“Se l’è cercata”: la cultura del victim blaming

Il fenomeno della colpevolizzazione delle vittime di abusi quali discriminazione, razzismo e violenze fisiche, ha profonde radici nella nostra cultura sociale. A partire da episodi legati al mondo dello sport, i carnefici sembrano sempre più legittimati, giustificati e, quasi, spronati nelle loro azioni mentre le vittime non credute, ignorate e ridotte al silenzio.

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Quando Dusan Vlahovic, attaccante della Juventus, segna allo scoccare del novantottesimo minuto di gioco il secondo gol contro l’Atalanta il 7 maggio 2023 sembra che ci sia un produttore nello studio che abbassa i fischi dello stadio. 

Il gol di Vlahovic è un gol normale, in contropiede, a fine partita, passaggio e tiro. Non ha fatto vincere lo scudetto alla Juventus e non l’ha fatto perdere all’Atalanta. Quella partita non ha cambiato quasi nulla. 

Ma in realtà quel gol per Dusan Vlahovic, calciatore serbo, vale tantissimo. 

Un po’ di minuti prima, l’attaccante aveva avuto un diverbio con Joakim Maehle, esterno avversario. 

Con questo pretesto, gli ultras dell’Atalanta avevano iniziato a gridare a Vlahovic insulti razzisti sulla sua provenienza slava. 

Vlahovic ha provato a ignorare gli insulti, a cercare di farseli scivolare addosso, a rientrare nella normalità che una partita di calcio vuole rappresentare. 

Ma era assurdo pensare di tornare a giocare senza far finta di nulla. 

Così l’attaccante serbo si è avvicinato all’arbitro, mentre gli insulti continuavano a piovere, ha allargato le braccia e gli ha chiesto “Non lo sentite?”. 

Partita sospesa, richiesta dall’altoparlante di fermare gli insulti razzisti. 

Partita ricominciata, insulti razzisti ripartiti come se non fosse successo nulla. 

Ma la normalità è importante, non si può sospendere di nuovo la partita per una situazione di così poco conto. 

La partita si allunga, l’Atalanta può recuperare lo 0-1 che la vede in svantaggio. Non ci riesce perché alla fine c’è il gol proprio di Vlahovic che fa da colpo di grazia. 

Adesso si può sfogare, mette il dito alla bocca verso gli ultras avversari. 

L’arbitro però lo riprende, “eccesso di esultanza”, ammonito. 

Lukaku, ex-calciatore dell’Inter, qualche mese prima aveva fatto la stessa cosa proprio contro i tifosi della Juventus che lo avevano insultato per il colore della sua pelle. 

Ammonito anche lui. 

Una colpevolizzazione della vittima istituzionalizzata. Come se il fatto che i tifosi abbiano comportamenti razzisti sia la normalità, è il calciatore o chi per lui che non deve reagire. 

Episodi che nello sport sono regolari, perché le istituzioni, gli allenatori e i giornalisti vivono in questo limbo di ambiguità, che viene vista come una presa di posizione intelligente e non vigliacca. 

Come ha scritto Daniele Manusia in un articolo  a riguardo: «Ci vogliamo impegnare ancora di più per evitare di provocare la sensibilità dei razzisti? Vogliamo mettere delle regole, delle leggi, magari, per andare incontro ai razzisti, che ne so facciamo entrare i giocatori con la pelle nera in campo a testa bassa, gli imponiamo di chiedere scusa dopo i gol anziché esultare?». 

La colpa di essere discriminati: due esempi dallo sport

Episodi come quello di Vlahovic sono frequenti nell’ambiente sportivo, specie in quello calcistico se si parla di razzismo. La cosa sconcertante è che spesso a giustificare e normalizzare tali eventi, indirizzando la colpa verso la vittima, sono proprio gli enti che dovrebbero occuparsi di regolamentare lo sport e di condannare casi di discriminazione. 

Un esempio di quanto il problema sia istituzionalizzato arriva dalla Spagna: uscendo dai nostri confini, infatti, la situazione è la stessa. Il caso in questione risale allo scorso maggio e riguarda Vinicius Junior, giovane talento brasiliano del Real Madrid, vittima non solo di insulti razzisti da parte dei tifosi avversari, ma anche colpevolizzato da un giornalista e lasciato solo da chi avrebbe dovuto e potuto prendere una posizione contro il razzismo negli stadi spagnoli, ovvero la dirigenza della Liga.

L’episodio ha avuto inizio ancora prima della partita tra Valencia e Real Madrid, quando già fuori dallo studio il giocatore appena arrivato è stato costretto ad ascoltare dei cori molto offensivi nei suoi confronti. Per tutta la durata della partita, sono andate avanti le offese a lui indirizzate, fino alla decisione dell’arbitro di sospendere il gioco per alcuni minuti. La partita è poi finita con una rissa tra i giocatori in campo e l’espulsione di Vinicius Jr. per un fallo, complice probabilmente la tensione accumulata a causa dei forti cori incessanti contro di lui.

“Il razzismo è normale nella Liga. Il campionato pensa sia normale, e anche la Federazione e gli avversari lo incoraggiano”, così ha scritto Vinicius in un lungo post sui suoi canali social in seguito al match contro il Valencia. Poco dopo è arrivata la risposta di Javier Tebas, Presidente della Liga, che anziché mostrare supporto al giocatore vittima di un tifo razzista nei suoi confronti per tutta la durata della stagione ha preferito attaccarlo, difendendo il proprio campionato e accusando Vinicius Jr. di non essersi informato bene sulle iniziative della Liga contro il razzismo, e di non essersi presentato a due appuntamenti concordati con la Liga per farsi spiegare tali iniziative. Piuttosto che prendere atto della presenza di una larga fetta di pubblico apertamente razzista nei propri stadi, Tebas ha spostato il focus su una mancata partecipazione di Vinicius al problema, come se fosse lui a doversene occupare.

La risposta di Tebas è rimbalzata sui social scatenando una reazione molto dura nei suoi confronti. Allo stesso modo, hanno fatto discutere le parole del giornalista sportivo Toni Padilla. Durante la diretta su LaLiga TV, Padilla ha infatti commentato che sì, è giusto schierarsi contro il razzismo, ma che bisogna anche riconoscere che Vinicius Jr. “non è un santo, non è perfetto” e che spesso ha delle maniere provocatorie verso i tifosi avversari. Anche in questo caso, le parole del giornalista sono un chiaro esempio di victim blaming, dove viene minimizzato il fattore discriminatorio e ad essere colpevolizzato è un giocatore troppo spesso vittima di insulti razzisti. 

 

Episodi come questi non si verificano solo in ambito calcistico. 

Nel 2022 è scoppiato un caso mediatico riguardante il mondo della ginnastica ritmica in Italia. Due ex farfalle, Nina Corradini e Anna Basta, denunciano lo staff della nazionale di ginnastica ritmica di abusi psicologici. Le due ragazze raccontano le umilianti condizioni in cui per anni si sono trovate a vivere: pesate ogni giorno per poi essere insultate e derise dall’allenatrice; obbligate ad allenarsi anche qualora non fossero nella condizione di farlo, accusate nel frattempo di “inventare scuse per non allenarsi”. Le denunce delle due atlete hanno avuto un’eco talmente grande da diventare lo sprono per altre loro compagne che, chi in maniera anonima e chi pubblicamente, hanno iniziato a denunciare le medesime situazioni. Se da un lato le due ragazze hanno trovato il supporto e il sostegno di tante persone, non sono mancati commenti di accusa per le stesse vittime. Si legge su Instagram, sotto dei post pubblicati da Anna Basta in cui parla della ginnastica ritmica e della denuncia:

I commenti spinti verso le atlete puntano il dito a quest’ultime ribaltando la situazione proposta sul tavolo: ecco che Anna e Nina, per fama, per debolezza mentale, per invidia, da vittime diventano colpevoli. Tale fenomeno viene detto “victim blaming”, o “colpevolizzazione della vittima” e consiste nel ritenere la vittima di un crimine o di altre sventure, parzialmente o interamente responsabile di ciò che le è accaduto. 

Il Victim blaming: cos’è e come si manifesta

Il termine “Victim blaming” viene coniato per la prima volta nel 1971, con la pubblicazione del libro di William Ryan intitolato Blaming the victim, nel quale l’autore risponde a chi in quel periodo sosteneva che le cause della povertà di una certa fascia della popolazione fossero da attribuire unicamente al comportamento dei singoli individui, e non alla società che teneva alcune fasce della popolazione ai margini, offrendo loro poche o alcuna possibilità di crescita o riscatto sociale.

Dal 1971 ad oggi, tale fenomeno è divenuto oggetto di grande interesse da parte di studiosi e psicologi che hanno iniziato a interrogarsi sempre più profondamente circa le sue cause e conseguenze.

Un fattore sicuramente rilevante nella diffusione del victim blaming, è la diffusione che nel tempo vi è stata dell’idea di “vittima perfetta”. La vittima perfetta, come spiega anche Cristina Gamberi nell’articolo Decostruire l’immagine della vittima perfetta, è inerme, priva di risorse, sempre buona, sempre giusta. La creazione di un personaggio così idealizzato fa però sì che sia impossibile ritrovarlo nello complessità degli uomini, il che porta, talvolta, a considerare la vittima reale, “meno vittima”, o addirittura “non vittima”. A questa vengono infatti attribuite colpe, abitudini personali, supposizioni, presenti o passate, che tolgono l’attenzione dal fenomeno principale che ha reso la persona, in quel preciso momento della sua esistenza, una vittima.

Per comprendere più a fondo il concetto, risulta utile un episodio risalente a qualche anno fa, al 27 maggio 2021,  episodio che ha portato la corte Europea dei diritti dell’Uomo a condannare l’Italia per messaggi di victim blamimng contenuti all’interno di una sentenza in tribunale inerenti a episodi di violenza sessuale. L’episodio è l’accaduto nel l 2008: una donna ventiduenne denunicia uno stupro nei pressi della Fortezza da Basso, Firenze. Inizialmente, dopo la denuncia, vengono arrestati 7 ragazzi, ma nel 2015, durante il secondo grado, i ragazzi vengono tutti assolti. Il collegio, per giustificare l’assoluzione, preme in particolare sulle presunte abitudini sessuali della vittima. Nella sentenza la vittima viene presnetata come ragazza con “atteggiamento ambivalente nei confronti del sesso”, che l’avrebbe condotta a scelte “da lei stessa non pacificamente condivise e vissute traumaticamente o contraddittoriamente e avrebbe giustificato i ragazzi nel “mal interpretare la sua disponibilità”. La stessa vittima viene definita un “soggetto femminile fragile, ma al tempo stesso tempo creativo, disinibito, capace di gestire la propria (bi)sessualità” e il suo comportamento nel corso della sera in cui è avvenuta la violenza sessuale è descritto come “atteggiamenti particolarmente disinvolti in un clima goliardico (e) godereccio”.

È chiaro che allora la corte di Firenze abbia assolto quei sette ragazzi perché non rivedeva nella vittima le caratteristiche della “vittima perfetta”: al capo d’accusa vengono fatte prevalere supposizioni sulla vittima o abitudini personali comunque non inerenti al processo.

Un’altra teoria interessante circa l’origine del victim blaming arriva dai due psicologi Melvyn Lerner e Carolyn Simmons. Nel 1966 i due danno vita ad un esperimento: delle persone sono chiamate ad assistere dal vivo a dolorose scosse che riceve una donna ogni volta che non supera il test della memoria. Inizialmente ai partecipanti viene data la possibilità di porre fine alle sofferenze della donna, e quasi tutti decidono di aiutare la vittima. Successivamente viene invece negato ai partecipanti di interrompere le punizioni della donna e, mano a mano, i due psicologi si accorgono di come i partecipanti iniziano a convincersi che in fondo, il dolore provato dalla donna, non sia così terribile, e forse nemmeno così ingiusto.

Da tale esperimento viene formulata “L’ipotesi del mondo giusto”, un’ipotesi per la quale si crede che l’uomo dinanzi a un’ingiustizia cerchi in un primo momento di alleviarla ma, nel momento in cui si sente impotente nel farlo, tende a convincersi che, in fin dei conti, il mondo non è così ingiusto. Nell’esperimento, per esempio,  i partecipanti, quando hanno realizzato di essere impotenti dinanzi ai dolori della donna, hanno iniziato a pensare che “qualcosa in fondo quella donna deve aver fatto per meritare quella punizione”. Il meccanismo in atto è quello della “razionalizzazione”, attraverso il quale si ricercano valide ragioni per un determinato fenomeno: si cerca di “aggiustare” il mondo, trovare una logicità giusta anche dinanzi all’illogicità ingiusta.

Si può parlare, allo stesso modo, di quello che in Psicologia Sociale viene detto “errore fondamentale di attribuzione”, e cioè l’errore che viene messo in atto nel momento in cui si cerca una scorciatoia mentale di attribuzione della responsabilità di un avvenimento a caratteristiche interne e stabili della vittima, piuttosto che a cause esterne e mutevoli.

Inerente alla ricerca di Lerner e Simmons, i ricercatori della New York University hanno condotto un altro esperimento. Ad alcune persone viene chiesto di spiegare la disparità di status, e ci si accorge che gran parte dei selezionati risponde dando spiegazioni inerenti alla meritocrazia: “hanno raggiunto questo livello perchè sono migliori, più intelligenti” ecc.. Sono meno a  tener conto  di fattori passati o influenze contestuali: pochi parlano del fatto che molta gente di alto status ha sempre vissuto nella prosperità, che abbia potuto accedere ad un’istruzione migliore, che abbia sempre avuto una famiglia benestante. Dall’analisi è emerso come  le persone più propense a dare risposte legate alla meritocrazia sono le stesse a essere legate ad un’idea di mondo giusto, convinte che le disuguaglianze siano giuste ed eque.

È nei soggetti che credono che il mondo agisca sempre con giustizia che la vittima diventa sempre “meno vittima” e più colpevole, fautrice del suo destino. La chiave sta nel comprendere la complessità in cui siamo immersi e cercare di non appiattirla.

Scriveva infatti il giornalista Nicholas Hune-Brown: «Le persone credono in un mondo giusto perché è troppo difficile accettare i capricci dell’universo. Credere in un mondo fondamentalmente giusto, un posto dove è improbabile che tu venga ucciso a meno che tu non sia un membro di una banda, è improbabile che tu vada in bancarotta a meno che tu non sia sciocco, ed è altrettanto improbabile che tu venga violentato a meno che non te lo cerchi è confortante».

Il fenomeno della riduzione al silenzio delle vittime

 

Il concetto di victim blaming si complica quando si entra nell’ambito degli abusi di tipo sessuale. Spesso in questi casi gli imputati vengono assolti proprio a causa dell’interiorizzato comportamento che si ha rispetto al victim blaming. Si passa da “errori di comunicazione del consenso” alla non credibilità della vittima perché “era lei ad aver incitato la cosa”.

 

Perché episodi come quello della denuncia di Jennifer Hermoso, calciatrice spagnola, nei confronti del presidente della federcalcio iberica Luis Rubiales per averle imposto un bacio dopo la vittoria ai mondiali femminili, ottengono così frequentemente la giustificazione dell’aver mal percepito il consenso, nonostante la vittima abbia poi dichiarato di averlo negato, e spesso di conseguenza portano alla prova di innocenza dell’abusatore? 

 

Le critiche femministe propongono un chiaro quadro di analisi di tali fenomeni legati all’ambito delle violenze sessuali: numerosi fattori come programmi tv, cinema, pubblicità ed in particolare la pornografia non egualitaria, contribuiscono a costituire e rafforzare stereotipi di genere che dipingono la figura femminile come subordinata e passiva e quella maschile come dominante ed attiva. Questi sono dunque i mezzi con cui il sistema patriarcale in cui viviamo, porta tutti i suoi abitanti a interiorizzare, anche inconsapevolmente, tali false credenze e normalizzare, legittimare e giustificare i corsi d’azione che ne conseguono.

 

Catherine McKinnon, attivista, avvocata e consigliera speciale di genere presso la Procura della Corte penale internazionale statunitense, ha presentato una serie di ordinanze per regolamentare la produzione di pornografia, in quanto dannosa per le conseguenze pratiche che comporta. Nelle sue analisi troviamo come elemento centrale quello dell’erotizzazione della gerarchia di genere e della sottomissione femminile che causerebbe l’assimilazione da parte di uomini e donne di questo stereotipo e, di conseguenza, porterebbe ad autorizzare comportamenti di abuso.

 

In questo senso, McKinnon afferma che viene così negato il diritto all’eguaglianza delle donne, ma non solo: anche il diritto alla libera espressione guadagna la medesima sorte. Infatti, a causa degli stereotipi pericolosi veicolati, come il fatto che i no delle donne non contino in quanto tali davanti ad avance sessuali ma siano in realtà modi per fingere ritrosia o per eccitare, viene minata la credibilità delle vittime che, invece, vengono responsabilizzate degli atti e davanti ai rifiuti e le denunce di abusi sessuali non vengono credute.

 

È questo il fenomeno che in filosofia del linguaggio prende il nome di subordinazione e di riduzione al silenzio, ovvero, quando «la persistenza di stereotipi negativi e pregiudizi dannosi getta le basi per una perdita di potere performativo da parte di individui che fanno parte di categorie sociali discriminate, individui che vedono la loro possibilità di agire sulla realtà con le parole non solo indebolita ma, a volte, del tutto annullata», come riportato in Hate speech di Claudia Bianchi.

 

Tale distorsione linguistica si applica in modo ampio a una grande quantità di casi, non solo in ambito sessuale, il cui fattore comune risulta sempre il considerare la vittima non credibile in quello che dice poiché appartenente ad un gruppo  target discriminato a causa di stereotipi e pregiudizi legati al gruppo sociale (discriminato) di cui fa parte. 

 

Rae Langton, filosofa che si è occupata di linguaggio, etica e filosofia politica, si è dedicata ad approfondire questo tema all’interno dei dibattiti della filosofia del linguaggio.

Il centro della sua posizione è tale da affermare che i materiali pornografici, oltre a rappresentare situazioni di subordinazione e riduzione al silenzio in quanto atti locutori, ovvero in quanto possono concorrere a provocare impedimenti fisici nel parlare o a creare un clima che renda la vittima riluttante di esprimersi, e a causare lo stesso in senso perlocutorio, ovvero promuovere la creazione di condizioni che fanno sì che l’atto linguistico venga riconosciuto ma non rispettato dal destinatario, costituiscono essi stessi forme di subordinazione e forme di riduzione al silenzio in quanto atti illocutori, ovvero inducendo situazioni che fanno sistematicamente fallire l’atto linguistico rendendolo fraintendibile o impossibile da riconoscere.

 

Il mancato riconoscimento di rifiuti ed abusi risulta un fenomeno evidentemente piuttosto pericoloso e anche per Rea Langton deriverebbe dalle false credenze e dagli stereotipi diffusi da diversi fattori tra cui anche la pornografia non egualitaria, come affermava McKinnon: credenze e falsi miti che «dipingono la donna come assetata di sesso, sesso violento ed umiliante e stupro». Così, un “no” non verrebbe inteso come rifiuto in quanto non viene riconosciuta né l’intenzione della donna di proferire un atto linguistico di questo genere in tali contesti né la sua sincerità ed autorità: non vengono riconosciute come sincere poiché un no implicherebbe unicamente la loro timidezza e ritrosia allo scopo di conformarsi alle norme di genere che vogliono le donne come poco intraprendenti in campo sessuale  oppure non si riconosce loro l’autorità sul proprio corpo per poter affermare tale rifiuto oppure ancora viene inteso come non rappresentante dei veri sentimenti e desideri della donna, che l’uomo conoscerebbe invece meglio di lei.

Pertanto, la creazione ed il rafforzamento di queste credenze e pregiudizi legittima a ritenere insinceri i rifiuti e dunque a ignorarli e persistere nelle avance.

 

Le false credenze e gli stereotipi di cui parlavamo prima appartengono ai rape myths il cui effetto è quello incrementare le violenze e spostare la responsabilità da chi le compie a chi le subisce. Questo dipende dal fatto che la definizione di stupro viene traviata dai fattori citati prima che tendono, dunque, a dipingere le vittime come in realtà responsabili dell’atto: “non avrebbe dovuto indossare quella minigonna”, “non sarebbe dovuta andare proprio lì” e “dal momento che ha fatto tutte queste cose non ha diritto di dire di no”. 

 

Un altro fattore che influenza notevolmente questo fenomeno è l’appellarsi strategicamente a problemi di comunicazione, per giustificare atti di coercizione: la questione del definire il consenso all’atto diventa infatti centrale. Culturalmente si tende a pensare che l’uomo debba chiedere attivamente l’atto e la donna acconsentire o rifiutare ma, se l’assenza di un “no” e il silenzio vengono interpretati come “sì” e il “no” viene interpretato come «la donna passiva non è in grado di dire di sì poiché si conforma agli stereotipi di genere per cui vorrebbe dire di sì ma culturalmente e socialmente non può presentarsi come attiva nel richiederlo e portare avanti queste avance», il problema viene raggirato colpevolizzando la cattiva comunicazione e la vittima per aver provocato questa situazione, occultando invece l’abusatore. 

 

È dunque secondo queste logiche di dominio occulte così radicate nella nostra società e grazie alle dinamiche inconsce di cui si serve, che casi come quello del presidente della federcalcio iberica appaiono giustificabili. Tanto che c’è chi non condanna l’atto, e anzi, minimizza, perché cresciuto in una società che normalizza tutto questo. Che sia un cartellino rosso o la sentenza di un tribunale, il funzionamento è sempre lo stesso: la prospettiva è ribaltata e la vittima diventa colpevole. Con tanto di approvazione del pubblico, dai commenti sui social ai cori da stadio, tutti contro uno.

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