The Ride ep.8 – Conte vs Schlein

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Quando il 26 febbraio scorso è stata eletta Elly Schlein alla guida del Partito Democratico molti piani politici, mai dichiarati apertamente ma custoditi male come il più proverbiale dei segreti di Pulcinella, sono saltati in aria. Il Parlamento era stato eletto da cinque mesi e cinque mesi i partiti avevano passato a studiarsi, annusarsi come gli animali. Tutti erano pronti allo scenario più scontato. E invece.

Enrico Letta era ormai quasi trasparente e al di là del segretario del PD uscente tutti osservavano l’ascesa di Stefano Bonaccini, rampante presidente dell’Emilia-Romagna che dichiarava di voler abbattere il regime delle correnti e dei sultanati locali mentre ne raccoglieva il supporto.

Una gran quantità di amministratori, parlamentari ed europarlamentari era pronta a mettersi finalmente alle spalle il proto-commissariamento subito con Zingaretti e Letta dopo le elezioni del 2018 per finalmente uscire allo scoperto. Con l’elezione di Schlein saltavano quindi i piani interni allo stesso PD, pronto a vivere l’ennesima stagione copia carbone delle precedenti.

Con un PD marcatamente “riformista” che guardasse al centro il Terzo Polo, quando esisteva ancora, era pronto all’alleanza. Formalmente Bonaccini non avrebbe detto di no ai 5 Stelle per non scontentare tutti al primo segnale, ma nella sostanza gli ex renziani si sarebbero ritrovati in una specie di tavolata allargata, la festa di una famiglia spalmata su tre nuclei, tre partiti. Alla guida del PD, invece, arriva una “massimalista” (almeno, così viene definita da chi non ha idea di cosa al livello storico siano effettivamente stati i massimalisti) e una segreteria che di renziano non ha neanche un neo. Neanche due mesi dopo, il Terzo Polo non esiste più, con i due leader ognuno a caccia dei voti non si sa bene di chi.

Il più sorpreso di tutti, però, è stato Giuseppe Conte. Il leader dei 5 Stelle aveva assunto la guida del Movimento nell’estate del 2021, passando tutto il periodo del governo di Mario Draghi a sanguinare sotto i colpi dell’opposizione interna e, soprattutto, delle sferzate del super-tecnico. L’ex presidente della BCE aveva risucchiato tutta la residua popolarità di Conte che poco più di un anno prima si era eretto a padre della Nazione durante la triste fase dell’emergenza Covid. I temi del Movimento, in cui Conte aveva tentato di ripararsi, per quasi sei mesi non avevano retto di fronte all’autorevolezza e alla severa gestione del potere di Draghi.

L’emorragia di voti, almeno nei sondaggi, continuava. Poi, come una zattera in mezzo al mare, due grandi temi su cui rifondare i pentastellati, coerenti con il pacifismo e con l’ambientalismo delle origini: no al termovalorizzatore di Roma perché produce emissioni ed è un modo impattante di smaltire i troppi rifiuti di Roma, e no all’invio di armi all’Ucraina perché le armi uccidono. Conte improvvisamente riprende colore e linfa vitale, con un colpo da maestro riesce a far cadere il governo a un centrodestra voglioso di menare le mani e prendersi tutto, rompe definitivamente con l’alleato draghiano (il PD di Letta) e inizia ad attaccarlo senza sosta, accusandolo di essere tutto ciò che l’elettorato non voleva da un partito di sinistra. Poche parole d’ordine chiare, articolate in un programma elettorale striminzito, bastano per far diventare il Movimento 5 Stelle un soggetto pienamente di sinistra. Quello stesso M5S che appena tre anni prima governava con la Lega di Salvini diventa l’alternativa a sinistra del PD.

Tutto poteva continuare a filare allo stesso modo dopo le elezioni, con uno Stefano Bonaccini poco disposto a essere confuso per un alleato potenziale di Giuseppe Conte, figurarsi per un leader di sinistra. Invece alla guida del PD arriva una leader che difende il reddito di cittadinanza, meno aggressiva sulla guerra e più interessata alla diplomazia, più marcatamente ambientalista.

Il 26 febbraio Conte affida a un tweet il suo malcelato disappunto. «Auguri di buon lavoro a Elly Schlein. Gli elettori PD hanno chiesto un cambiamento rispetto a chi ha barattato le misure del Conte 2 su lavoro, ambiente, povertà, sostegno a imprese e ceto medio con la vuota agenda Draghi. Su questi temi noi abbiamo già da tempo progetti chiari». Dando per scontati, forse volutamente, con questa frettolosa analisi almeno tre fattori: che Schlein sia stata votata solo da elettori PD, che l’agenda del Conte 2 contasse qualcosa nella mente della nuova segretaria e, soprattutto, che i “progetti chiari” del Movimento 5 Stelle bastassero a chi li aveva votati per non trasferire le proprie preferenze verso la nuova leader.

Ma se, come dichiarava Conte il 26 febbraio, i due leader dicono le stesse cose, come possono sfidarsi due partiti ben distinti? La storia non basta, per quanto Conte avesse cercato neanche troppo velatamente di dichiarare il PD corrotto a prescindere dal leader: «Abbiamo toccato con mano, tante volte, quali siano i metodi e la logica di un partito, il PD, che ha un suo sistema di potere». Logica di potere del tutto assente in un Movimento 5 Stelle che a Roma, al livello numerico, si appoggia più sulla lista civica di quella Virginia Raggi impossibilitata a diventare parlamentare per il limite dei mandati? O che si ritrovava a corteggiare Alessandro Di Battista durante la campagna elettorale salvo poi incassare un secco no alla candidatura?

E quindi ecco rispuntare i temi di sempre, contraddizioni su cui colpire la nuova segretaria del PD. Sul termovalorizzatore, voluto dal sindaco di Roma in quota PD Roberto Gualtieri, Schlein ha sospeso il giudizio perché “scelta già presa”. Sulle armi all’Ucraina, Schlein non può certo passare per quel che è, ovvero una pacifista incallita, e continua a sostenere la linea filoatlantica. Conte, quindi, si slancia in commenti coraggiosi sull’Ucraina, allusivi nei confronti di Schlein: «Abbiamo una linea chiara, univoca — spiega — e non ci vergogniamo di ribadirla a chiare lettere in ogni occasione. Per questo firmerò per il referendum sulle armi: è perfettamente in linea con le nostre posizioni».

Sul lavoro, però, è Schlein a non avere problemi a presentarsi alle piazze della CGIL, dove il corregionale Maurizio Landini la accoglie sempre a braccia aperte. Ora, dopo i primi abbracci di Firenze, Conte si fa vedere di meno nelle occasioni in cui è scontato che ci sia la segretaria. Se non ci si può differenziare sul tema, almeno ci si differenzi sulle piazze da frequentare senza essere costretti in baci di Giuda. Schlein, per ora, la prende con filosofia: «Spesso ci incrociamo, altre volte no, ma è del tutto normale».

 

Insomma, fare opposizione separati è un lavoraccio. Anche perché nessuno dei due partiti può dichiararsi del tutto “differente” su temi dirimenti della legislatura, come l’immigrazione su cui il governo di Giorgia Meloni sta puntando tutto. Conte ha consumato le proprie abilità da giratore di parole e già dalla campagna elettorale del 2022 definisce i decreti sicurezza che aveva firmato da presidente del Consiglio “un errore”. Le politiche migratorie italiane erano sotto attacco al livello europeo già con il suo governo, e anche oggi si ritrova a parlare male delle critiche al governo Meloni del ministro dell’Interno francese Gerald Darmanin (anche se preferisce, evidentemente, che lo faccia il più possibile Marco Travaglio in vece sua), rivendicando il diritto di critica esclusivo. Lo stesso vale per Schlein, il cui partito aveva stretto già nel 2017 gli accordi con la Libia per tentare di bloccare le partenze e che oggi si ritrova a condannare sia il governo italiano che il ministro francese per ragioni opposte. Un campo minato, quello dell’immigrazione. Soprattutto perché la critica all’Italia non arriva solo da un governo non particolarmente amico di entrambi come quello fedele a Emmanuel Macron, ma perché la feroce critica a Meloni sulla gestione del fenomeno migratorio arriva anche da un esecutivo che in particolare la segretaria del PD usa spesso come riferimento politico, ovvero quello spagnolo, con la ministra dei Diritti Sociali e segretaria di Podemos Ione Ibarra.

Per ora, i due si sfidano sotto traccia, senza bisogno di strafare ma distanziandosi l’uno dall’altra quel tanto che basta per non confonderli. Ma la prossima sfida, quella sul presidenzialismo, è costituzionale, e non arrivare a un punto comune in tempi brevi rischierebbe di spianare la strada alle riforme di Meloni, che già flirta con l’ex Terzo Polo. Si vedrà solo allora lontano può portare una caccia al consenso basata sulla differenza tra soggetti di opposizione e non sull’attacco congiunto a un governo che più “differente” non potrebbe essere.

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