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The Ride ep. 12 – Dopo Berlusconi

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Uno dei tanti passaggi storici che hanno preceduto la morte di Silvio Berlusconi è l’ultimo discorso, quello pronunciato dal San Raffaele di Milano, dopo aver reso note le sue reali condizioni di salute. Il Cavaliere si vanta di essersi comunque presentato in giacca e camicia nonostante tutto. Per la prima volta in trent’anni, però, seduto a una scrivania davanti a una telecamera, Berlusconi guarda i fogli che ha davanti perché non riesce a seguire il gobbo elettronico. 

In quel momento tutti sanno che non è più lui che si occupa della linea del partito, ma nessuno sa di preciso chi stia continuando a prendere le decisioni. D’altronde, era qualcosa di già successo durante l’esperienza del governo di Mario Draghi: da una parte i “governisti”, ovvero ministri di Forza Italia, dall’altra i più battaglieri in cerca di un riconoscimento politico, cioè coloro che in definitiva decisero di far cadere il governo d’accordo con la Lega. I tre governisti di allora non fanno più parte di Forza Italia: Renato Brunetta oggi è presidente del CNEL non affiliato a un partito, mentre Mara Carfagna e Mariastella Gelmini sono punte di diamante di Azione, il soggetto politico di Carlo Calenda.

Questa è la storia di un partito dilaniato da lotte interne perenni nonostante abbia sempre trovato la sintesi in un uomo solo. Forza Italia è il partito di Silvio Berlusconi e in quanto tale il primo vero partito personale della storia della Repubblica, senz’altro l’unico ad avere successo. Torna utile l’esempio del 2013: una decina di candidati alle primarie del Popolo della Libertà, Giorgia Meloni compresa, fino a quando il Cavaliere non si decide a scendere in campo per l’ennesima volta. 

Nel corso degli ultimi mesi Berlusconi, già malato da tempo di leucemia all’insaputa di tutti, aveva tentato di riprendere le redini della situazione, anche scivolando in pesanti gaffe come quelle sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Durante la formazione del governo Forza Italia aveva tentato il braccio di ferro con Giorgia Meloni facendo pesare i propri numeri in Parlamento, prima non votando Ignazio La Russa come presidente del Senato e poi insistendo per l’inserimento nella squadra di governo di Licia Ronzulli, fedelissima del Caimano. Perse entrambe le partite, Berlusconi si era dovuto arrendere anche e soprattutto per le spinte interne a trovare un accordo con Fratelli d’Italia, arrivate in particolare dalla sua compagna Marta Fascina e dal suo successore naturale, Antonio Tajani. Le correnti si erano placate, ma quando tutti si aspettavano che dal San Raffaele Berlusconi si decidesse ad ammettere di non essere più in grado di guidare il partito mettendo nero su bianco una linea di successione, il Cavaliere si era perso in ventuno minuti di discorso senza capo né coda agitando il pericolo del comunismo targato Elly Schlein.

Ora, quindi, il vuoto. Tajani è stato nominato presidente pro tempore, una successione senza alcuna incoronazione. Forza Italia nei sondaggi ha risentito positivamente della morte di Berlusconi nell’immediato ma mantenere quel briciolo di consenso aggiuntivo sarà un’impresa. Soprattutto perché Forza Italia, al momento al governo è poco più che trasparente. Il ministro degli Esteri dovrebbe operare un (neanche troppo) piccolo miracolo per rendere nuovamente attrattivo il partito. Allo stesso tempo, Forza Italia costituisce ancora un tesoretto di voti non trascurabile e soprattutto un numero di bottoni che in Parlamento sono fondamentali per il governo di Giorgia Meloni.

Un successore “innaturale” di Silvio Berlusconi è sempre stato considerato Matteo Renzi: leader carismatico, liberale fino al midollo, appassionato di potere e di relazioni controverse. L’ex segretario del Partito Democratico è stato sempre accusato da sinistra di essere sin troppo vicino a Berlusconi dai tempi del Nazareno. E di certo non sta facendo nulla per smentire queste impressioni dopo la morte del presidente di Forza Italia: Renzi ha girato tutte le tv, private e pubbliche, in cerca di uno spazio per ribadire la genialità di Berlusconi, per elogiarne la visione imprenditoriale “innovativa” (perché “monopolistica” è un aggettivo poco lusinghiero) e per attaccare coloro che continuavano a dar contro al Cavaliere anche da morto. Una ricerca spasmodica di spazio come non se ne vedevano da tempo da parte del senatore di Scandicci. 

Il suo ormai ex-alleato, Carlo Calenda, nei giorni della frattura interna al Terzo Polo lo accusava di non voler sciogliere Italia Viva nella speranza di racimolare i voti di Forza Italia solo per sé, senza spartire nulla con il nascituro (poi abortito) partito unico del centro. Vero è che in quei giorni Berlusconi era ricoverato in condizioni disperate e che la tempistica lasciava presagire un tentativo di Renzi di conquistare da solo i voti della destra moderata. Allo stesso tempo, come già detto, Carlo Calenda si era assicurato il sostegno di almeno una minima parte di quegli elettori con la suddetta campagna acquisti puntellata con Gelmini e Carfagna, quest’ultima addirittura nominata presidente di Azione. Renzi, in ogni caso, un’intervista rilasciata a Repubblica all’indomani della morte dell’ex presidente del Consiglio aveva assicurato di non essere il “royal baby” di Forza Italia e lasciando intuire che si trattasse di una partita tutta interna alla destra.

In effetti, negli stessi giorni del collasso del Terzo Polo un’altra intervista, su un altro giornale, aiutava a capire molto chiaramente quali fossero i piani di Fratelli d’Italia. Interrogato sul Corriere della Sera a proposito di un possibile soggetto di centro da lui guidato, Guido Crosetto rispondeva secco:  «Fratelli d’Italia deve puntare anche a quei voti». Un partito pigliatutto, dunque, non solo attento alle istanze della destra più estrema ma attrattivo anche degli elettori più moderati. Addirittura di quelli del Terzo Polo, oggi in frantumi. E di fronte al possibile sfascio di un altro partito, Forza Italia, il partito di Giorgia Meloni non ha che da attendere. Un retroscena pubblicato su La Stampa mercoledì 14 giugno lasciava intuire che la presidente del Consiglio non avesse alcuna fretta. D’altronde, la sua leadership sulla destra italiana è incontrastata: almeno fino alle elezioni europee del giugno 2024 sarebbe inutile parlare di un partito unico. 

Il progetto, però, sarebbe già rodato. Si tratterebbe, sostanzialmente, di un Popolo della Libertà rovesciato: se nel 2009 Forza Italia e Alleanza Nazionale si erano fusi con una chiara maggioranza berlusconiana, oggi la maggioranza sarebbe ovviamente meloniana. Garantirebbe la continuità a tutti coloro che, in Forza Italia, rischierebbero seriamente di sparire dalla scena politica e porterebbe a Giorgia Meloni altri milioni di voti. Chi rimarrebbe da solo sarebbe Matteo Salvini, l’impaziente e frenetico alleato di governo leghista. Anche lui, ai tempi del governo Draghi, vedendo consumata la propria leadership in favore di Giorgia Meloni, aveva tentato di convincere i forzisti a unirsi in un partito unico, un “Partito Repubblicano” alla statunitense. Non se ne fece nulla.

La morte di Berlusconi ha lasciato una prateria per la caccia al voto a destra. Giorgia Meloni è la chiara favorita in questa gara e ha ormai anni di esperienza nel definirsi, semplicemente, una conservatrice anziché una postfascista. Se davvero puntasse a un partito unico persino la fiamma tricolore che arde sulla tomba di Benito Mussolini potrebbe sparire dal simbolo. Sarebbe l’ultimo, ennesimo, inestimabile regalo di Silvio Berlusconi alla destra più oltranzista in Italia.

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