Tra le prerogative delle cariche politiche c’è anche quella di vigilare su situazioni che vengono loro sottoposte. Gliele sottopone, solitamente, chi ha una voce. Tra i soggetti dotati di voce in Italia, storicamente, ci sono i sindacati. Non è infrequente, quindi, che l’attenzione di parlamentari di diverso colore politico venga richiamata sulla situazione delle carceri dai sindacati della polizia penitenziaria. Il sovraffollamento e le condizioni disumane delle carceri sono una realtà universalmente riconosciuta. E così, quando il presidente della giunta di destra della Regione Lazio, Francesco Rocca, visita il carcere di Regina Coeli a a Roma, non può che affermare «situazione disperata». Parlando, evidentemente, non tanto ai detenuti ma a chi l’aveva invitato, ovvero la direzione del carcere e al sindacato di polizia SAPPE, ovvero coloro che querelarono Ilaria Cucchi per aver esposto le foto del corpo tumefatto del fratello, affermando che le immagini “non provavano nulla”. Allo stesso modo, quando il senatore tifernate in quota PD Walter Verini, membro oggi della commissione Giustizia di Palazzo Madama e ieri di quella di Montecitorio, si occupa delle carceri lo fa spesso partendo da chi ha il potere di sollevare la questione. Ovvero non i detenuti.
«La situazione delle carceri italiane ha aspetti drammatici. Non da oggi. Quella di alcune carceri umbre è drammaticamente peggiorata e rischia di esplodere. Terni in particolare (…) L’ennesimo suicidio la notte scorsa, l’aggressione ad una operatrice sanitaria il giorno precedente. Aggressioni agli agenti, autolesionismo frequente da parte di detenuti. Una situazione esplosiva (…) Il governo balbetta risposte. Assicura, promette, ma nei fatti niente sull’aumento di personale di polizia, sociosanitario, interdisciplinare. Niente per evitare che si trasferiscano a Terni un numero ingestibile di detenuti psichiatrici».
Nonostante le critiche dall’opposizione la posizione del governo è molto simile, sempre incentrata sulla tutela delle forze dell’ordine. A marzo, i parlamentari di Fratelli d’Italia sono tornati a proporre l’abrogazione del reato di tortura, posizione storica di Meloni e condivisa dagli alleati di governo, Matteo Salvini in primis. Il perno della proposta, da sempre, è “permettere agli agenti di fare il proprio lavoro”, cosa impossibile con l’attuale reato di tortura, punibile con condanne fino a 12 anni di carcere e che non si incentra solo sugli abusi fisici: la tortura si estende anche all’abuso psichico e sulle minacce, cosa che per Meloni è inaccettabile.
Gli abusi in divisa sono un fatto frequentemente ignorato proprio perché avvengono lontani dalla luce dei riflettori. Non è raro che vengano perpetrati proprio nei confronti di persone con problemi psichici, come avvenuto a Bari il 27 aprile 2022 (torture per le quali sono state rinviate a giudizio 12 tra agenti penitenziari e infermieri del carcere). E la popolazione carceraria versa per grande parte in queste condizioni: il rapporto Antigone 2023 pubblicato il 31 maggio emerge le diagnosi psichiatriche gravi ogni 100 detenuti erano 9,2 (quasi il 10%); il 20% (percentuale doppia ai detenuti con diagnosi) dei detenuti assumeva stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi ed addirittura il 40,3% sedativi o ipnotici.
Analogamente, quando il quotidiano Domani pubblicò i filmati delle telecamere di Santa Maria Capua Vetere, con agenti indemoniati intenti a pestare e torturare detenuti inermi, si montò un enorme caso i cui risvolti ancora oggi non sono conclusi. Fu facile dimenticarsi, in quel contesto, che le violenze arrivavano come ritorsione per una rivolta.
Si potrebbe immaginare per un momento cosa sarebbe successo se gli agenti di Milano avessero mantenuto il sangue freddo. Una volta individuata la donna transgender avrebbero potuto trarla in stato di fermo con l’accusa che le era stata rivolta, ovvero quella di aver molestato dei bambini. La storia conosciuta dai più, in quel caso, non esisterebbe se non in un comunicato diramato dalla polizia locale milanese. A quel punto, ciò che è successo in strada filmato da un telefono dalla finestra di un ufficio sarebbe potuto tranquillamente avvenire a porte chiuse, forse testimoniato da filmati di telecamere inaccessibili.
Diventa un’ipotesi non così astrusa se si considerasse come strutturale il problema e non legato a qualche mela marcia. La lettera inviata a Ilaria Cucchi da un istruttore della polizia locale milanese, in cui si confessa il metodo violento e oppressivo insegnato alle forze dell’ordine, volto più a punire che a prevenire e contenere, è solo l’ennesima prova della sistematicità della violenza delle divise. Nelle carceri il problema è grave, ma riesce a essere quanto meno monitorato. Altre istituzioni simili, come i Centri di permanenza per il rimpatrio, non godono dello stesso grado di trasparenza, il che è tutto dire. Essendo gestite tramite appalti e dunque tendenzialmente al ribasso in quanto a costi, nei CPR spesso il personale non è in grado di gestire la disperazione di chi arriva a gesti eclatanti per protesta, dallo sciopero della fame in su. Il ricorso all’intervento delle forze dell’ordine, perciò, è frequente. A dicembre, un detenuto del CPR di via Corelli a Milano si era cucito la bocca con il fil di ferro. Chiamati a intervenire, gli agenti di polizia anziché portarlo in infermeria lo avevano immobilizzato per strappargli il filo dalle labbra a mani nude.
Le posizioni dei partiti politici sugli abusi in divisa difficilmente sono sovrapponibili, ma l’attività parlamentare si muove in ritardo: il reato di tortura è arrivato nel 2017, con sedici anni di ritardo rispetto alla mattanza del G8 di Genova, della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto. Allo stesso tempo la violenza sistematica non viene punita quasi mai, in nome di una santificazione dei tutori della sicurezza che, nella caccia al voto, non passa mai di moda.