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Short Theatre 2021: transfemminista, ecologista, postcoloniale

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Appena mi affaccio agli uffici di Short Theatre presso la Pelanda del Mattatoio, zona Testaccio di Roma, Piersandra di Matteo, nuova direttrice artistica di Short Theatre, che quest’anno curava la programmazione della 16esima edizione in collaborazione con Francesca Corona, mi accoglie con un sorriso raggiante. Mi invita ad aspettarla “al divano rosso, che dovrebbe essere comodo”, da cui riesco a sbirciare le prove della performance Quartiers libres di Nadia Beugré, che subito mi incuriosisce.

Piersandra mi raggiunge e insieme ci spostiamo nella zona ristoro, sopra di noi le installazioni del collettivo bolognese CHEAP di street poster art. «Qualche tempo fa, in collaborazione col Comune di Bologna, hanno istituito un progetto di affissioni pubbliche: campagne contro i confini, per i diritti delle donne e per il diritto al piacere» mi racconta lei. «Riescono a creare un immaginari inediti rivolti a tutte e tutti, al passante che si imbatte in modo fortuito con l’opera che campeggia nello spazio pubblico. È lì e inevitabilmente ti colpisce: questi poster sono qualcosa che si infiltra nel tessuto urbano. Cheap è un collettivo realmente in grado di appropriarsi di un immaginario e farlo diventare ambiente di socialità. L’installazione che vedi è una creazione collettiva che punta su un’unica questione radicale, il futuro e la possibilità di inventarlo con desideri e richieste, è un invito a nutrire il tempo dello stare, soprattutto all’indomani della pandemia, dove è tutto da reinventare».

Performare è politica

Nelle arti performative, mi dice, il confine tra arte e attivismo è uno spazio di negoziazione: per alcuni lavori è necessario considerare la performatività come un agire politico. Il festival, in particolare, non è soltanto un palinsesto, un programma di spettacoli, ma la costruzione di un ambiente. Si contemplano tutti gli spazi all’interno dei quali la rassegna si manifesta – in particolare quello urbano di Piazza Testaccio col progetto Reciprocity, ideato da Short Theatre per promuovere la creazione di percorsi partecipativi. Con Reciprocity il baricentro del festival si sposta nelle pieghe della città, cercando la creazione di comunità temporanee fondate su poetiche della relazione capaci di dare vita a forme di aggregazione e condivisione nello spazio urbano. Ciò che Piersandra si augura è «che questo possa attivare una rete di alleanze tra varie associazioni locali da costruire nel tempo e far maturare». Un esempio di questo tipo di relazione è lo spettacolo Frontera/ Proseciòn – un ritual del agua di Amanda Piña, artista cileno-messicana, che porta negli spazi pubblici alcune danze tradizionali di alcuni Paesi del Sud America.

Il lavoro è in collaborazione con la boutique sociale Coloriage, che ha tessuto le gonne folkloristiche indossate dai performer; e con altre associazioni e realtà sociali e culturali come Lucha y Siesta, Asinitas, MaTeMù, CivicoZero, Carrozzerie n.o.t, SìR – Sharing in Rom. Considerato il processo lavorativo dietro la performance, che si conclude con una manifestazione in uno spazio pubblico, è inevitabile che si verifichi una contaminazione reciproca tra l’ambiente circostante, le persone che lo attraversano quotidianamente e le realtà che partecipano alla formazione del progetto. Tutti questi fattori si traducono in elementi trasformativi sia delle varie performance, che mutano ed evolvono col proseguire del festival a seconda della risposta emotiva che le artiste e gli artisti ricevono dal pubblico; sia della verità secondo cui scegliamo di aderire al mondo e al suo cambiamento.

Il festival ambisce a cambiare la percezione della realtà rispetto alla capacità che ha di imporre altri immaginari; questo può avvenire attraverso la visione di uno spettacolo, ma anche con la convocazione di un tema ludico, che invita a divertirsi insieme. L’arte, specie se sotto forma di festival, non deve essere pedagogica. «Il linguaggio può essere incisivo, bastardo, senza per forza rendere l’arte dichiarativa, didattica, didascalica» – sottolinea la direttrice. Una nuova narrazione, quindi, non può che essere creata collettivamente: il festival pone l’attenzione su vari temi, sui quali apre riflessioni e dibattiti; siamo noi a doverli percepire e sviluppare per poi portarli nelle nostre azioni ordinarie in rapporto con l’esterno. «L’obiettivo è creare la possibilità che le arti della performance siano in fondo un’esperienza che si infila nella trama del quotidiano e che ne riscrive anche solo temporalmente i connotati».

Gli obiettivi di Short Theatre

La realtà che Short Theatre 2021 desidera costruire è transfemminista, ecologista e postcoloniale. Di conseguenza, il tema dell’autodeterminazione è ricorrente e fondamentale in molti spettacoli, considerato che le arti performative si fondano sulle relazioni tra corpi, effetti e materia, sulla determinata e cosciente occupazione di uno spazio. Quest’ultimo elemento, l’occupazione fisica degli spazi, potrebbe sembrare in contrasto col tema di questa edizione, dal titolo The Voice This Time. Piersandra però mi fa notare come non solo lo spazio possa essere occupato dal suono, ma anche di come il diritto a essere visti sia strettamente legato al diritto di prendere parola e farsi ascoltare. «Negli anni recenti la riflessione sul visivo è stata centrale» mi dice, «ma credo che uno spazio importante vada dato alle immagini acustiche, a ciò che vive nello scarto tra orecchio e occhio, ampliare il livello della percezione. La voce è spazio: con il parlare si può designare infatti un proprio “spazio vocalico” che ti impressiona tanto quanto qualcosa che colpisce lo sguardo, ma in modo più implicito e sotterraneo. Portare l’attenzione sulla voce significa occuparsi dell’ascolto. Il suono inoltre può rendere un oggetto gigantesco o piccolissimo – a seconda dei volumi per esempio -, partecipa quindi alla costituzione dello spazio, e apre la possibilità di designarne uno politico: chi ha il diritto di parlare e a chi questo diritto viene negato? Si rivendica il diritto a essere ascoltati e ciò è possibile in un campo dinamico che consente l’instaurarsi di relazioni. Questa è la dimensione che mi interessava convocare».

Avere voce significa poter esporre finalmente nuove narrazioni. Short Theatre 2021, a questo proposito, si impegna nella decostruzione delle logiche neocoloniali e lo fa attraverso una serie di importanti spettacoli. «Nadia Beugré, la coreografa che hai visto dirigere le prove prima», prosegue Di Matteo, «sta affrontando nella sua performance il tema del tabù, della libertà di espressione, della rappresentazione del corpo nero femminile, problematizza lo sguardo bianco sul corpo nero; allo stesso tempo Muna Mussie, artista italiana nata in Eritrea, indaga la questione della rappresentazione del Sé e dello sguardo che si esercita dall’esterno sul corpo, tema che collide con quello identitario. In Curva Cieca ci descrive, attraverso una sottile drammaturgia di oggetti, il suo apprendimento della lingua tigrina (parlata da sua madre), attraverso le lezioni di Filmon, ragazzo ceco di origine eritrea. Lui le ripercorre i segni linguistici di un vecchio abecedario, e insieme compiono un viaggio dentro le proprie radici. In questo lavoro ci sono riapprendimento e riparazione». Anche Jaha Koo, artista coreano, si impegna in una ricerca che intreccia la propria biografia e la storia del suo paese. Lo spettacolo che porta a Short Theatre, The History of the Korean Western Theatre, è l’ultimo capitolo di una trilogia nel corso della quale si interroga su come il teatro coreano sia stato e sia ancora influenzato dalla cultura occidentale e dalle sue forme di rappresentazione: è considerata più importante la messa in scena di un pezzo di Shakespeare piuttosto che quella di un autore autoctono.

La performance che però più mi intriga, e ammetto in questo di essere stata influenzata dalla descrizione che me ne ha fatto Piersandra, è Nehanda, di Nora Chipaumire, presentato nella sua prima europea al Teatro Argentina il 12 e 13 settembre. Citando il programma del festival: «Concepita come un’opera di teatro musicale, Nehanda indaga la leggenda di uno spirito potente, venerato dal popolo Shona, originario dello Zimbabwe e del Mozambico Centrale: questo spirito è Nehanda e abita solo le donne. Alla fine del XIX secolo, la medium di Nehanda era Charwe Nyakasikana, un’eroica leader rivoluzionaria che organizzò le prime rivolte nella Rhodesia del Sud occupata dai britannici nel 1896-97. Insieme a quattro compagne, fu catturata, e dopo aver ottenuto un processo sommario, giustiziata dai colonizzatori che ordinarono di inviare le sue ossa e il teschio nel Regno Unito».

Centrali in quest’opera sono la dimensione prima abusiva e poi di riappropriazione del corpo e della voce, come anche il ripensamento del genere. Elementi, questi, che, ancora una volta, permettono un generale ripensamento degli immaginari e si pongono come ottima conclusione e sunto di un festival che guarda al futuro. E che lo fa costruendo un percorso di autodeterminazione e consapevolezza funzionale al mondo dell’arte e dell’attivismo, che, come ho imparato, si appartengono profondamente.

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