Nel video di Stefania dei Kalush Orchestra, la canzone che ha vinto l’EuroVision nel 2022, a un certo punto, verso la metà, si vede una bambina accompagnata da una soldatessa che arriva in una palestra adibita a campo profughi. La scena è girata in un grande salone con letti, materassi, brandine ammassate una accanto all’altra, il tutto sistemato alla meglio. Il video, online da un anno, ha più di 60 milioni di visualizzazioni. Sessanta milioni di persone hanno visto quella stanza, quella palestra, quelle persone.
Non si tratta però soltanto di un videoclip, e l’ambientazione non è una semplice scenografia: non solo quella palestra esiste davvero, ma è davvero un campo profughi, che si trova a Stryiskyi Park, Leopoli, Ucraina occidentale. Il campo si trova all’interno di un parco cittadino – dall’altra estremità rispetto a una delle sedi dell’Università di Leopoli. In questa zona, come in diverse altre parti della città, la prima cosa che emerge sono i contrasti. Il parco è curatissimo, una zona ombreggiata e curiosamente pacifica, l’edificio che ospita l’Università modernissimo, curato, pulito, perfettamente operativo. Da fuori persino la palestra-campo è gradevole alla vista, in un palazzo ottocentesco dai colori pastello. Varcando la soglia si entra però in un altro universo, fatto di sfollati interni accatastati, senza spazio né privacy. È fine agosto e ai residenti nella struttura è stato appena comunicato che verranno sgomberati per essere trasferiti a circa trecento chilometri dalla città.
Le palestre in realtà sono due, quelle del politecnico della città. Sono state messe a disposizione dall’inizio della guerra per ospitare gli sfollati delle regioni più colpite. A Leopoli la situazione è più tranquilla che nel resto del Paese, e così la città è diventata da subito e in maniera molto naturale un punto di raccolta per chiunque avesse dovuto abbandonare la propria terra e la propria casa, più vicine al confine con la Russia. A parte alcune eccezioni, come il campo di Sykhiv, non ci sono molti altri campi formali in città, riconosciuti e gestiti a livello governativo. La maggior parte, tra cui le due palestre di Stryiskyi, sono insediamenti più o meno precari, creati per accogliere chi arriva al bisogno.
Quella di Stryiskyi è una realtà abbastanza ben organizzata, principalmente autogestita dai residenti, con l’aiuto di qualche volontario e la supervisione di un coordinatore. La situazione nel campo però è pessima. Tra le strutture informali, è tra quelle con le condizioni igienico-sanitarie peggiori. I letti, proprio come si vede nel video, sono posizionati uno accanto all’altro nella grande stanza, non c’è privacy né alcuna divisione degli spazi. Nel migliore dei casi c’è qualche separatore di fortuna. Qui abitano persone provenienti dal Donbass, da Kharkiv e Kherson, Donetsk e Lugantsk.
La guerra non sempre è immediatamente visibile a Leopoli. È una città dove si continua a vivere quanto e come si può. Eppure a Stryiskyi è tangibile, evidente, presente nelle storie di profughi e sfollati interni. Negli ultimi giorni di attività, nel campo abitano ancora un centinaio di persone, ma nei periodi di maggior afflusso la struttura ne ha ospitate anche più di trecento. La maggior parte, quando arriviamo, sta finendo di fare i bagagli, i pochi effetti personali chiusi in sacchetti o valigie di fortuna, qualche coperta, qualche cuscino. Fino ad oggi e per l’ultimo anno e mezzo questa è stata l’unica casa che hanno conosciuto. E così se ne prendono cura, fino all’ultimo momento. Molti sono nervosi e spaventati, non hanno alcuna voglia di lasciare questo posto che ormai conoscono bene, per un nuovo ignoto.
La municipalità ha deciso che a partire da settembre le palestre devono essere liberate, per tornare a essere utilizzate dagli studenti del politecnico con la riapertura dell’anno accademico. La guerra dura da più di un anno e mezzo, la società civile desidera sempre più tornare a una parvenza di normalità, comprensibilmente.
È stata quindi proposta ai profughi una nuova sistemazione. Anche se il responsabile garantisce che le condizioni siano più dignitose, la struttura si trova a più di cento chilometri dalla città, vicino al confine con la Polonia, in un paesino che si chiama Dobromyl’.
Mancano pochi giorni allo sgombero e i residenti sono agitati, preoccupati. Certo, ne sono consapevoli, questa sistemazione non è molto, non è quasi nulla, ma quel tetto e quelle pareti permettono loro di stare al sicuro, di ricevere assistenza e aiuti umanitari, di cercare lavoro in città, mandare i figli a scuola. Sono la base per potersi permettere di sperare in qualcosa di meglio. A Dobromyl’ gli aiuti non arrivano, nessuna associazione umanitaria si può permettere di arrivare così lontano.
Mihail, uno degli sfollati, sta in piedi al centro della stanza dove ha vissuto per mesi e che tra pochi giorni dovrà lasciare. Dietro, un capannello di una decina di persona dall’aria corrucciata si assicura che lui, evidentemente eletto loro portavoce, mi illustri a dovere la situazione: vogliono che racconti la loro storia. «A Dobromyl’,» mi spiega lui, «non ci sono servizi, non c’è un ospedale, c’è solo una piccola farmacia, dove i farmaci arrivano ogni tanto». Molti dei residenti hanno problemi cronici dovuti per esempio all’insonnia e allo stress, e hanno bisogno di terapie continuative. «Anche per il lavoro» continua Mihail, «non sappiamo come fare». Anche volendo raggiungere la città per lavoro o servizi, ci sono soltanto due bus al giorno, uno alle quattro di mattina e uno alle quattro di pomeriggio, che costano 200 Grivnie, l’equivalente di cinque euro. Può non sembrare molto, ma basti pensare che qui in media un pasto in un bar o una mensa costa 80 Grivnie.
Anche l’istruzione è un problema: «diversi di noi hanno figli, e vorremmo mandarli a scuola. Ci mandano via da qui perché gli studenti possano tornare a usare le palestre. Vorremmo soltanto anche noi che i nostri figli potessero finalmente accedere all’istruzione, che manca da due anni». Gli aiuti della comunità internazionale sono concentrati a Leopoli, e verrebbero quindi a mancare proprio a quella parte della popolazione che più ne ha bisogno. L’amministrazione non ha dato alcuna alternativa per restare in città, molte delle persone con cui parlo hanno fatto richiesta per un posto nel campo di Sykhiv, ma al momento non c’è posto e anche la lista d’attesa è lunga.
Per richiedere soluzioni abitative differenti c’è un ulteriore difficoltà: c’è bisogno di un documento, che non tutti hanno. Viktor ha quasi settant’anni, vorrebbe restare a Leopoli perché ha bisogno di assistenza medica e legale: «sono dovuto fuggire all’improvviso da casa mia, a Bachmut, durante i bombardamenti, la mia casa è stata distrutta, e tutti i miei documenti sono rimasti lì».
Elena è di Kharkiv e cammina a fatica a causa di una ferita, ha difficoltà a spostarsi. È arrivata qui lo scorso marzo dopo i bombardamenti sulla città. Qui poteva contare su una comunità che l’aiutasse, che le desse un appoggio che a Dobromyl’ non avrà più. Mihail spiega che, al di là delle singole difficoltà pratiche, il cuore del problema è proprio questo: «qui avevamo ricostruito con fatica una nostra realtà, fatta prima di tutto di legami che non potremo mantenere».