In principio fu il verbo. Domani saranno i byte. La paura che la scrittura creativa possa essere sostituita e automatizzata dall’intelligenza artificiale è uno dei motivi che spinge circa 11.500 sceneggiatori di Hollywood a invadere i marciapiedi di fronte a Paramount Studios, Netflix, Disney.
L’ultima volta che gli sceneggiatori e le sceneggiatrici della Writers Guild of America (WGA) hanno scioperato era il 2007, e la preoccupazione principale del sindacato degli autori all’epoca era il modo in cui le vendite dei DVD e del on demand sostituivano rapidamente le repliche in televisione, producendo più guadagni. Gli autori volevano una parte di quei guadagni. Sedici anni dopo il WGA è tornato a combattere per contratti più in linea con lo scenario in cui i prodotti audiovisivi vengono distribuiti oggi. Siamo nell’era dello streaming: si producono molte più serie tv, ma più corte; le piattaforme di streaming ordinano le sceneggiature di tutte le puntate ancora prima che la serie venga ordinata, in modo da pagare il minimo sindacale agli sceneggiatori e vincolandoli a non accettare altri incarichi. Gli autori brancolano nell’incertezza, assunti per poche settimane senza sapere che fine faranno questi nuovi show (non lo sanno nemmeno le piattaforme, che ne producono e ne cancellano a ritmi estenuanti). Con lo streaming scompare anche il guadagno rispetto alle repliche e agli sceneggiatori resta solo l’introito per la scrittura dell’episodio. Un’altra questione riguarda la richiesta di garanzie sull’utilizzo delle intelligenze artificiali che minacciano con forme di automazione di sostituire lavori proprio come quelli degli sceneggiatori, così come quelli degli attori.
Dal 2 maggio 2023 il Writers Guild of America è in sciopero, in lotta per richiedere un numero minimo di autori coinvolti in base alle puntate della serie e di avere una writer’s room pagata anche nella fase di post-produzione. Da più di cinquanta giorni, anche il SAG-AFTRA si è così unito allo sciopero: stiamo parlando del sindacato statunitense degli attori cinematografici, televisivi e degli artisti radiofonici (SAG, Screen Actors Guild; AFTRA, American Federation of Television and Radio Artists), che insieme agli autori chiedono appunto una regolamentazione all’introduzione dell’intelligenza artificiale nel settore. Non è appunto il primo sciopero indetto dalla Guild, ma dura da tempo tanto da fare concorrenza a quello del 1988 che nell’effettivo costò case e milioni di dollari al governo e ai singoli lavoratori (durò 154 giorni). L’autore di Game of Thrones, George R.R. Martin – da sempre vicino a questo tipo di battaglie – considera lo sciopero del 2023 come il più importante della sua vita. In un’intervista ha rivelato che «un produttore anonimo è stato citato dicendo che la strategia della AMPTP (Alliance of Motion Picture and Television Producers) era quella di rimanere fermi fino a quando gli sceneggiatori iniziassero a perdere le loro case e appartamenti», il che dà un’idea reale di ciò che si sta affrontando con questo sciopero che potrebbe avere conseguenze difatti non così lontane dallo sciopero di 35 anni prima.
I volti dello sciopero
In un contesto come quello americano, dove i sindacati sono spesso fragili e poco potenti e i lavoratori che vi aderiscono non di rado subiscono ritorsioni a opera dei propri datori di lavoro, è quasi naturale che emergano con ancora maggiore evidenza rispetto al solito personalità carismatiche che si assumano l’onere di compattare le forze e dirigere tali lotte per i diritti dei lavoratori. Nonostante in questo caso grande merito vada dato anche all’élite degli attori e registi hollywoodiani, che fin da subito si è convintamente schierata a fianco dei propri colleghi più in difficoltà (come il cast di Oppenheimer, che ha subito interrotto la promozione del film dopo la proclamazione dello sciopero), uno degli esempi migliori è quello di un’attrice invece ormai non più sotto i riflettori ma che ha saputo reinventarsi grazie all’attivismo, e in particolare all’attivismo sindacale, fino a diventare probabilmente il volto più iconico dello sciopero: Fran Drescher, attrice e produttrice newyorkese definita nel 2017 dal New York Magazine “la vostra nuova icona anti-capitalista preferita”, appena rieletta alla guida del SAG-AFTRA, e iniziatrice dello sciopero con un discorso con il quale aveva attaccato duramente i produttori hollywoodiani e il sistema capitalistico in generale: «Ciò che sta accadendo qui è importante perché accade in ogni ambiente lavorativo, i datori di lavoro hanno come priorità Wall Street e la cupidigia e si dimenticano di chi alla base fa muovere la macchina. Sono dalla parte sbagliata della storia». Aveva poi definito «disgustoso» l’approccio dei rappresentanti delle case di produzione cinematografica, come la AMPTP: «Non posso credere al modo in cui gli studios piangono miseria, dicendo che stanno perdendo soldi a destra e a manca quando danno centinaia di milioni ai loro CEO». Ma per Drescher, diventata celebre come attrice negli anni ‘90 grazie al ruolo da protagonista nelle serie TV “La Tata”, l’impegno nel sindacato è solo l’ultima di una serie di iniziative con cui ha cercato di incidere negli ambiti più disparati a livello sociale: per citare una delle sue frasi più note, «la mia vita intera è stata incentrata sul tramutare cose negative in positive».
Nel 1985 viene stuprata insieme a una sua amica da due uomini che avevano fatto irruzione nella casa dove si trovavano. Spinta dal ricordo di quella notte – dopo aver trovato la forza di denunciare e collaborare con la polizia per far condannare uno dei due rapinatori – diventa ambasciatrice ONU contro la violenza sulle donne. Nel 2000 scopre di avere un tumore all’utero, ma riesce a guarire e crea la fondazione Cancer Schmancer che si occupa di supportare le donne malate di cancro. Nel 1999 il marito fa coming out e i due divorziano ma rimangono in buoni rapporti, così lei decide di diventare ministro sacerdotale, in modo da poter legalmente officiare cerimonie nuziali tra coppie omosessuali: «Se ho sposato un gay» dice, «non capisco perché non posso sposare tra di loro tanti gay». Una donna che sembra uscita dalla sceneggiatura di un film a fianco di chi le sceneggiature vorrebbe continuare a scriverle venendo pagato a sufficienza.
Nel merito della protesta tra residuals, diritti d’autore e AI.
Cerchiamo di capire meglio perché Hollywood ha deciso di interrompere il suo operato così, apparentemente all’improvviso e chiarendo anche alcuni aspetti della nomenclatura utilizzata negli ultimi mesi.
Andando con ordine, i lavoratori facenti parti rispettivamente della Screen Actors Guil – American Federation of Television and Radio Artists – nomea che si usa per indicare il sindacato che rappresenta gli artisti del cinema e della televisione – e i Writers Guild of America – nome cui ci si riferisce generalmente per indicare i due sindacati attivi negli Stati Uniti d’America a difesa degli sceneggiatori – accusano i produttori e gli studios di non riconoscere adeguatamente, ossia con contratti aggiornati ed equi, gli enormi cambiamenti dell’industria dell’intrattenimento. La prima problematica evidenziata durante la conversazione tra sceneggiatori e attori di Hollywood con gli studios riguarda l’utilizzo regolamentato dell’AI nell’industria cinematografica, ma viene presto ampliata a una problematica economica ben più scottante che riguarda i residuals.
I “residui” sono i compensi finanziari pagati agli attori, ai registi cinematografici o televisivi e ad altri lavoratori coinvolti nella realizzazione di programmi TV e film in caso di repliche. Diventano di vitale importanza nel momento in cui ci si allontana dalla visione utopica e sognante dell’attore di Hollywood come una macchina che ingoia una spropositata cifra di soldi e ci si avvicina ad una realtà ben più “terrena” che consiste in un attore che vive di busta paga in busta paga e che per sopravvivere tra un lavoro e l’altro, tra un film e l’altro, si affida completamente ai cosiddetti “residui” per mantenersi a galla durante gli anni di magra. L’aggiornamento del sistema dei diritti residuali, con l’avvento delle piattaforme streaming, diventa fondamentale per garantire che chi cerca di guadagnarsi da vivere con la recitazione possa accedere all’assistenza sanitaria e guadagnare un reddito decente. Gli attori devono guadagnare 26.470 dollari all’anno, compresi i diritti residuali, per avere diritto alla copertura sanitaria. Tuttavia, questa soglia è raggiunta solo da una piccola percentuale di membri della SAG-AFTRA.
Che l’ascesa delle piattaforme di streaming abbia portato cambiamenti significativi nell’industria dell’intrattenimento, in particolare per quanto riguarda i compensi, non è di certo un mistero. Lo storico del cinema Jonathan Kuntz sottolinea che, a differenza dei media tradizionali dove le metriche di performance come i guadagni al botteghino e gli indici di gradimento Nielsen erano ampiamente disponibili, le piattaforme di streaming custodiscono gelosamente i dati relativi agli spettatori, rendendo difficile determinare il successo di uno spettacolo o di un film. Nel modello tradizionale ad esempio, gli sceneggiatori di programmi televisivi di successo erano premiati con pagamenti di diritti d’autore più consistenti in base a quanto spesso i loro programmi venivano riproposti e quante persone li guardavano. Ora, però, gli sceneggiatori di programmi per grandi piattaforme come Netflix, non hanno un’idea accurata dell’esito di un prodotto e i loro pagamenti di diritti d’autore non riflettono accuratamente quando un show televisivo ha successo in modo evidente. L’Alliance of Motion Picture and Television Producers, che rappresenta gli studios, ha dichiarato di aver proposto un aumento sostanziale dei diritti residuali che vedrebbe i maggiori servizi di streaming pagare il 22%. Tuttavia, la SAG-AFTRA è in attesa di un accordo migliore.
Un’altra parte dello sciopero riguarda la regolamentazione nell’industria dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale. L’AI dall’inizio del 2023 è diventata un argomento fisso sui giornali con picchi di interesse più o meno alti, arrivando a interessare non solo gli ambiti relativi a lavori di tipo “meccanico”, ma invadendo anche il campo dei lavori “creativi”, e dunque anche del cinema.
Ad Hollywood ci si divide tra chi santifica l’AI come una tecnologia dal potenziale immenso e chi la demonizza come la rovina del cinema. Tom Hanks, per esempio, ha dichiarato: «Ora chiunque può ricreare se stesso a qualsiasi età grazie all’intelligenza artificiale o alla tecnologia deep fake. Potrei essere investito da un autobus domani e morire, ma le interpretazioni possono continuare all’infinito». Questo è sicuramente uno dei temi centrali sull’utilizzo della AI: basti pensare al tragico incidente automobilistico di Paul Walker durante le riprese di Fast and Furious, incidente che sarebbe costato alla produzione milioni di dollari per l’impossibilità di terminare il Film. Un utilizzo che recentemente ha dato risultati sorprendenti in film come Indiana Jones e il quadrante del destino, ringiovanendo Harrison Ford e potendo così creare un flashback di impatto grazie al realismo dell’immagine. La possibilità che ci ha mostrato in questi film apre la strada a un ramo di produzione completamente nuovo. Con l’AI si possono creare sequel di vecchi film senza rompere la finzione mimetica dei protagonisti.
Tra il dire e il fare c’è di mezzo il capitale e da anni il cinema si è trasformato da industria dei sogni in sola industria volta a capitalizzare. L’arrivo delle piattaforme ha abbassato drasticamente la qualità del cinema, come si è abbassata la modalità di fruizione. Artisti che costruivano una narrazione visiva e sonora – Kubrick, Nolan, Wes Anderson – vedono il loro film proiettati e ascoltati dai computer che abbiamo sul tavolo davanti a noi durante il pranzo o nelle carrozze dei treni pieni abitate da persone alla ricerca di una distrazione.
L’arrivo delle piattaforme ha fomentato la possibilità di vendita delle case produttrici, che pensano a riempire questi scaffali di spazi infiniti con ogni genere di prodotto. L’importante è vendere, l’importante è fatturare. Alla luce di questo le nuove tecnologie informatiche, gli algoritmi, i bot, cercano e supportano l’azienda per capire quali sono le tendenze e i gusti in modo da poter creare un nuovo prodotto che sia il più possibile in linea ad una maggioranza più ampia di pubblico.
Le strutture digitali per far soldi richiedono un’immediata scalata al successo per finire al primo posto tra le tendenze nelle cose più viste. Così l’industria diventa serva dei fruitori. Si forma un ambiente creativo “finanzializzato”.
Renè Ferretti direbbe che «la qualità ci ha rotto il cazzo». Siamo quindi, per il cinema, in quello che potremmo definire lo Zeitgeist della nostra epoca (la cultura predominante) guidata da un algoritmo di vendita in cui, come sostiene Maggie Mcdonald, il contenuto è soltanto un mezzo per raggiungere un fine.
L’economia e la cultura americana hanno dimostrato più volte di essere speculative: ci si innamora del potenziale e in questo si investono tutte le proprie energie. Lo stesso è avvenuto con l’industria cinematografica: ciò che conta è venderne il più possibile e fare profitti. Quali i dubbi allora sull’intelligenza artificiale allora? Questa tecnologia, in mano alle produzioni, nello stato attuale delle cose, può diventare fuori controllo. Quando l’AI generativa avrà raccolto i volti di tutti gli attori, le produzioni diventeranno solo più aziende che hanno ridotto, insieme ai costi, anche l’organico di attori. Dobbiamo pensare che così facendo fra due o tre generazioni, gli attori non esisteranno più e si tratterà solo di volti nell’archivio hollywoodiano? Sorge così spontaneo domandarsi se questi volti potranno così essere usati per sempre.
Il soft power di Hollywood. La democraticizzazione del cinema è giusta?
In secondo luogo, l’AI dà l’accesso diretto alla scrittura di un film. Qui entra in gioco Caleb Ward, inventore dell’hub di Curious Refuge, una produzione e portale di apprendimento per cineasti di intelligenza artificiale. Da questa piattaforma sono usciti i trailer virali di film come Lord of the Rings by Wes Anderson Trailer | The Whimsical Fellowship, in cui si vede Timothée Chalamet nei panni di Frodo e Bill Murray nei panni di Gandalf. Il CEO di Curious Refuge vede in questa tecnologia la possibilità che individui senza esperienza nel settore dell’intrattenimento possano produrre mondi cinematografici.
Per molti questo potrebbe essere un problema. Si darebbe il il via a un’inondazione smisurata e fuori controllo di prodotti sul mercato, abbassando la qualità e perdendo il lato artistico che è poi dato dall’apporto umano. Se ognuno fa scrivere la sua storia, le possibilità che questa venga vista diminuiscono arrivando prossime allo zero. Queste le preoccupazioni della scrittrice Madelin Ashby riguardo le motivazioni di questi scioperi. Il cinema di Hollywood è stato per l’America uno strumento di soft power, perché riesce a riunire le persone attorno a una sola idea, a una narrazione condivisa. Questo è quello che il Giappone da un po’ di anni fa con gli anime o quello che la musica pop ha fatto per la Corea del Sud. Se l’intrattenimento è il luogo in cui le persone negoziano valori comuni, quali potrebbero essere le conseguenze dell’avere così tanto materiale differente che porta tutti a guardare cose diverse? Sarà quindi l’intelligenza artificiale ad assumersi quindi la responsabilità della visione e costruzione del nostro futuro?
L’idea che l’AI possa democratizzare l’intrattenimento ha le sue grosse criticità. Le proteste mettono quindi in luce anche i dubbi e i turbamenti che questa tecnologia potrebbe creare.
Ma il mondo avanza inevitabilmente e per questo bisognerà trovare un modo per conviverci. Il cinema è stata l’Arte del XX secolo, ogni innovazione tecnologica è stata un supporto per migliorare il lato artistico del film, per sorprendere e farci sognare. Continuerà a valere questo per il futuro o il film diventerà un prodotto non durevole?
Si riduce tutto ad uno scontro tra l’artista e il soldo, l’attore e il produttore, lo scrittore e la produzione, la mente e il braccio senza il quale il progetto non viene creato. Tutto, o quasi, in questo scenario sembra ridursi alla monetizzazione dell’arte, alla creazione di più materiale audiovisivo possibile, tralasciando la poetica e lo stile. Una storia vecchia che ci pare di aver già sentito da qualche parte e in effetti così è. Gli attori e gli scrittori sono stati abituati a non poter proferire parola sulle condizioni lavorative, difatti il loro lavoro è magico, quasi fittizio. La competizione è troppa e quindi loro devono solo ringraziare di avere l’opportunità di farlo.
Gli attuali problemi di Hollywood sono gli stessi che eroderanno la salute dei più ampi e a noi familiari equilibri di composizione del mondo. Ipnotizzati dalla promessa del profitto a breve termine di pochi rispetto alla stabilità e al benessere a lungo termine di tutti, il rischio è di perdere la cura rivolta a uno dei principali mezzi di narrazione al mondo. Un media che sin dalla sua ideazione ha il compito di raccontare le nostre storie.