Quando si descrivono i mali del famigerato “sistema Italia” un esercizio molto comune (e più che legittimo, d’altronde) è quello di calarla nel contesto europeo e internazionale. Che si tratti di crescita economica o libertà d’informazione, chi si interessa d’attualità è abituato sin dalla tenera età a vedere l’Italia come “maglia nera”, “fanalino di coda”, “ultima della classe” nelle più disparate classifiche. Non che ciò sortisca chissà quali effetti: l’Italia è da anni stabilmente penultima in Europa (davanti alla sola Romania) per percentuale di giovani adulti laureati, ma di investimenti per invertire questa tendenza non se ne sono visti.
Lo stesso si può dire per il mondo del lavoro. L’Italia è notoriamente l’unico grande Paese europeo dove i salari non sono aumentati negli ultimi trent’anni (dati OCSE) nonostante l’inflazione. Ma, soprattutto, l’Italia è uno dei soli cinque Paesi dell’Unione Europea a non avere un salario minimo stabilito per legge, insieme a Svezia, Finlandia, Danimarca e Austria.
Una delle obiezioni più frequenti a quanti sostengono che questa mancanza vada in qualche modo sanata è “in Italia per molti lavori c’è già un salario minimo legale”. Ed è vero: la maggior parte dei settori lavorativi gode di un contratto nazionale (CCNL), che prevede una retribuzione minima per chiunque lavori nel settore della logistica, della metalmeccanica, della sanità, dell’agricoltura e via dicendo. Questo meccanismo si regge sul presupposto che i datori di lavoro e i sindacati arrivino a un accordo equo e che tuteli il lavoratore. Ciò, in Italia, succede circa nell’80% dei casi.
Un quinto dei lavoratori italiani, quindi, non ha accesso a uno strumento che garantisca una retribuzione minima. In questo senso, quello italiano il dato peggiore tra i cinque Stati membri dell’Unione Europea che non hanno un salario minimo legale: in Austria a essere protetti dalla contrattazione collettiva sono il 98% dei lavoratori, in Finlandia il 93%, in Svezia il 90% e in Danimarca l’84%. In Italia peraltro esiste una grandissima quantità (oltre 350) di contratti nazionali cosiddetti “pirata”, ovvero firmati da un sindacato non rappresentativo dei lavoratori e sostanzialmente connivente con il datore di lavoro. Questi contratti, dunque, possono scendere ben al di sotto dei salari minimi previsti in altri settori. Come se non bastasse, in alcuni settori le retribuzioni sono misere anche a fronte di contratti “dignitosi” (come nel settore del lavoro domestico, dove le retribuzioni toccano un minimo di 4,62 euro lordi l’ora). Molti contratti sono in fase di rinnovo perché in scadenza ove non proprio scaduti – e per “molti” si intende una solida maggioranza, circa 591 contratti nazionali su 955. Per quanto concerne i 30 contratti più importanti in termini numerici, si tratterebbe di oltre la metà dei dipendenti del settore privati, 6,8 milioni di persone.
A fronte di queste difficoltà, tuttavia, la politica italiana rimane immobile. Per quanto riguarda le posizioni della destra c’è poco da elaborare: nessuno dei tre principali partiti di governo ritiene che il salario minimo legale possa essere una soluzione alla povertà lavorativa. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è spinta a dire che rischierebbe di «essere piuttosto uno specchietto per le allodole per affrontare questa materia», allegando poi l’obiezione di cui sopra: «Sappiamo bene che in Italia la gran parte dei lavoratori dipendenti sono coperti da un contratto collettivo nazionale che hanno gia’ dei salari minimi». Per quella minoranza costretta a un contratto da fame, dunque, nulla da fare.
La posizione della lega non solo ricalca il no di Fratelli d’Italia oggi, ma anche nella scorsa legislatura è stato il più grande oppositore all’approvazione di un salario minimo proposto interno alla maggioranza che sosteneva il governo di Mario Draghi. Secondo il segretario federale Matteo Salvini il principale ostacolo sarebbe la sicurezza economica degli imprenditori danneggiati dall’introduzione del salario minimo. Semmai, l’incentivo a dare paghe maggiori potrebbe arrivare con il taglio delle tasse: «Io sono per le tasse minime. Il salario minimo lo pagano gli imprenditori e se questo Paese non abbassa le tasse che pagano gli imprenditori il salario non c’è per nessuno». In effetti, diminuire tasse è sempre stata l’unica proposta della destra in questo senso: nell’accordo quadro presentato come programma comune tra i tre partiti per le elezioni politiche del 2022 si parla solo di taglio delle imposte per le imprese, di protezione del lavoro autonomo e del taglio del cuneo fiscale (misura su cui il governo sta insistendo molto, pur faticando parecchio a trovare le risorse per finanziarla).
Anche Forza Italia è un partito storicamente “imprenditorialista” e dunque contrario all’introduzione di un salario minimo, facendo da spalla alla Lega nel remare contro alla proposta sorta con il governo Draghi. Silvio Berlusconi, tuttavia, durante la campagna elettorale della scorsa estate si era sperticato in promesse di qualunque tipo. Dopo aver promesso ai più anziani pensioni minime da 1000 euro (proposta snobbata ed etichettata come boutade che come parte di un programma politico) aveva deciso di lanciarsi in una proposta analoga per i giovani, su cui probabilmente credeva di avere un grande ascendente grazie al suo profilo TikTok nuovo di zecca: per combattere la precarietà, Berlusconi proponeva che solo per i nuovi lavoratori fosse istituito uno stipendio minimo di, appunto, 1000 euro.
Apparentemente la stessa compattezza esistente tra alleati di governo esisterebbe anche tra non-alleati di opposizione. La situazione, tuttavia, è un po più complessa.
Il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte e il Partito Democratico di Elly Schlein, “rinnovati” anche solo in parte dai propri leader, rivendicano con forza la proposta di un salario minimo. I due partiti hanno passato gran parte della scorsa legislatura al governo insieme, ma per un motivo o per l’altro il salario minimo legale non ha mai visto la luce durante il secondo esecutivo guidato da Conte né, com’era prevedibile, durante il governo Draghi.
Eppure il Partito Democratico rivendica da tempi non sospetti questa proposta. Si deve risalire, di fatto, a due legislature fa: il segretario e dominus incontrastato dei dem era Matteo Renzi, mai troppo lontano dalle posizioni della destra moderata. Ciononostante, nel programma elettorale del 2018 (anche qui, dopo cinque anni passati al governo) il salario minimo veniva annunciato in pompa magna come risolutorio di molti problemi legati alla precarietà lavorativa. Oggi i due partiti sono molto lontani dai bei giorni del governo e la proposta rimane sulla carta: il Movimento 5 Stelle, in particolare, è grande fautore del salario minimo a 9 euro lordi l’ora.
Una proposta che teoricamente anche l’ormai ex-Terzo Polo aveva dichiarato di voler abbracciare. O meglio, l’aveva dichiarato Carlo Calenda in diretta tv. Oggi, però, le due proposte (nonostante si basino entrambe sul principio dei 9 euro orari lordi) hanno qualche differenza non trascurabile e ciò permette agli esponenti di partito di dedicarsi alla propria attività preferita, ovvero andare a parlarsi addosso in un talk show dandosi dell’incompetente e dello sfruttatore a vicenda. La differenza sta, principalmente, in ciò che Azione e Italia Viva (quando erano ancora un soggetto unico) avevano inteso per “lordo”. La proposta dei centristi prendeva in considerazione più elementi della retribuzione: dunque non solo il valore nominale lordo, ma anche le mensilità aggiuntive e il valore del trattamento di fine rapporto (Tfr). Secondo Francesco Boccia, fresco capogruppo al Senato del PD, questo porterebbe la retribuzione netta a 3 euro l’ora. Anche se così non è, si tratterebbe comunque di una retribuzione minore di un salario minimo che non comprenda né TFR né mensilità aggiuntive.
Sul salario minimo la politica può giocare al solito gioco. A destra si punta tutto sullo sminuire certe proposte di buon senso, bollandole come “ideologiche” e facendo finta che le contro-proposte (più pro-impresa e meno pro-lavoratore) siano meno ideologiche. All’opposizione, vista l’impossibilità di arrivare concretamente a realizzare una proposta che sia il risultato di un compromesso, si cerca di consolidare il proprio elettorato rosicchiando quel che si può da quello altrui. D’altronde, questa legislatura ha compiuto da pochissimo sei mesi. Forse è ancora presto per parlare seriamente di proposte che migliorino le condizioni del mondo del lavoro.