La narrazione della realtà LGBTQ+ viene spesso distorta o filtrata dai media. In questa puntata di Senza Parole ne parliamo con Isabella Borrelli e Daphne Bohémien, mentre Nova rivisita il tema con la sua illustrazione.
Secondo me il discorso della narrazione dei temi LGBTQIA+ passa da una grande domanda: cosa vogliamo veicolare. Nel momento in cui i direttori dei quotidiani chiedono a giornalisti senza una vera e propria competenza in questo ambito di scrivere sapendo che tipo di scrittura e pensiero hanno, è chiaro quale messaggio si vuole veicolare. E la conseguenza di tutto ciò risiede all’interno dell’attuale grande problema di chi fa divulgazione: è diventato sempre più ostico andare a lavorare nella maniera più pulita e corretta possibile per contrastare questa disinformazione.
A oggi abbiamo strumenti limitati per combattere contro questa narrazione, ci sono poche persone LGBTQIA+ all’interno dell’editoria con ruoli di rilevanza all’interno dei media ed è molto più difficile inserirsi nel mondo del lavoro per una persona queer. Per cui si tratta di un discorso che non è alla pari, e se non è alla pari è distorto. La causa di questa marginalizzazione si nota nella comunicazione vicina alla soglia dell’accettabilità, il livello è talmente basso da far mancare spesso le basi.
Non credo neanche molto al discorso di andare a fare promozione da loro. Non capisco perché io debba sfruttare le energie della mia comunità per chiedere di nuovo, in ginocchio, di parlare in maniera corretta. Credo sia arrivato il momento di dire basta e dare la possibilità solo alle persone che vogliono fare formazione di farla. Preferirei unire le forze e fare un lavoro comune alla comunità LGBTQIA+ che dia un messaggio chiaro e forte a questo tipo di narrazione. Non esiste più nessun modo di trattare, lo si fa quando c’è qualcosa ambe le parti, ma noi non abbiamo più niente da dare, ci hanno tolto tutto.
Daphne Bohémien: performer internazionale, divulgatrice e attivista LGBTQIA+
Il dire di non saper utilizzare i pronomi è strumentale. In alcuni casi l’espressione di genere può essere fluida e se l’incertezza è comprensibile come persone, non lo è come giornaliste. TRattandosi di giornalisti dovrebbe essere il minimo sindacale chiedere direttamente alla persona
interessata o si possono fare delle ricerche attraverso qualsiasi motore di ricerca. Trovo sorprendente
che un giornalista, dopo anni di studio per essere tale, non riesca ad accordare i pronomi corretti. Lo trovo fantascientifico. O che tuttora ci sia una incertezza sul fatto che gli aggettivi non si
sostantivano: gay, lesbica, trans*, non binario sono aggettivi e come tali vanno utilizzati nella lingua italiana. Il linguaggio utilizzato senza nessun tipo di sensibilità al contesto porta a quello che è
successo con la donna trans picchiata a Milano. Si potrebbe partire dal modo in cui la nominavano sui giornali: “conosciuta nel quartiere come Luna”. Questa è una frase che apparentemente sembra
innocua ma è al contrario molto violenta perché se non si riconosce di fatto il nome di una persona e si sta denigrando la sua dignità. associare il nome di una persona a una specie di nomignolo da
leggenda metropolitana all’interno di un fatto molto grave non può essere considerato rispettoso.
Dopodiché, ci sono pochissime firme LGBTQIA+ soprattutto LTQIA+ che possano scrivere della nostra comunità. In generale quando si scrive di persone LGBTQIA+ entriamo
nel frame narrativo giornalistico in cui tutte le notizie che hanno una rilevanza pubblica circa la comunità LGBTQIA+ sono notizie di noi che veniamo picchiati, uccisi, cacciati di casa. All‘interno di questo frame narrativo già problematico, il racconto che ne viene fuori a partire dalle parole risulta molto violento.
Isabella Borrelli: Digital strategist e attivista transfemminista e LGBTQIA+
Diventa il fondamentale il discorso degli attivisti e delle persone che vogliono interfacciarsi e fruire delle possibilità di collaborazione con i giornali nello spiegare come il linguaggio sia uno strumento di lotta. Di fatto manca una formazione reale da parte del mondo giornalistico. Tempo fa quando è nata la Carta di Roma era chiaramente nata per analizzare le discriminazioni che venivano fatte soprattutto su alcune tematiche. Un organo che dovrebbe, a volte, prendere in mano i titoli di giornali e fare causa per una narrazione sbagliata e fortemente discriminatoria. Vista la narrazione strumentale apposita come abbiamo visto anche al Roma Pride su tutti i titoli dei giornali, credo sia fondamentale unirsi e suggerire per esempio a Carta di Roma di approfondire la tematica LGBTQIA+ regalando corsi di formazione obbligatori.
Daniela Ionita: redattrice
Cominciano da poco a emergere figure manageriali che vertono all’abbattimento del gatekeeping. La difficoltà di questo tipo di lavoro è chiara a qualsiasi persona si interessi o si rispecchi all’interno della comunità queer: non esiste una idea chiara di quale rappresentazione si voglia dare. Lo spazio utilizzato continua a essere schiavo delle notizie, emerse nelle tendenze dei social o di cronaca, ostacolando la creazione di contenuti a scopo divulgativo sulle varie sfaccettature della comunità. Si dovrebbe ripartire dalle basi per delucidare i lettori di quotidiani sui temi circondati da stereotipi e disinformazione. Ma, di fatto, le pressioni politiche senza dubbio presenti in un contesto come quello giornalistico non aiutano a lavorare verso quella direzione.
Sara Innamorati: redattrice