Una festa fuori mano

La redazione è la nostra casa. Oltre mille ragazze e ragazzi hanno progettato, ristrutturato e aperto uno spazio libero e sicuro che prima non c’era, e ora c’è. Qui passano sempre centinaia di persone e di storie. Questa, è una di quelle storie.

Questo articolo parla di:

Lo scivolo per l’antico garage è incassato tra tre palazzine, sotto cui si apre un varco con uno spazio ristrutturato. A farci strada sono le luci aranciate dentro delle piccole sfere, appese lungo un filo fissato a zig-zag. Sulla parete centrale, il manifesto dallo sfondo rosso si sfuma quasi con il mattonato grezzo di sfondo e l’ho visto srotolarsi dallo schermo del telefono qualche giorno fa, con un applauso di contorno di chi l’ha guardato alla luce del giorno.

Per ogni passo cerco di poggiare l’intera pianta del piede per non vedermi rotolare giù fino a schiantarmi contro il piccolo palco che fa angolo. Alcuni ragazzi salgono e scendono di continuo, allenando così i glutei ma facendo stridere le ginocchia. A ogni modo, non c’è troppa gente, riesco a osservare ciascun volto cercando quelli che possano matchare con il mio repertorio di visi conosciuti.

Nell’abbigliamento generale lo stile è fresco, tra top, camicie e occhiali da sole come accessorio. Credo di aver deciso il giorno sbagliato per sfoggiare il mio completo con giacca.

«Tu!» un indice mi punta.

«Tu!» replico mentre gli occhi accigliati del ragazzo tornano a riposo. Il mio indice diventa una mano aperta e pronta a una stretta, ma il ragazzo mi abbraccia, senza che nessuno dei miei nervi abbia il tempo di protestare. Insieme a lui, si materializzano una serie di quelli che nella mia testa erano solo dei fotogrammi pixellati e racchiusi in un rettangolo. Quel contorno non c’è, la voce e l’accento torinese – così diverso da quello a cui sono abituata a Palermo –  invece sì, e assumono una profondità nei movimenti corporei. Un corpo che posso sentire sotto le dita, di cui posso osservarne la gestualità che lo concretizza.

 

Superato il varco, si apre un ingresso: una parete-collage composta da frammenti di pagine dei cartacei prodotti e pubblicati negli ultimi due anni. Sono posti su una base in legno blu e rossa, accanto alla quale si affaccia una finestra dove poter acquistare il merchandise, tra magliette e borse di tela sfoggiate nelle loro colorazioni.

Mi indicano, a destra, quello che mi piace ribattezzare come l’angolo della morbidezza: un angolo pieno di cuscini su cui potersi gettare e stendere, come il ragazzo dal giubbotto viola della metro, che ritrovo lì a fissare il soffitto.


È troppo tardi per il prosecco gratuito di benvenuto, ma non abbastanza da vedere i bicchieri mezzi pieni dei ragazzi seduti in fila. L’intero spazio non lascia alcuna superficie scoperta e finisco per accucciarmi sul cemento, avendo una visione nitida e ravvicinata delle poltrone della presentazione. 

A sinistra, si solleva una cancellata con dei manifesti in dimensione portrait affissi e delle candele alla citronella sottostanti, interrotte da alcune piante e, di tanto in tanto, cedo l’attenzione allo schermo del cellulare fissato sul treppiedi che riproduce la diretta. Nel mentre, tanti sono rimasti in piedi formando una schiera al varco – poi i flash, noi seduti vicini, le voci rotte, le urla-applausi-risate-occhi lucidi-tremolii: tutti cullati dallo stesso ritmo in un silenzio quasi da assenza di respiro.

Un brivido: per gli anni, mesi, giorni interi, spesi dietro a un lavoro che è sembrato impossibile e più grande di noi, per cui non si aveva ben chiaro il motivo e il senso di quel tempo scorso e speso. Mentre gli apici delle scanalature in cemento si stanno infilzando uno dopo l’altro nel fondo schiena sfiorando il coccige, arriva una voce armoniosa sulle note dell’Isola che non c’è di Edoardo Bennato, l’accompagnamento ideale per ogni sogno avuto da bambini. Applauso.

 

«Ci siamo già conosciuti l’anno scorso, alla cena a Testaccio,» così mi saluta uno dei fondatori che non immaginavo ricordasse di quella cena: eravamo più di venti dell’associazione, a mangiare bene in un locale tanto spartano da farci da schienale a vicenda con le persone degli altri tavoli.

Subito dopo l’ingresso, un miscuglio di luci caleidoscopiche apre la grande stanza centrale. Il bancone è strapieno di persone che guizzano fuori con piatti di popcorn-supplì-nachos-birre-dolci. Strizzo un po’ gli occhi per la luce bianca, che rende parecchio chiara un’ulteriore stanza, più piccola, ma con un grande tavolo rettangolare impuntato al centro. Su questo,  una tovaglia bianca piena di frasi scritte con i pennarelli colorati –  sono un po’ sparsi ovunque, un po’ all’interno dei barattoli e un po’ in mano di chi è intento a personalizzare la propria copia del volume.

 

Fuori, il braccio di una ragazza fa da tavolino a un piatto di nachos con maionese e ketchup che vengono offerti all’intero cerchio creatosi intorno, e tra questi ci sono alcuni volti veterani dell’associazione e altri che, per qualche ragione, se n’erano tirati fuori – eppure, sono qui, commossi, emozionati e senza parole quando gli si chiede: «Non avevi mollato?» Che, per quanto sia accompagnato da un sorriso innocente, si legge l’amaro in bocca, la nostalgia, la curiosità e forse anche l’orgoglio che l’organizzazione non sia finita in macerie.

«Di supporto,» è la risposta più gettonata, che aggiunge un po’ di frizzante a questo cocktail di emozioni palpabili ma difficili da descrivere. Mentre cerco un posto per il mio bicchiere, in quella strana combinazione di salse che al palato appare saporita e accompagnata da uno scricchiolio piacevole, uno Scomodo-Veterano ha un bicchiere infilato nella tasca della camicia, proprio all’altezza del petto «per avere le mani libere».

In questo cerchio si mescolano gli accenti dell’intero stivale, l’affetto e la cordialità di chi sembra conoscersi da una vita, pur non essendosi mai visto. Tra le frasi di circostanza, le battute, l’interesse per le storie altrui, il supporto vicendevole e tra gli sguardi immersi nelle conversazioni, bisogna fare i conti con gli orari dei mezzi. 

Così lasciamo quest’energia che, per un po’, ha riunito una serie di mezzi sconosciuti in un’atmosfera delicata, familiare e conoscente – una serie di ragazzi dalla voglia matta di farsi ascoltare, ognuno a proprio modo, attraverso la scrittura.

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