La narrazione dei femminicidi effettuata dalla cronaca italiana prevede diverse modalità di descrizione delle donne implicate negli eventi. A metà tra il tono eccessivamente accusatorio o vittimistico, si va a creare una frattura tra la realtà quotidiana e quanto raccontato, a causa dell’uso improprio del linguaggio. Qui trovate alcuni estratti della conversazione che ha ispirato le vignette di Kalina Muhova.
Da uomo che si interessa a questi argomenti io vedo diversi punti critici nell’attuale narrazione dei femminicidi, ma anche, più in generale, in altre forme delle violenze di genere verso le donne, e non solo. Il primo punto critico è la continua personificazione eccezionale del colpevole, o presunto tale; il fatto che si continui costantemente a narrare di episodi sui femminicidi come se fatti da una persona “non normale”, “matto”, “estraneo”, “aveva caldo”, “era rimasto senza lavoro” – parole prese dai giornali che riporto sempre nei seminari per i giornalisti. Tutte queste narrazioni prendono l’individuo e lo mettono fuori da una norma, e questa concezione di eccezionalità, se non è esplicitamente un racconto giustificatorio, è sicuramente un racconto deresponsabilizzante perché non permette di far capire al resto del genere maschile che non si tratta di una situazione eccezionale, ma la fine di un percorso violento. Il femminicida non è uno strano, particolare, alterato ma è uno assolutamente come tutti gli altri che immagina come possibile ed effettuabile quel gesto lì. Il non volerlo raccontare in questo modo non permette una narrazione di genere al maschio bianco etero cis; il considerarsi come genere, sottoposto a una serie di pressioni e di condizionamenti sociali, ti porta tra le altre cose ad ammettere il gesto femminicida come un qualcosa influenzato da eventi esterni, definito come inevitabile. E questa è un’altra di quelle narrazioni da evitare perché non permettono mai di assumere di una visione sistemica del fenomeno “femminicidio”.
Il solito discorso scusante del genere maschile, “ma io non cosi, non tutti gli uomini sono cosi” nasce da una personificazione dell’evento che impedisce il discorso di genere. Seconda conseguenza critica: non si riesce a far passare il motivo per cui a un certo punto abbiamo iniziato a chiamare questi atti di violenza con un nome particolare, cioè il fatto che queste donne vengono uccise in quanto donne, perché il loro esercitare certi comportamenti e certi diritti non è ammesso da una cultura che li vede come devianti, scorretti o peggio ancora dei comportamenti che distruggono l’altra identità. Questi due punti non vengono mai fuori sia nella cronaca spicciola sia in quelli di critica, ogni tanto pubblicati e firmati da psico-esperti chiamati per l’occasione, che dimostrano ogni volta tutta la loro totale impreparazione sull’argomento.
Lorenzo Gasparrini, scrittore e filosofo femminista
Le narrazioni giornalistiche attuali tendono ad assumere la prospettiva dell’autore del femminicidio, rappresentato, nella maggior parte dei casi, come una sorta di vittima. Il lettore è portato a immedesimarsi con l’aggressore, la voce della vittima è tacitata. Purtroppo questa decisione contribuisce a mantenere inalterato l’impianto della violenza di genere, il suo fondamento: si cerca di trovare una giustificazione per
l’operato dell’aggressore, o quantomeno di suggerire una forma di empatia col suo comportamento “troppo umano”, fatto che troppo spesso si traduce in una più o meno velata colpevolizzazione della vittima reale. Di fondo, in questo modo, non si affronta la questione della violenza di genere e dei femminicidi come un dato sistemico e strutturale delle nostre culture e società, relegandolo ad una
dimensione privata i cui codici relazionali sono considerati “naturali”.
Nella narrazione mediatica dei femminicidi e dei casi di violenza di genere ravviso poi un’altra criticità: la vittima viene uccisa perché, in qualche modo, agisce. Si autodetermina, vuole separarsi, vuole spazio per sé, oppure si oppone fisicamente all’aggressione. In qualche modo, si suggerisce che opporsi alla violenza
aggravi la situazione, che occorra comportarsi non come soggettività agenti, ma come oggetto pronto ad accogliere la violenza altrui, dell’unico “soggetto” legittimato ad essere tale. Ravviso nel reiterarsi delle violenze di genere una sorta di processo performativo di soggettivazione attraverso l’inferiorizzazione dell’altra: sono un soggetto a pieno titolo solo se esercito controllo e supremazia su un’altra soggettività,
che diviene oggetto. Non basta che questo accada una volta, c’è bisogno di una conferma reiterata, come un atto rituale che confermi la verità della superiorità del “maschio aggressore” e questa ritualità è data dai continui atti di violenza. Questi portano l’altra persona a sentirsi senza via di fuga, impotente, si accettano gli insulti, le botte, si accetta la riduzione della sfera intima.
Molte narrazioni mediatiche avallano un sotto testo decisamente pericoloso: “però se tu fai il tuo dovere, se rimani nei ranghi, non succede niente”. Ma se valesse la tesi della non opposizione, per quale ragione, nonostante l’accettazione, gli atti di violenza continuano, intensificandosi ad ogni minimo “errore”? È evidente che l’accettazione non basta mai. Che è proprio una esigenza della costruzione di una virilità maschile violenta di andare sempre oltre fino alle estreme conseguenze. Bisogna mettere bene in luce che queste sono narrazioni tossiche, con un preciso intento disciplinante.
Alessandra Chiricosta, docente di Filosofia del Linguaggio alla John Cabot University
Le narrazioni giornalistiche – ma non solo – hanno troppo spesso portato avanti la teoria che “colpevolizza” chi si oppone alla violenza (che sia una violenza sistemica o che sia una violenza di strada), che ricorda che se la donna, o qualsiasi soggettività inferiorizzata, si oppone, aggrava la sua situazione. Si sentono spesso frasi del tipo “non ti opporre allo stupro, perché altrimenti ti ammazza”. Gli studi su questi argomenti dicono esattamente il contrario: tutte le forme di violenza riescono a essere contrastate meglio se la “vittima” trova modi di opporsi: occorre capire come e in che tempi, che tipi di aiuto servano, ma certo un più o meno implicito invito a chinare il capo e sopportare fino all’arrivo di un improbabile salvatore non fa che imprigionare ancora di più le soggettività aggredite in una spirale incapacitante.
Si assiste non solo alla nascita di una virilità tossica, che ha bisogno della performatività della violenza per potersi affermare, ma anche alla creazione di una correlata femminilità debole, che non sia disturbante.
Questo schema relazionale viene troppo spesso naturalizzato nelle narrazioni: viviamo nella convinzione che la debolezza, l’accettazione e l’incapacità di azione contrastiva facciano parte della natura della femminilità, così come l’aggressività fa parte della “natura” della mascolinità, perché l’uomo è forte e muscoloso e la donna piccola quindi debole.
Confondendo la causa con l’effetto, si scambia per “natura” quello che è il risultato di una complessa costruzione sociale, culturale, politica.
Alessandra Chiricosta, docente di Filosofia del Linguaggio alla John Cabot University
Tanti anni di formazione fatti all’ordine dei giornalisti di ogni livello mi hanno fatto capire dai loro stessi comportamenti molti problemi. Innanzitutto stiamo parlando di potere, quindi aver creato in Italia una gerarchia di professionisti della comunicazione e del giornalismo, appunto l’ordine professionale, ha creato una serie di altre strutture di potere molto difficili da maneggiare. Le persone che hanno quel tesserino famoso – creandosi il mito del professionista dell’informazione – accettano molto di malgrado una formazione su argomenti, anche se chiaramente non li conoscono. Quindi non accetta né di buon grado una formazione specifica sull’argomento del femminicidio, né una formazione più tecnica sul lessico, sui termini, proprio sulle cose da non dire. E non lo accettano perché immaginano che questo tipo di formazione vada a toccare la loro libertà di stampa, la libertà di informazione, che non c’entrano nulla. Tutte le volte che cerchi di spiegargli questo doppio ordine di problemi, “ci sono argomenti dei quali voi dovete proprio sapere delle cose perché non le sapete”, e non le sapete perché non le sanno la maggior parte delle persone che non si occupano di questi temi specifici. Poi, come professionisti della parola, dovreste capire che ci sono le vostre organizzazioni professionali a occuparsi del vostro lavoro: per esempio l’organizzazione internazionale del giornalismo (IFJ) ha diramato una serie di direttive da seguire su queste cose, che in Italia non vengono seguite. Il non riconoscere di doversi formare, il non riconoscere che quella parola non la devi usare, non avere ancora capito che l’aggettivo “tossico” non è rivolto al genere maschile in quanto tale, ma si usa per immaginare una sorta di metafora ambientale, son cose gravi.
La mascolinità tossica funziona proprio come le sostanze tossiche: piccole dosi sparse nell’ambiente, che tu assorbi nel tuo corpo e che a un certo punto cominciano a fare male. La capacità di assorbimento è diversa per ciascun corpo, come succede con le sostanze tossiche. C’è chi le può assorbire in quantità esorbitanti e non gli succede niente e chi alla minima variazione sta malissimo. “Maschilità tossica” funziona esattamente così: è un aggettivo che si è voluto usare per significare la particolare difficoltà nell’affrontare questi problemi. Anche l’uso massiccio della parola “natura”, della parola “normale”, sono due casi delle parole più discriminanti perché usate in maniera discriminatoria nella nostra lingua. C’è un uso discriminante di queste parole che i giornalisti usano come se fossero neutrali o prive di significato in questo senso. Lì c’è un enorme problema di formazione che però questo corpo di professionisti resiste molto a voler utilizzare; malgrado i casi in cui hanno voluto disciplinare il loro uso di parlare delle persone in carcere per es, di certe categorie; si sono fatti la loro carta, la seguono precisamente e chi non la segue boom viene colpito dall’ordine. Non si sa perché per i problemi di genere non succede.
Lorenzo Gasparrini, scrittore e filosofo femminista
La narrazione che viene fatta dei femminicidi dalla cronaca italiana prevede diverse modalità di descrizione delle donne implicate negli eventi. Leggendo diversi articoli si sembra poter evidenziare principalmente due modi di trattare da parte dei media il ruolo della vittima all’interno della vicenda. Nel primo caso, il tentativo portato avanti sembra quello di creare un racconto dell’accaduto che smuova la compassione del lettore, incentrando la narrazione sulla vittima del tragico evento. La rappresentazione della donna è quella di una figura femminile i cui tratti rientrano nell’immaginario di donna socialmente accettabile. Qualora siano state madri viene sottolineato spesso il ruolo materno, il ruolo lavorativo, si scelgono immagini sorridenti. Il rapporto che si instaura tra la vittima e il suo omicida in questo genere di narrazioni è quello di una brava donna capitata nelle grinfie di un uomo che agisce come “in preda ad un raptus”, o “accecato dalla gelosia”. Questa narrazione vittimistica crea uno stacco tra la realtà quotidiana e quello che si configura come un evento eccezionale capitato ad una donna che ha avuto la sfortuna di trovarsi di fronte un uomo incapace di intendere e di volere. Diverso è invece il modo di trattare una notizia in cui la vittima appare come estranea alle logiche sociali che riguardano i comportamenti femminili. In questo caso non si manca di riportare tradimenti e relazioni extraconiugali, eventuali richieste di denaro da parte della vittima, o qualsiasi atteggiamento socialmente sbagliato che possa fungere da causa dell’omicidio. Trovano spazio, dunque, titoli come “Prostituta uccisa”, o “Uccide la moglie che lo aveva tradito”. La lettura colpevolizzante che emerge da questi articoli immerge il lettore in un racconto per cui la vittima sembra in qualche modo essersela cercata, non rispettando il proprio ruolo sociale e portando il suo omicida a compiere quel gesto. Quello che avviene in entrambi i casi è una deresponsabilizzazione dell’omicida. Se da un lato viene dipinto come una persona in preda alla follia, incapace in quell’istante di razionalità, dall’altro le cause del gesto estremo vengono accreditate alla vittima, che si rivela, per via dei suoi comportamenti, causa dell’atto di violenza nei suoi confronti, contribuendo così a promuovere quella narrazione tossica di genere che permane la società odierna e che è causa madre di questi tragici eventi.
Lea Negroni, redattrice
Il giornalismo italiano sembra incapace di affrontare correttamente l’argomento femminicidio e per questo è necessaria la formazione dei giornalisti, che sono obbligati a seguirla e forse reagiscono con ritrosia quando gli vengono spiegati determinati concetti sull’argomento. Il problema principale della narrazione che viene fatta del fenomeno parte proprio dalla base, ovvero dalla definizione del termine. Spesso è la stessa nozione di femminicidio usata dai giornali ad essere sbagliata e a causare titoli scorretti e incoerenti con la natura del fenomeno. Titoli come “dramma della gelosia” che spesso sui giornali descrivono un brutale femminicidio sono causati, oltre che dai preconcetti dei giornalisti e della volontà di usare un titolo del genere, anche da una definizione sbagliata del concetto di femminicidio, che a volte persino nelle statistiche che i giornali pubblicano, vengono inseriti dei delitti che chiaramente non rientrano nella categoria ‘femminicidio’ e questo può dipendere solo dal fatto che il concetto non è chiaro a coloro che dovrebbero analizzare e raccontare il fenomeno. Si deve trovare una soluzione per rendere univoco e chiaro il concetto e la definizione di femminicidio, sia alla collettività che ai professionisti della parola, proprio per evitare articoli e titoli scorretti e anche offensivi.
Giulia Rocchetti, redattrice
Ha curato la rubrica:
Sara Innamorati
Hanno preso parte al dibattito:
Lorenzo Gasparrini (scrittore e filosofo femminista)
Alessandra Chiricosta (docente di Filosofia del Linguaggio
alla John Cabot University)
Lea Negroni (redattrice)
Giulia Rocchetti (redattrice)
Artista:
Kalina Muhova