Quando abbiamo avuto l’opportunità di leggere il libro “Solo Amore” edito da Minimum Fax ci è venuta in mente con grande spontaneità l’idea di farlo recensire da tre voci romane diverse – per età ed esperienze – che hanno avuto la possibilità di entrare in contatto e crescere con la musica dei Colle Der Fomento in momenti temporalmente distanti. Per noi romani Under 35 i Colle sono sempre stati parte del nostro patrimonio e background culturale. Un po’ per l’amore reciproco, un po’ per come Danno e Masito l’hanno saputa raccontare nel tempo, un po’ – probabilmente – perché sono rimasti veri, semplici e genuini detentori di quell’hip-hop hardcore.
Abbiamo scelto tre redattori: il primo nato nel 1989, quando il CDF cominciava a scoprire cosa fosse l’Hip-Hop americano; il secondo nel 1997, a cavallo tra i loro primi due album e la terza nata nel 2002, praticamente all’inizio della lunga pausa che li porterà cinque anni più tardi ad uscire con Anima e Ghiaccio. Speriamo che le loro differenti percezioni riguardo questo libro possano stimolarvi.
Alessio Zaccardini - Classe 1989
Quando al padre di William Wallace, nel film Braveheart, chiedono come potesse immaginare di riuscire a vincere contro gli inglesi, all’epoca il più forte esercito del mondo, quando gli scozzesi erano pochi e male organizzati lui risponde “ma non dobbiamo batterli, solo combatterli”. Ecco, questa credo sia la metafora più adatta per descrivere i quasi trent’anni d’attività de il Colle der Fomento. Al posto degli inglesi le Major e la cultura dell’apparire, al posto dei kilt le loro barre, ma il concetto è lo stesso. Ventotto anni passati contro, nessuno di questi con la testa chinata, nessun rispetto per logiche di mercato che hanno sempre visto i Maestri di Cerimonie come dei burattini da vestire d’oro e da vendere alla massa. Loro pensano diverso, al punto che, dopo l’uscita del quarto disco Adversus, hanno deciso di rilasciare un ciclo di interviste a Fabio Piccolino per Minimum Fax per raccontare la loro storia integralmente, traccia dopo traccia.
480 pagine. Un’opera immensa in cui Danno e Masito, anzi, no, Simone e Massimiliano decidono per la prima volta in prosa di togliersi le maschere indossate negli anni, un po’ come il mempo giapponese, simbolo iconico del loro ultimo disco; oltre a qualche sassolino. Quasi cinquecento pagine in cui le voci di chi ha visto la nascita dell’hip-hop italiano si mischiano, si sommano e si raccordano dando vita a un’armonia di ricordi in grado di trasportare il lettore in quella città un po’ selvaggia che era Roma nei primi anni ’90 e che ormai non esiste quasi più. Dove per taggare si cercava “la plastica e il metallo per scrivere a tempera sul liscio, in una città dove tutto è pietra e marmo”.
Per un romano di oltre trent’anni, che stava imparando a camminare quando il Colle cercava di missare le proprie tracce in maniera artigianale, è difficile, leggendo il libro, non empatizzare con le loro battaglie “puriste”, di vite spese più per passione, che per guadagno personale. Solo che finiti i venti, in genere, ci hanno insegnato che è accettabile e comprensibile stancarsi per lotte che sembrano insormontabili e, subdolamente, si fa sempre più strada il concetto del “ma alla fine a me che me ne fotte”. Il Colle, invece, quella schiena l’ha mantenuta dritta. Mentre altri si rivestivano di Tommy Hilfiger, ananas d’oro e pagliacciate varie, il Colle continuava a indossare i propri vestiti perché “non volevamo fare da manichini per un’azienda di cui non avevamo nessuna stima”. A costo di rompere il contratto con la Virgin, a costo di trovare lavori secondari, pur di mantenersi per poter fare la loro musica senza alcuna ingerenza esterna. A costo d’incontrarsi in un garage tutte le sere per far uscire un album composto di anima e ghiaccio per rendere omaggio al loro solo vero amore: l’hip-hop. Lavorare dalla mattina alla sera, da commessi nei negozi di dischi al profilo Twitter di Anno Zero di Santoro, solo per il privilegio di potersi mischiare con il loro pubblico nei week-end, in qualsiasi parte d’Italia. Solo per poter rispondere, con Odio Pieno e Solo Amore, a chi dice che l’hip-hop è morto, che il Colle farà rap sulle loro tombe. Del resto, non prendiamoci per il culo, i Romani lo sanno che la nostra città è stata costruita su otto colli. Questo libro racconta la rabbia, i sacrifici e la determinazione necessaria a costruire, tra tutti, il più fomentante.
Matteo Benati - Classe 1997
Se esco da casa mia per portare fuori il cane vado al parco di Monte Ciocci, dove c’è una vista bellissima su San Pietro e un po’ tutta Roma. Sul muretto del belvedere c’è scritta una frase “quante volte hai visto il cielo sopra Roma e hai detto quant’è bello“, è una frase dei Colle Der Fomento, la mia preferita nonché la loro più famosa. È strano constatare che la frase sia tratta da un brano inteso quasi come un riempitivo dal gruppo, ”Il Cielo Su Roma”, senza troppe pretese, come raccontato da Danno stesso nel libro. Gli anni del liceo sono quelli in cui mia sorella maggiore me li ha fatti conoscere, anni in cui gli studenti delle scuole superiori romane identificavano nei Colle Der Fomento un riferimento culturale fondamentale, almeno nell’ ”attitude”. Ricordo di aver cominciato lentamente a vederli non solo come un gruppo old-school sempre presente nelle playlist delle occupazioni dei licei capitolini, ma anche come una vera e propria forza innovatrice della musica italiana, capace non solo di importare il loro stile da oltre oceano ma anche di innovarlo e caratterizzarlo all’interno del contesto culturale romano e italiano. In quegli anni i Colle Der Fomento erano dappertutto e da nessuna parte contemporaneamente, anni in cui i live e le collaborazioni fioccavano ma mancava una cosa fondamentale: un disco, una nuova manciata di canzoni con cui la mia generazione potesse immedesimarsi, non arrivava. Persa prima la speranza e poi l’attenzione, al secondo anno di università, nel 2018, improvvisamente uscì Adversus.
Musicalmente parlando i Colle si erano persi 11 anni decisivi per il rap e l’hip hop italiano e tornavano su una scena più che satura, eppure riuscirono a convincere tutti, dagli integralisti old school ai fan di Marracash, dai collettivi ai ragazzi di periferia. Con un sound che mescolava chitarre grunge all’hip hop più puro, con una teatralità matura e non più caricaturale, e dei testi evoluti non solo per i contenuti ma anche per le metriche, Adversus aveva il sapore agrodolce dei progetti maturi e maturati – “un’interminabile tela di Penelope” è come Fabio Piccolino lo descrive – in cui “l’avversità”, più che essere verso l’esterno, è verso se stessi e tutto quello che si vorrebbe cambiare al proprio interno.
Martina Achilli - Classe 2002
Con le prime pagine di questo libro ci si sveglia bruscamente in un’immensa Roma degli anni Novanta – frammentata, brulicante, carica di sentimenti politici contrastanti, di sogni, d’odio, di desideri brucianti. Il viaggio comincia ancor prima di accorgersene: a parlare sono Danno e Masito, o meglio, quelli che ancora sono Simone Eleuteri e Massimiliano Piluzzi, a condurci le parole di Fabio Piccolino, intervalli necessari che ci permettono di soffermarci, di interiorizzare. La stazione Roma-Nomentana abbandonata, uno scheletro vuoto. Quartiere Africano, piazza Vescovio, Trieste-Salario, le roccaforti della destra romana. Piazzale Flaminio, per anni il fulcro della vita hip-hop romana. Il liceo Giulio Cesare, in un quartiere dove “si rischiava di prendere le botte anche solo per come si andava in giro vestiti o se si ascoltava un certo tipo di musica.” La scritta “PAOLO VIVE”, tra viale Libia e piazza Gondar, dove paradossalmente inizia questa storia – è lì che si incontrano le due voci protagoniste, ancora liceali, adolescenti. Per un ventenne di oggi, intraprendere questo viaggio genera una sensazione strana, per un
ventenne di Roma ancora di più: è difficile leggere del proprio quartiere e immaginarlo in fiamme. Credere che la musica di Danno e di Masito, dei Colle Der Fomento, nasca tra le strade dove ora in confronto regna quasi la pace sembra impensabile, leggere che la loro rabbia, la loro energia vera sia emersa nonostante questo e in contrapposizione a questo dona una nuova carica, un fomento che oggi ha il sapore di qualcosa di raro, come un vago ricordo che fatica ad esistere ancora. Appena ventenni, dal canto loro invece, i Colle vedono Odio Pieno, il loro primo album, uscire nei negozi di dischi nel 1996 – un titolo forte ma rappresentativo dell’attitudine di quegli anni, in cui “il rap non aveva pubblico e quindi non venivi preso sul serio e odiato”, e spiega quanto già al tempo prendessero seriamente la loro passione. “Più eravamo esclusi dalla società”, dice Masito, “più cresceva la nostra consapevolezza di quello che facevamo, e più ci sembrava giusto farlo”. Hanno la forza di un uragano: sono pronti a convertire l’amore riposto nel rap e nell’hip-hop in odio d’altrettanta intensità per chiunque attenti alla purezza dei loro intenti.
I Colle Der Fomento non hanno mai avuto intenzione di trattare contenuti da ragazzini, pur essendolo loro per primi agli inizi, sono sempre rimasti solo hardcore. Nel corso di questa storia li si vedrà scontrarsi a più riprese con la televisione, con i mezzi mediatici che già dal principio sono fonte di appiattimento e di semplificazione; con i giornalisti, che contribuivano a veicolare messaggi inesatti e ad apportare risonanze indesiderate – i Colle Der Fomento cercano qualcuno che ami il rap come lo amano loro, che indaghi le parole, che presti attenzione ai messaggi tra le righe dei testi. “Noi siamo i Colle der Fomento: sulla testa un cappello, nella testa molto più di un cappello”. È un cammino arduo e soprattutto è un’esigenza che traspare poco ad oggi, difficile che infiammi gli animi degli artisti contemporanei – se ieri era difficile avere a che fare con un pubblico attento, oggi la battaglia da combattere è ancora più ardua, e oltretutto si fatica ad intravedere qualcuno che abbia voglia di sporcarsi le mani per combatterla. In questo senso, si è realizzato lo scenario quasi profetizzato da Scienza Doppia H (1999) e in parte descritto in seguito da Anima e Ghiaccio (2007).
Ho un amico che fa musica, più d’uno a dire il vero, o almeno così dicono di loro. Quando i Colle scrivono “Quando arriverà il momento”, durante la lettura del ciclo di interviste di Piccolini non ho potuto fare a meno di pensare che il libro abbia creato le esatte circostanze per quel momento. Perché non può essercene uno più opportuno di questo per ascoltare Danno e Masito, insieme a molte altre voci, parlare della propria storia come se li si avesse davanti, conoscere le basi delle proprie radici, leggere di come agli inizi non ci fosse nulla di ciò che ora vediamo intorno, dei primi ad occuparsi di rap italiano, di una gavetta lunga e vissuta come oggi non se ne vedono più. È il momento di “far venire i nodi al pettine”, di ripercorrere una vera storia del rap italiano dall’inizio, per guardare ad oggi con occhi diversi, più consapevoli. Per guardare a “questa vita che scorre, attraversata e contaminata da tutte quelle precedenti”.
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