Una città al plurale

Le possibilità e le sfide per costruire una città inclusiva

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Come costruire una città inclusiva? Si può iniziare immaginandola.

Le nostre città sono progettate intorno alle esigenze di un anonimo “cittadino medio” – che, a ben vedere, tanto anonimo non è: si tratta di un uomo, «marito e padre capofamiglia, normodotato, eterosessuale, bianco e cisgender», come riassume Leslie Kern ne La città femminista. Ogni aspetto della vita in città – la dicotomia tra periferie e centro, tra casa e ufficio, tra auto privata e trasporto pubblico… – è strutturato intorno ai bisogni del “cittadino medio”, a discapito di tutti coloro che non corrispondono a quel modello: la mamma con il passeggino, l’anziano con il bastone, il senzatetto, il teenager, il disabile in carrozzina, la persona razzializzata. Non sono solo le caratteristiche architettoniche dello spazio urbano – dalle panchine anti-homeless ai tornelli troppo stretti, dalle buche sui marciapiedi agli ascensori perennemente in manutenzione – a risultare escludenti, ma anche la narrazione simbolica delle città. «Le nostre città sono l’iscrizione in pietra, mattoni, vetro e cemento del patriarcato» ha scritto Jane Darke, geografa femminista. C’è una ragione storica: quando le nostre città sono state costruite, il lavoro fuori casa e la vita pubblica erano un appannaggio esclusivamente maschile, mentre le donne erano perlopiù relegate al lavoro di cura, svolto dentro casa. Ma, oggi, tutti hanno il diritto di popolare lo spazio pubblico nella città, e di plasmarlo secondo esigenze e desideri che non sono più quelli di secoli fa. Benché il divario si stia gradualmente assottigliando, raramente le nostre città sono dominate dalla visione creativa di architette e artiste. Ma abbiamo anche un problema di toponomastica. Vie, piazze, targhe, monumenti: i “protagonisti” dello spazio urbano, ricordati e celebrati nelle strade, sono perlopiù uomini. Secondo i dati del progetto Mapping Diversity, raccolti in 30 città europee, più del 90 per cento delle vie che portano il nome di una persona sono intitolate a un uomo bianco: che fine hanno fatto tutti gli altri?

Smantellare le barriere che rendono la città uno spazio inaccessibile ed escludente – che siano fisiche o simboliche – è un lavoro lungo e complesso, che non può non iniziare dal basso: dalle piazze, dai quartieri, dalle scuole. A Roma, il cambiamento è scritto sui muri. Mettendo in discussione la narrazione maschilista promossa dalla toponomastica – che ricorda solo il contributo degli uomini, e quasi mai quello delle donne, al progresso della società – il progetto ’nDonnamo costruisce nuovi percorsi urbani per sensibilizzare adulti e bambini. Mentre VenUs UrbanArt mette al centro le artiste in un campo, quello della street art, da sempre dominato dagli uomini – ma che dovrebbe rappresentare l’esperienza del “margine” della società, al posto di replicare le stesse dinamiche escludenti che dovrebbe condannare.

VenUs UrbanArt e ’nDonnamo ci hanno raccontato le loro iniziative, che gettano luce su quelle soggettività dimenticate e rimosse dallo spazio pubblico, per costruire, insieme, una città inclusiva e femminista.

Veneri e artiste

A Tor Marancia, dal muro giallo di una scuola, una divinità veglia su studentesse e studenti. È una Venere, realizzata dalla street artist Rame13. «La tematica che le avevamo proposto era la parità di genere» spiega Livia Fabiani, presidente di VenUs UrbanArt. «L’artista, così, ha elaborato la sua visione di questa Venere: l’ha rappresentata con le corna – un simbolo associato alla virilità, ribaltandone il significato – e con il terzo occhio, che indica la chiaroveggenza». È stata l’associazione VenUs UrbanArt supportare Rame13 nella realizzazione del murale, che oggi sovrasta l’ingresso del liceo artistico “Caravaggio” a Tor Marancia. Nella stessa scuola, l’associazione ha anche organizzato dei laboratori di street art con gli studenti. «Attraverso l’arte urbana si possono lanciare dei messaggi, che possono essere sia impliciti che espliciti» continua Livia. «Nel caso dell’opera di Rame13, il messaggio di parità è implicito, rappresentato dalla forza della figura femminile. Un’opera esplicita, invece, l’abbiamo realizzata su una serranda della “Casa Clandestina” di Ostia, con Giulia Capponi, una delle fondatrici e illustratrici di VenUs: rappresenta una donna di spalle, con un giubbotto su cui c’è scritto di chiamare il 1522 – il numero anti-violenza e stalking – in caso d’emergenza. È stata un’opera “partecipata”, realizzata durante un laboratorio: sebbene nessuna di noi sapesse dipingere, ci siamo messe in gioco, senza aver bisogno di qualcuno che ci dicesse come fare. Oggi, a “Casa Clandestina”, quella saracinesca resta sempre abbassata per lasciare visibile il messaggio».

L’obiettivo di VenUs UrbanArt è promuovere l’empowerment femminile attraverso l’arte urbana: l’artista Livia Fabiani, tornata in Italia dopo un’esperienza lavorativa in una galleria di street art in Brasile – «lì, il movimento femminista è incredibile» racconta – ha fondato un’associazione per dare visibilità alle artiste, professionalizzare le aspiranti street artist e attivare percorsi di educazione alla parità di genere e alla partecipazione civica, attraverso laboratori e conferenze. Il progetto, VenUs UrbanArt, ha così vinto il bando “VitaminaG” della Regione Lazio.

L’arte ha un ruolo importante nei meccanismi di inclusione/esclusione nello spazio pubblico, specialmente in un “museo a cielo aperto” com’è Roma. «Ogni volta che entro nella sala Protomoteca al Campidoglio» racconta Michela Cicculli, presidente della commissione Pari Opportunità del Comune di Roma «mi viene un po’ una presa a male». È una sala istituzionale del Comune «dove vedi quasi solo rappresentazioni maschili: statue, cavalieri, Napoleoni. Riuscire a portare in questi luoghi una narrazione, un’iconografia diversa della città di Roma, sarebbe dirompente: una rivoluzione culturale» spiega Cicculli. La commissione capitolina Pari Opportunità, in collaborazione con Sapienza Università di Roma, ha lanciato un questionario aperto alla cittadinanza per raccogliere impressioni, idee, proposte su come trasformare la città in un’ottica di genere. Il progetto, chiamato Spatium Urbis, vuole indagare «i vissuti reali di chi attraversa Roma tutti i giorni, fra lavoro più o meno retribuito, desideri da realizzare, storie di violenza ed esclusione, percorsi di autonomia e autodeterminazione». Finora sono state raccolte circa 3mila testimonianze; per evitare bias cognitivi, non è stato specificato che le risposte sarebbero state sottoposte a una lettura di genere. La valutazione dei dati raccolti consentirà di individuare le principali criticità e i bisogni delle donne – e in generale delle categorie marginalizzate – nella città. Sarà poi compito della politica recepire le proposte della collettività e definire una strategia per rendere Roma una città più egualitaria e inclusiva. «Una città delle donne» afferma Cicculli «è un vantaggio per la collettività intera, in termini di luoghi ad accessibilità sicura, vivibilità e convivenza democratica».

Le strade alle donne

Una piccola “città delle donne” è nata nel Municipio VIII di Roma grazie al progetto ’nDonnamoVie libere alle donne. Tra largo Veratti (viale Marconi) e piazzale Corinto (San Paolo), come capita spesso a Roma, la toponomastica segue un tema specifico: in questo caso, personaggi legati alle scienze e alla matematica, come Vito Volterra, uno dei dodici professori universitari italiani a rifiutare il giuramento di fedeltà al regime fascista, e Giuseppe Veratti, pioniere, nel Settecento, degli studi sull’“elettricismo” – insieme alla fisica Laura Bassi, sua moglie, una delle primissime donne al mondo a ricoprire una cattedra universitaria. Tuttavia, Laura Bassi, e come lei innumerevoli altre scienziate e matematiche, non sono presenti nelle nostre città quanto i loro corrispettivi uomini. Insieme a Toponomastica femminile, tra i primi in Italia a occuparsi del problema, l’associazione FormaScienza e il dipartimento di Scienze dell’Università Roma Tre, il progetto ’nDonnamo ha costruito un percorso tematico «per affiancare, non sostituire» nomi di donne nella scienza alla toponomastica del Municipio VIII. Così, con l’installazione di nuove targhe e pannelli muniti di biografie e QR code per l’audioguida, oggi il Municipio VIII celebra la memoria di Sofja Kovalevskaja, prima donna a insegnare matematica in un’università europea; Katherine Johnson, l’ingegnera della Nasa che ha “computerizzato” il percorso dell’Apollo 11 verso la Luna; Isabel Morgan, pioniera del vaccino anti-poliomielite; Anna Maria Ciccone, nota per aver impedito ai nazisti di razziare e distruggere l’Istituto di Fisica dell’Università di Pisa, dove – l’unica in tutto il corpo docente – aveva continuato a tenere lezioni nonostante l’occupazione tedesca; e altre donne nelle STEM (sigla per science, technology, engineering, mathematics). La toponomastica alternativa è «un segno di protesta» per rendere visibile la disparità di trattamento, nello spazio pubblico, tra uomini e donne che sono stati attivi nello stesso campo. In un ambito come le STEM, «dove la disparità di genere è molto evidente, il nostro progetto ha l’obiettivo di restituire dei role model, dei modelli» spiega Anna Rizzi di ’nDonnamo. «Non solo per ridare spazio alle donne che sono state escluse, ma anche per proiettare nelle nostre strade una realtà che speriamo di ottenere nella società del futuro». Nel progetto, infatti, sono state coinvolte anche le scuole della zona, con più di 100 studenti che hanno visitato il percorso nel quartiere Marconi. Vivere una città, racconta Francesco Temperini di ’nDonnamo, «non è solo una questione materiale, “devo pagare l’affitto”, ma anche immateriale»: vivere la cultura, la storia, la memoria collettiva e individuale. «Non si tratta semplicemente di mettere una targa nuova accanto a quella vecchia, ma anche raccontare il motivo della scelta e le storie, i vissuti che ci sono dietro».

«Ci siamo detti: troviamo un mezzo di comunicazione che sia d’impatto ma anche fruibile a gran parte della popolazione» raccontano Arianna Alfano e Silveria Mobilio Rodriguez, leader del progetto. «Oltre a quello sulle donne nelle STEM, creeremo altri percorsi, ma stiamo anche iniziando un dialogo con il Municipio VIII per intitolare nuove vie e piazze a nomi di donne; anche altri Municipi a Roma si stanno attivando». Il punto di forza di ’nDonnamo è «coniugare il tema della parità di genere allo storytelling», raccontare e diffondere sul territorio storie di donne (ancora) poco conosciute. 

È una delle strade – celebrando le donne del passato e attivandosi per sostenere quelle del futuro – per costruire, insieme, una città inclusiva.

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