appalti assegnati a suoi familiari quando, nel 2009, dirigeva l’Accademia di Belle Arti. La vicenda diventa pubblica alla scadenza del suo mandato. Uno dei membri del nuovo CdA accusa Roversi Monaco di «aver dato alla figlia un appalto di oltre 390.000 euro ed all’ex moglie uno da 110.000 euro». Eppure nel 2013 viene rieletto Presidente delle Belle Arti. Perché «a Roversi Monaco nessuno dice di no». 

 

Colpo grosso al Drago Rosso

L’ex massone, con la sua girandola di incarichi prestigiosi, è emblema della Bologna che conta. Anche le sue relazioni con la Cina non sono da meno. Dal 2006, infatti, mentre era a capo della Fondazione CdR, l’ex magnifico rettore è stato scelto come presidente di Mandarin Capital Partners. Si tratta di un fondo di private equity, che ha come obiettivo «una maggior integrazione tra i sistemi economici italiano e cinese».

Sul fronte italiano «investitore e sponsor» è Intesa San Paolo, mentre su quello cinese gli azionisti sono le banche di stato China Development Bank e Exim Bank of China, a garanzia del fondamentale «appoggio istituzionale» di cui il progetto gode nella Repubblica Popolare. La gestione del fondo è affidata alla Mandarin Capital Management, con sede nel paradiso fiscale di Lussemburgo. Fra i consiglieri di amministrazione, oltre a due rappresentanti delle banche cinesi, c’è anche l’imprenditore bolognese Alberto Forchielli, ideatore del fondo che, nel 2012, aveva toccato 1,4 miliardi di dollari. 

L’operazione Mandarin gode fin da subito del massimo appoggio politico e istituzionale. Nel 2011 Roversi Monaco partecipa, in qualità di presidente, a un «incontro ristretto» a Milano fra il vicepresidente cinese di allora, Xi Jinping e alcuni ministri del governo Berlusconi IV. Segno, dice l’ex magnifico rettore di UniBo, dell’«importanza che i cinesi attribuiscono al Mandarin». Non c’è da stupirsi, considerando il calibro delle azioniste China Development Bank ed Exim: non sono due semplici istituti di credito, ma lo strumento attraverso cui Pechino allarga la propria influenza geopolitica sui paesi in via di sviluppo. Ad esempio, la Exim Bank ha erogato al Kenya un prestito di 3,2 miliardi di dollari. A garanzia lo stato africano ha impegnato il porto di Monbasa. Se il Kenya non restituisce il prestito la Exim diventerà proprietaria di uno dei maggiori porti dell’Africa Orientale. 

Uno studio di AidData pubblicato nel 2021 definisce questi prestiti «muscolari»: sia la Cdb che la Exim spesso hanno il diritto di «pretendere l’immediato pagamento» per motivazioni politiche. Come sintetizzato da un articolo dell’agenzia “Agi”, quelli delle due banche in Africa non sono aiuti allo sviluppo. «È colonialismo». 

Ma il fondo Mandarin ha altri azionisti quantomeno ambigui. Secondo quanto riporta un report del 2011 della commissione statunitense U.S.-China Economic and Security Review Commission nel fondo Mandarin Capital ha investito un’altra banca di stato cinese, molto meno conosciuta. Si tratta della Tangshan Caofeidian Financial Investment. A sua volta, scrive il report della Commissione, la banca Tangshan Caofeidian potrebbe essere associata alla TCIC. Nonostante sul suo conto «siano disponibili solo informazioni limitate», «è possibile» che si tratti di un «conglomerato statale» direttamente «creato dal Ministero degli Investimenti». Non il massimo della trasparenza. 

Tornando in Italia, però, a dicembre 2020 l’imprenditore bolognese Forchielli e l’ex rettore dell’Alma Mater Roversi Monaco sono stati indagati per una presunta evasione fiscale pari a 4,2 milioni di euro. Le società collegate al fondo Mandarin Capital, infatti, avrebbero avuto «solo apparentemente sede ed operatività» nel Granducato del Lussemburgo, mentre il «luogo di svolgimento effettivo del core business» sarebbe stato a Milano. L’accusa della Procura di Milano è di esterovestizione: la Mandarin Capital sarebbe stata fittiziamente spostata in Lussemburgo solo per godere dei noti benefici fiscali. 

Si tratta solo dell’ultima vicenda che coinvolge Fabio Alberto Roversi Monaco. Quel che è certo è che i rapporti dell’ex rettore con l’Università di Bologna non si sono mai interrotti: nel 2017 l’ex venerabile Roversi Monaco ha presieduto la cerimonia di premiazione per una borsa di studio dell’UniBo finanziata dal «Supremo Consiglio […] per la Giurisdizione Massonica Italiana». Dal 2019 è consigliere d’amministrazione «senza compenso» di Bononia University Press Srl, casa editrice dell’Alma Mater di cui è azionista anche la Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna, presieduta da Roversi Monaco per oltre un decennio. E, per finire, siederà fino al 2022 anche nel CdA di Bologna Business School, la scuola di UniBo dedicata alla formazione industriale post-laurea, che fra i «soci fondatori» ha l’onnipresente Fondazione CdR del capoluogo emiliano. Presidente di Bologna Business School – e dunque firmatario dell’atto di nomina di Roversi Monaco – è l’uscente Rettore dell’Università di Bologna, Francesco Ubertini.