Senza parole ep.4

Un tema tormentato da cattive narrazioni è al centro di una discussione tra redattori, esperti e un artista. Sarà lui a reinterpretare il tema con il suo lavoro grafico, un linguaggio visivo che denuncia i limiti dei media tradizionali esprimendosi rigorosamente senza parole.

Questo articolo parla di:

Spesso la cronaca italiana scivola nelle generalizzazioni e nella superficialità lessicale che portano all’uso di un linguaggio razzista. Con un improprio uso di termini si va a creare una frattura tra la realtà quotidiana e quanto raccontato, che non fa altro che acuire le descriminazioni. Qui trovate alcuni estratti della conversazione che ha ispirato le vignette di Montanardo.

Per capire quando un linguaggio sia razzista e poco inclusivo può essere utile partire da un esempio. Poco tempo fa ho trovato su Libero un articolo con un titolo talmente discriminatorio da farmi intuire quanto sarebbe stato problematico quello che stavo per leggere. L’articolo parlava di uno stupro commesso da una persona di origine nigeriana e il titolo recitava Immigrato nigeriano libero di violentare per due volte una donna. Semplicemente analizzando questo titolo si possono delineare quali sono i nodi problematici principali di un tipico articolo razzista. L’elemento più disarmante è il fatto di riferirsi a delle persone di origine straniera utilizzando la parola “immigrato”, un termine molto ampio che, in qualche modo, rimanda a un’idea di massa informe che si sposta. In questo modo viene tolta qualsiasi forma di individualità a coloro che fanno parte di questo flusso migratorio. Per comprendere meglio quando siamo di fronte a un articolo problematico io mi domando sempre: se ci fosse stato al posto dello straniero una persona di origine italiana avremmo scritto questo articolo nello stesso modo? Ci saremmo mai riferiti in questo modo a un italiano (immigrato anche in un altro paese) che violenta a piede libero due volte? Sicuramente no. Questo è un ragionamento importante perché se una persona non ha gli strumenti per poter comprendere sia il flusso migratorio che la complessità della migrazione in Italia un articolo del genere non fa altro che peggiorare l’immaginario del lettore.
Idarah Umana, redattrice

Non solo non rende la complessità, in realtà sposta e attribuisce una responsabilità a una categoria. Ammettiamo che fosse stato un uomo bianco a commettere l’aggressione sulla donna, il titolo sarebbe stato scritto in maniera più impersonale, di sicuro qualcosa come Violenza su una donna. Invece qui è nigeriano immigrato libero di violentare una donna quindi ti parlano implicitamente dell’immigrato come categoria di persone che viene nel nostro paese in qualche modo perché ha degli scopi criminali o antisociali. Questo comunica al lettore. È l’immigrato che violenta. Poi non solo è un immigrato ma è nigeriano. Se ci pensate il Niger viene da niger che significa nero e dunque emerge anche una comunicazione subliminale se volete. Continuando: immigrato nigeriano libero. Implica che invece di essere libero doveva essere controllato. La comunicazione non è “purtroppo per l’ennesima volta è stato commesso un reato su una donna” ma “è stato commesso un reato su una donna perché ci stanno troppi immigrati che commettono sempre violenze sulle donne che sono liberi e sono soprattutto africani”.
Renato Foschi, professore ordinario di Storia delle scienze psicologiche all’Università La Sapienza


È paradossale: quando nel momento in cui a compiere la violenza sulle donne sono uomini bianchi allora la colpa è sempre delle donne e di conseguenza implica tutti quei meccanismi di vittimizzazione secondaria per cui il problema è come si era vestita e cosa ha fatto lei. L’attenzione è sempre concentrata sulle donne. Invece se a perpetuare la violenza sono uomini di origine straniera (categoria più marginalizzata e discriminata delle donne) allora guarda caso il focus viene spostato sull’uomo nero –sempre a calcare quel tipo di immaginario.
Giulia Falconetti, redattrice


L’attribuzione di responsabilità varia al variare della differenza dal gruppo di riferimento. Più la persona a cui si attribuisce una colpa è differente da chi attribuisce la colpa tanto più la colpa pare automaticamente grave. Ed è un meccanismo automatico e acritico. Prendiamo l’esempio della guerra: le responsabilità si attribuiscono sempre alle persone che sono differenti da noi (dal proprio modo di vivere al proprio modo di pensare); le vittime sono maggiormente vittime se sono simili a noi. Se in una guerra ci sono vittime di persone bianche e nere allora le vittime bianche saranno vere e proprie vittime; mentre delle persone nere si parlerà nettamente meno. Parleremo di più delle vittime che noi riteniamo vicine a noi stessi. C’è una gerarchia: questo è il razzismo. Il razzismo è dovuto a una gerarchizzazione implicita o esplicita dei gruppi umani.
Renato Foschi, professore ordinario di Storia delle scienze psicologiche all’Università La Sapienza


Il meccanismo che si è riproposto nelle epoche con la moltiplicazione di gruppi di identità diverse che rende la società sempre più complessa e elimina il concetto di un mono gruppo con i suoi usi e costumi sta portando a un’espansione di soggetti per ora discriminati che iniziano a farsi vedere e a prendere spazio. Purtroppo all’interno di tanti gruppi di potere sembra ci sia una reazione di paura e rigetto dall’idea di integrare un cambiamento. L’identità diversa dell’altro continua a non essere percepita come un qualcosa che può arricchire, malgrado la realtà dimostri il contrario.
Giulia Falconetti, redattrice

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