- Introduzione
- Parte I
- Parte II
- Parte III
- Marzo 19, 2020
Compensare il definanziamento con la privatizzazione
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un disinteresse sempre maggiore da parte della politica alla sanità pubblica, trasformatosi in una tendenza irreversibile al definanziamento. Ciò è stato compensato con un massiccio potenziamento del secondo pilastro, nonché con incentivi alla sanità privata. A pagare il conto di un sistema sempre più esclusivo e inaccessibile sono naturalmente i cittadini, in particolare i milioni a basso reddito e i disoccupati, per i quali il percorso verso le cure adeguate è sempre più costellato di ostacoli.
Un trend costantemente a ribasso
Siamo nel mezzo di una pandemia e di un’epidemia nazionale, che sta colpendo violentemente il territorio italiano e i suoi cittadini, conducendo il nostro sistema sanitario sull’orlo del collasso, in una situazione emergenziale che provoca continuo stress e che peggiora sempre più.
Senza dubbio negli ultimi anni non ci siamo preparati ad uno stato di emergenza di questo tipo, mentre altri paesi sono stati colti più preparati. È il caso ad esempio della Corea del Sud, che ha infatti visto in pochissimo tempo ridursi il numero di nuovi contagi tra la sua popolazione. Considerando del resto i numerosi problemi che affliggono il nostro sistema sanitario nella gestione ordinaria, a prescindere dall’emergenza, tutto può risultare più chiaro.
Qualsiasi libro di finanza pubblica sostiene che le spese pubbliche in campo sanitario generano, oltre a benefici per gli assistiti, anche benefici esterni: aumento della produttività del lavoro (e quindi crescita del reddito nazionale) nonché riduzione del rischio delle epidemie.
Un dato d’altra parte è certo, in questi ultimi dieci anni, e quindi successivamente alla crisi del 2008, in cui c’è stata una riduzione parzialmente giustificata ai finanziamenti al sistema sanitario, non ci sono stati politici e amministratori che abbiano posto la sanità come fulcro dei loro programmi di governo. Le poche iniziative politiche di valorizzazione della sanità sono state prese soprattutto su base regionale, e quindi dai vari amministratori di regione, e non su base nazionale, prescindendo quindi da una visione omogenea e unitaria.
A ciò vanno poi aggiunti altri fattori importanti quali le mutate condizioni cui le epidemie si diffondono, le varianti economiche e quelle sociali che contribuiscono a minare la sostenibilità di tutti i sistemi sanitari. Si intende cioè l’invecchiamento della popolazione, il costo sempre crescente delle innovazioni tecnologiche mediche e farmaceutiche, l’aumento costante della domanda di servizi e prestazioni da parte dei cittadini.
In questo contesto particolarmente critico risulta decisamente fuori luogo ogni richiamo alle classifiche e alle statistiche sulla qualità del servizio sanitario, alcune di queste desuete, come quella della Oms del 1997 che vede l’Italia al secondo posto come qualità del servizio sanitario nazionale, o quella Bloomberg che si basa su dei fattori che non possono essere considerati proporzionali ai livelli di finanziamento. L’Italia, in quest’ultima classifica , si colloca al quarto posto,ma la valutazione si basa sul rapporto tra tasso di mortalità e finanziamento, che secondo alcuni esperti, tra cui i relatori del rapporto Gimbe, dipende soltanto per il 10% dalla qualità del sistema sanitario. Essi sostengono infatti che “L’aspettativa di vita alla nascita dipende da fattori genetici, ambientali sociali e dagli stili di vita. Se Bloomberg correlasse il finanziamento con l’aspettativa di vita a 65 anni in condizioni di buona salute e in assenza di malattie, l’Italia precipiterebbe in fondo alla classifica”.
Questi posizionamenti eccellenti rischiano dunque di celare, se non addirittura di giustificare, la tendenza al disinvestimento degli ultimi decenni, protratta da politici di qualsivoglia colore politico e appartenenza, che hanno gradualmente tolto valore al sistema sanitario pubblico, lasciando sempre più ampi margini al privato, rafforzando il secondo pilastro (quello delle convenzioni, che approfondiremo più avanti) e ledendo l’accessibilità dei cittadini al diritto alla salute.
Nel 2018, la spesa pubblica per la sanità, in rapporto al Pil era del 6,6%, portando l’Italia ad essere fanalino di coda dei paesi dell’Europa occidentale, insieme alla Spagna e alla Grecia e avvicinandosi pericolosamente alla soglia minima indicata dall’Oms, consistente nella percentuale in rapporto al Pil del 6,5%.
Facciamo un passo indietro
Le discussioni sulle storture del sistema sanitario nazionale avvengono dal momento della sua nascita, nel 1978, quando il parlamento approvava a larghissima maggioranza la legge 833 che ha istituito il Ssn in attuazione dell’art. 32 della costituzione.
Già la costituzione del 1946 dell’Organizzazione mondiale della sanità afferma che “il possesso del miglior stato di sanità possibile costituisce un diritto fondamentale di ogni essere umano”. La costituzione italiana fu influenzata proprio da questa idea, e la salute fu posta tra i diritti fondamentali e costituzionalmente protetti. Tuttavia, prima dell’attuazione della costituzione ci volle tempo, infatti, secondo un’inchiesta del Tempo e riportata da il Post, nel 1965 negli ospedali italiani mancavano 250mila posti letto, e come raccontava Silvia Bencivelli, giornalista e divulgatrice scientifica, gli ospedali erano ancora delle strutture fatiscenti e poco attrezzate, “luoghi dove si andava a morire, a farsi accogliere se poveri, o dove si abbandonavano i neonati”.
La legge del 78’ fu un radicale cambio di rotta. Il sistema sanitario nazionale, ispirato a principi di equità e universalismo, finanziato dalla fiscalità generale, si proponeva di “ superare gli squilibri territoriali nelle condizioni socio sanitarie del paese, la prevenzione delle malattie degli infortuni in ogni ambito di vita e di lavoro, l’uguaglianza dei cittadini dinanzi al servizio”.
Il sistema sanitario nasce dunque per coniugare la prevenzione, il controllo e il trattamento delle malattie, la protezione e la promozione della salute, all’interno di un quadro di benessere fisico mentale e sociale e dunque non solo come risposta alla malattia.
Purtroppo, e soprattutto in questi ultimi decenni, la spesa sanitaria è stata concepita esclusivamente come un costo, e non come un investimento fondamentale per la crescita produttiva economica e sociale di un paese. Dunque non si può sostenere, come afferma il rapporto Gimbe, che la sostenibilità di un sistema sanitario nazionale sia frutto esclusivamente di corrette valutazioni finanziarie, in quanto queste si devono necessariamente considerare all’interno di un quadro ben più ampio, che riguarda il cittadino nella sua più profonda individualità .
Il rapporto Gimbe del 2019 descrive quattro principali criticità : il definanziamento pubblico, l’ampliamento del “paniere” dei nuovi LEA, i grandi sprechi e inefficienze,l’espansione incontrollata del secondo pilastro.
“I LEA sono prestazioni e servizi che il SSN è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di compartecipazione (ticket), con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale”.
A queste criticità è necessario aggiungere gli squilibri territoriali in ambito regionale, frutto del rapporto spesso inefficiente tra stato e regioni, che ha determinato una lesione del diritto alla salute nella sua accezione filosofica e universalistica.
Secondo l’articolazione delle competenze dettata dalla Costituzione italiana (art. 117), la funzione sanitaria pubblica è infatti esercitata da due livelli di governo. Il primo è lo Stato, che definisce i Livelli essenziali di assistenza (LEA), l’ammontare complessivo delle risorse finanziarie necessarie al loro finanziamento e che presiede il monitoraggio della relativa erogazione. Il secondo è costituito dalle regioni, che hanno il compito di organizzare i rispettivi Servizi sanitari regionali (SSR) e garantire l’erogazione delle prestazioni ricomprese nei LEA.
Dunque le regioni hanno il fondamentale compito di organizzare in termini attuativi l’erogazione dei servizi, e le rispettive modalità, riducendo al massimo il disavanzo e tagliando gli sprechi.
La spesa sanitaria pubblica
Nel 2018 la spesa complessiva per la salute, nell’accezione più ampia possibile, consiste in circa 204 miliardi di cui il 75,9% riguarda la spesa sanitaria, mentre il restante è di spesa sociale di interesse sanitario (20,5%) e fiscale (3,5%).
Nel 2018 la spesa sanitaria include circa 115 miliardi di spesa pubblica e poco più di 41 miliardi di spesa privata, di cui 36 miliardi a carico delle famiglie (out-of-pocket) e circa 6 miliardi di spesa intermediata. In termini percentuali, nel 2017 il 27% della spesa sanitaria è privata e di questa l’86,1% è sostenuta dalle famiglie. Il dato che preoccupa è proprio quest’ultimo, la spesa out of pocket, in costante crescita negli ultimi decenni, emblema del fallimento delle politiche assicurative e intermediate e che mostra un aumento esponenziale della spesa da parte delle singole famiglie italiane. Questa spesa ha registrato un aumento non indifferente negli ultimi venti anni : dal 19,3% del periodo 2000-2008 al 30,3% del periodo 2009-2017.
La spesa sanitaria pro capite rappresenta l’ammontare di risorse monetarie, in media disponibili per ogni individuo di una data regione, per far fronte alle spese sanitarie di un determinato anno. In tal senso dovrebbe indicare le risorse disponibili mediamente sia per fornire i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), sia gli altri servizi che la regione ritiene di essere in grado di garantire alla popolazione locale.
Il dato della spesa pro capite in Italia diminuisce drammaticamente, scendendo addirittura al di sotto della media Ocse (2.622 in Italia contro i 2868 della media Ocse), portando l’Italia a standard inferiori di ben quattordici paesi europei che investono più di noi con una differenza che va dai 456 euro della Finlandia ad un massimo di 2.777 euro della Norvegia.
Dalla lettura della relazione annuale del MEF emerge che le voci di spesa pubblica si articolano in: redditi da lavoro dipendente ; consumi intermedi ; prestazioni sociali in natura beni e servizi da produttori market, in cui rientrano la farmaceutica convenzionata, l’assistenza medico-generica da convenzione, altre prestazioni sociali in natura da privato ; e l’ultima voce che riporta altre spese, tra cui gli interessi passivi.
Se vediamo nel dettaglio l’andamento delle singole voci di spesa, notiamo una graduale crescita in termini di finanziamento assoluto, con eccezione della farmaceutica convenzionata che, tra il 2002 e il 2018, ha perso pericolosamente terreno. Ciò inevitabilmente si ripercuote sulla spesa out of pocket. Inoltre, è vertiginosamente salita la spesa per altre prestazioni in natura da privato, che può essere lo spunto per una riflessione, che poi riprenderemo più avanti, sulla tendenza al rafforzamento del secondo pilastro per compensare il definanziamento alla spesa pubblica e quindi quella al SSN.
La verità sul definanziamento
Innanzitutto è doveroso fare una precisazione: i finanziamenti al sistema sanitario, in termini assoluti, sono gradualmente cresciuti fin dalla nascita del sistema sanitario. Tra il 2001 e il 2019 vi è stata una riduzione di qualche centinaio di milioni solo tra il 2012 e il 2013 e tra il 2014 e il 2015.
Se analizziamo nel dettaglio il trend di crescita vediamo che esso si è appiattito dal 2008: l’incremento percentuale del 58,2% nel periodo 2000-2008 è precipitato all’8,1% nel periodo 2009-2017.
Tuttavia ci sono due fattori da tener ben presenti: la differenza tra valore nominativo (assoluto) e valore reale, e la disattesa di previsioni di finanza pubblica in un quadro di crescita europea.
Infatti, il tasso di crescita annuale del finanziamento al Ssn, tra il 2010 e il 2019, è di 0,90%, mentre quello di inflazione, ossia l’aumento del livello medio dei prezzi, è dell’1,07%. Dunque è ridotto drasticamente il potere di acquisto della moneta. Ciò si riflette soprattutto sull’ammodernamento delle strutture sanitarie e sull’acquisto di prodotti farmaceutici ( pensiamo alla voce sopra citata di farmaceutica convenzionata ). Il finanziamento dunque non si può considerare in linea con l’andamento dell’inflazione, in un quadro di crescita non proporzionale rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale.
Soprattutto in queste settimane di imponente emergenza, si è dibattuto molto su un taglio complessivo di 37 miliardi citato più volte da politici, giornalisti ed esperti.
I dati considerati nel periodo 2010-2018, e riportati dal rapporto Gimbe, mostrano infatti un definanziamento di circa 37 miliardi, manifestatosi principalmente in “mancati aumenti”.
Quindi, se è vero che c’è stato un costante aumento delle risorse stanziate, come sono sempre pronti ad affermare gli esponenti dei vari governi degli ultimi anni, è vero anche che sono stati effettuati dei tagli rispetto alle previsioni e agli obiettivi espressi di finanza pubblica. In pratica sono stati disattesi i livelli programmati per l’attuazione degli obiettivi di finanza pubblica, comportamento ingiustificato soprattutto considerando i dati in rapporto all’aumento costante della spesa out of pocket e dunque della sanità privata.
Soltanto nel periodo tra il 2015 e il 2019 sono andati al Ssn 12,1 miliardi in meno rispetto a quelli previsti dalle precedenti manovre.
L’annuale relazione della corte dei conti mostra una delle frenate più importanti : quella arrivata dagli investimenti degli Enti locali e dalla spesa per le risorse, una combinazione che si ripercuote su quantità e ammodernamento delle strutture nonché sulla disponibilità di personale, calato drasticamente di circa 46mila unità.
La spesa per la retribuzione del lavoro dipendente, guardando alla relazione del MEF, risulta infatti significativamente più bassa: nel 2018 rappresenta il 30,8% della spesa complessiva, con una percentuale sensibilmente ridotta rispetto a quella del 2002 (36,9%). In particolare, secondo i dati Gimbe, il tasso di variazione medio annuo della spesa per i redditi da lavoro dipendente si attesta mediamente al 5,7% nel periodo 2003-2006, si azzera nel periodo 2007-2011 e passa a -0,5% nel periodo 2012-2018.
“Nonostante si osservi una parziale inversione di rotta in questo ultimo anno si può calcolare un definanziamento di circa 2 miliardi di euro tra il 2010 e il 2018” .
La differenza tra le diverse situazioni regionali, poi, si percepisce chiaramente: nelle regioni che si trovano soggette ad un piano di rientro la stima è del -4,8% mentre per le altre si attesta al 2,2%.
E’ dunque facile configurare una differenza qualitativa tra le varie regioni italiane nell’erogazione e nell’accesso ai servizi, nonché una riduzione di medici su tutto il territorio italiano.
La problematica derivata dal mancato aumento di risorse per la sanità pubblica, di storia decisamente più antica rispetto ai periodi fino ad ora considerati, è rappresentata anche dal calo dei posti letto negli ospedali : secondo l’organizzazione mondiale della sanità l’Italia dispone di 164 mila posti letto per pazienti acuti, dato ridotto di circa un terzo dal 1980, alla nascita del sistema sanitario nazionale.
È riportato esclusivamente il dato per i posti letto di terapia intensiva, in quanto il taglio dei posti letto negli ospedali può essere considerato espressione di una tendenza di de-ospedalizzazione e rafforzamento dei sistemi di assistenza domiciliare ed extradomiciliare.
Guardando al futuro
Nei prossimi anni, e quindi successivamente al superamento di questa fase così complessa per il nostro sistema sanitario, che vedrà un dispiegarsi di risorse inaudito, sarà centrale il tema della riallocazione delle risorse e della cooperazione tra operatori.
Se si guarda alle agende politiche degli ultimi decenni, si vede, tristemente, come la discussione sulla sanità sia sempre relegata ai margini e mai affrontata strutturalmente.
Se in una fase di crisi economica l’investimento in ambito sanitario è risultato stagnante, nel periodo subito successivo di crescita economica si mostra non adeguatamente proporzionale. “Se inizialmente il definanziamento della sanità pubblica era imputabile alla crisi economica, oggi si è trasformato in una costante irreversibile”, commenta il rapporto Gimbe del 2019.
Guardando al futuro, la legge di Bilancio del 2019 aveva aggiunto 2 miliardi per il 2020, e ulteriori 1,5 miliardi per il 2021, per un incremento complessivo di 8,5 miliardi nel triennio 2019-2021 : il rapporto spesa sanitaria\Pil era previsto però in riduzione fino ad arrivare al 6,4% nel 2022. Questi dati ci mostrano scenari in cui la spesa sanitaria in Italia si avvicina sempre di più a quella dei paesi dell’Europa orientale, vedendo l’Italia fanalino di coda insieme alla Spagna tra i paesi dell’Europa occidentale. Inoltre, data la natura provvisoria dei governi che si sono succeduti negli ultimi decenni e dati i mancati incentivi avvenuti in passato, la paura è che la spesa sanitaria possa nuovamente disattendere gli obiettivi prefissati.
Ovviamente, l’attuale situazione, fa sì che ci sia in atto un incremento notevole di risorse, che ci condurrà dinanzi ad un bivio fondamentale : investire il più possibile per affrontare l’emergenza e poi scordarsi nuovamente dell’importanza del servizio sanitario nazionale, o ricomprendere sotto nuove prospettive l’immenso valore del SSN, accettando la sua centralità in un’ottica di crescita sociale ed economica.
L’espansione del secondo pilastro
Il sistema sanitario italiano si regge su tre pilastri: la sanità pubblica, la sanità integrativa e la sanità privata. Il primo di questi garantisce l’erogazione di una pluralità di prestazioni sanitarie, identificate dai c.d. LEA (livelli essenziali di assistenza). Le prestazioni non garantite dal Sistema Sanitario Nazionale (SSN) sono coperte dai fondi sanitari integrativi (secondo pilastro) mediante il rimborso agli iscritti delle spese sostenute per prestazioni extra LEA; quali l’assistenza socio-sanitaria per soggetti non autosufficienti e quella odontoiatrica. Si compone così un quadro nel quale il SSN ricopre un ruolo predominante, in ossequio al diritto alla salute sancito dall’art.32 della Costituzione; affiancato da un sistema mutualistico che garantisce agli scritti, dietro pagamento di contributi, la copertura finanziaria per una serie di prestazioni ritenute non essenziali ma integrative; lasciando, in ultimo, la libertà ai cittadini di potersi rivolgere alla sanità privata o di stipulare polizze assicurative (terzo pilastro).
Dal mutualismo dell’800 ai Fondi Sanitari Integrativi
I primi Fondi sanitari in Italia risalgono all’800, costituiti da artigiani ed operai per far fronte all’esigenza di munirsi di strumenti in grado di garantire loro una tutela in caso di malattie, invalidità, guerre, povertà e vecchiaia. Sono le Società di Mutuo Soccorso affiancate, più tardi, dagli Istituti mutuo-previdenziali. Questi ultimi si svilupperanno molto nel corso degli anni venti del ‘900, essendo divenuto obbligatorio per ogni cittadino essere iscritto ad uno di tali Istituti. Nascono, infatti, in quel periodo numerose Mutue sanitarie (INAM, ENPAS, INADEL), differenziate per categoria di appartenenza e per livello di copertura sanitaria garantita. Il settore sanitario italiano, per lungo tempo, sarà sostanzialmente costituito dalle Mutue; fino a quando, la loro frammentazione e l’enorme cumulo debitorio, portarono alla loro soppressione e all’istituzione, nel 1978, del Sistema Sanitario Nazionale. All’uscita di scena delle Mutue non parteciparono anche le Società di Mutuo Soccorso che, invece, rimasero operanti, in quanto l’adesione a queste non era obbligatoria ma volontaria e, inoltre, esse erano attive anche in settori diversi dall’assistenza sanitaria. La legge istitutiva del SSN prevedeva, infatti, la possibilità di integrare le prestazioni erogate dal servizio pubblico tramite il ricorso ad assicurazioni private o a forme di mutualità volontaria. Solo nel 1992, contemporaneamente all’articolazione del sistema sanitario in tre pilastri, fu introdotta la categoria dei Fondi Sanitari Integrativi, nella quale confluirono anche le Società di Mutuo Soccorso. Il legame con il mondo del lavoro, genitore di questa modalità di assistenza, è rimasto tutt’ora molto forte: esistono FSI destinati esclusivamente a diverse categorie professionali (l’EMPAM per i medici, la Cassa Forense per gli avvocati…) e numerosi contratti collettivi ne prevedono l’iscrizione dei lavoratori (il Fondo Mètasalute per i metalmeccanici). Così, l’eredità mutualistica ottocentesca fu raccolta da tali fondi; l’ambito di operatività dei quali, come si accenna in apertura, inizia laddove finisce il campo di operatività del SSN.
Sanità integrativa sempre più sostitutiva
La sanità integrativa sta rivestendo sempre di più un ruolo di sanità sostitutiva, entrando in concorrenza con quella pubblica. A causa di una normativa incompleta e frammentaria, in materia, vige sostanzialmente un regime di “deregulation” che dà vita a situazioni paradossali. Se da una parte, infatti, la norma prevede che, visto lo spiccato interesse sociale, i fondi sanitari integrativi (FSI) siano enti no-profit; dall’altra, prescrive che essi per essere considerati tali, possano destinare soltanto il 20% delle risorse alla copertura di prestazioni integrative; riservando il restante 80% a prestazioni sostitutive, ossia trattamenti già disponibili presso il SSN. Sicuramente una previsione normativa singolare considerando che, essendo no-profit, godono di un regime fiscale differenziato. Agevolazioni che la normativa riconosce loro non solo in relazione alle prestazioni di sanità integrativa ma a tutte quelle da loro coperte. Ciò contribuisce a spiegare il costante trend di crescita che negli ultimi anni sta vivendo tale settore: oggi i fondi sono 322 contro i circa 30 del 1995 con un numero di iscritti salito da 1 milione ai 12,5 attuali. Analizzando il dato emerge che solo il 2% di essi ha funzione esclusivamente integrativa; al contrario, la quasi totalità rivolge circa il 70% delle risorse disponibili per il rimborso di prestazioni sostitutive che, tra l’altro, vengono erogate in prevalenza da strutture private, in forza di accordi stipulati dai fondi stessi. Pertanto stiamo assistendo alla deriva di un settore, normativamente previsto come no-profit, verso spiagge contaminate dalla logica del profitto. Se da una parte, infatti, aumentano gli iscritti e così le risorse; dall’altra, i fondi rimborsano sempre meno. Ingenti somme dei contributi versati vengono assorbite da costi di gestione e da contratti di assicurazione che i fondi stipulano per garantire il loro rischio. Perché riassicurarsi se il patrimonio di tali enti, vista la maggiore redditività, sostanzialmente cresce? Ciò desta più di qualche perplessità, non può forse dirsi che i FSI facciano il gioco del settore assicurativo? Certamente quest’ultimo, per le motivazioni suddette, ha sfruttato il fertile terreno per gettare un seme, giungendo, negli anni, ad infestare l’intero campo; come dimostra un dato: l’85% dei Fondi Sanitari Integrativi sono controllati, in qualità di gestori, dalle compagnie assicurative. Compagnie che, vista la difficoltà riscontrata in Italia nel diffondere la cultura della polizza sanitaria, hanno astutamente malleato un settore non di loro competenza. A favorire tali dinamiche hanno contribuito, inoltre, la mancanza di trasparenza e di controlli che vige in materia: l’anagrafe dei Fondi Sanitari Integrativi, istituita presso il Ministero della Salute (Decreto Turco, 2008), non è accessibile al pubblico e nessun sistema di controllo è stato attuato, né tantomeno un regime sanzionatorio. Per meglio precisare: interventi a riguardo erano previsti nel decreto legislativo del ’92 (art 8 e 9) ma, esso non ha mai conosciuto la luce per mancanza di alcuni decreti attuativi. È mancata, dunque, la volontà politica necessaria affinché tale settore rivesta effettivamente il ruolo ad esso assegnato.
Effetti collaterali
Quali sono le conseguenze dell’espansione incontrollata del secondo pilastro? Questo fenomeno sta minando fortemente la sostenibilità del Sistema Sanitario Nazionale. Riconoscendo ai Fondi agevolazioni fiscali riguardo qualsiasi prestazione da essi coperta e non limitandole, quindi, esclusivamente a quelle di sanità integrativa, si sta di fatto finanziando un sistema sanitario parallelo che eroga i medesimi trattamenti già garantiti dal servizio pubblico. Finanziamento che si sostanzia nel mancato gettito per lo Stato, dovuto alle deduzioni e detrazioni riconosciute a tali enti. Una recente stima dell’ISTAT, dimostra che la spesa fiscale, derivante dalle agevolazioni riconosciute al secondo pilastro, ammonta a 3,3 miliardi di euro. Somma che potrebbe essere investita nel SSN, che da anni non conosce altro che il definanziamento. L’espansione di questo settore, pertanto, non comporta una riduzione della spesa che lo Stato deve affrontare per la sanità; tutt’altro. Costituisce, almeno, un vantaggio per il privato cittadino ad essi iscritto? Solo in parte. Questo, infatti, versa un contributo, una quota del quale volta a garantire prestazioni a lui già accessibili presso il SSN, finanziato dalla fiscalità generale; si ritrova così a pagare due volte la stessa prestazione. La transizione da un sistema universalistico, com’è oggi quello italiano, verso un sistema misto, comporta, dunque, l’aumento non solo della spesa dei singoli privati ma anche di quella pubblica. A dimostrazione di ciò, rilevante è il dato americano: l’incidenza della spesa pubblico-privata sul PIL è del 17,2%. Negli Stati Uniti sostanzialmente la sanità pubblica assicura prestazioni ai suoi assistiti pagandogli polizze assicurative. Questo trend, trattato ampiamente da una grande letteratura, è spiegabile in vari modi. Innanzitutto, man mano che si allarga l’influenza del sistema assicurativo sull’erogazione delle cure, si riduce la possibilità di controllare i prezzi. I prezzi tendono a crescere. In secondo luogo, l’attività stessa delle strutture assicurative ha altissimi costi amministrativi, pari al 25% complessivo delle prestazioni. In Italia la spesa pubblica del Servizio sanitario nazionale è più bassa, aggirandosi intorno al 12-13%. Dei risvolti di una simile transizione, non preoccupa solamente il dato economico, ma, soprattutto, l’aumento delle diseguaglianze sociali. L’incentivo alla sanità privata indebolisce la sanità pubblica, ed esclude milioni di cittadini a basso reddito, che non possono dotarsi di assicurazioni o fondi sanitari; come ad esempio i disoccupati. Si incentiva un accesso ai servizi differenziato, privilegiando chi ha un’assistenza integrativa e creando un’ulteriore discriminazione, non solo in base al reddito, ma anche alla posizione lavorativa.
L’attenzione prestata dai privati per il mercato sanitario trova fondamento nell’altissima redditività che gli investimenti in tale settore garantiscono (pari al 115-150%). Opportunità che soltanto un sistema sanitario pubblico, incardinato sulla base di principi di universalità ed eguaglianza, sa tradurre, oltre che in termini economici, soprattutto in diritti assoluti, attribuendo all’investimento un valore inestimabile. Ciò, alla luce anche del particolare periodo di crisi contemporaneo, ci impone una riflessione sul modello di sanità che vogliamo per il futuro del paese.
Sanità, cure e disuguaglianze
L’assenza di un progetto ben strutturato relativo ad un Secondo Pilastro in Sanità ha portato inevitabilmente al risultato osservabile all’interno del panorama sanitario attuale, cioè ad un sistema in cui i ruoli e gli ambiti di competenza dei tre pilastri hanno confini labili e poco definiti. Questa situazione grava inevitabilmente sui diritti (e sulle tasche) dei cittadini che, come si legge nell’articolo 32 della Costituzione, avrebbero diritto a garanzie da parte dello Stato sulla loro salute.
A smentire questa promessa i dati, dove si osserva come il trend della spesa sanitaria privata in Italia non abbia fatto che aumentare negli ultimi anni. In particolare, oltre al contributo per il finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), che avviene attraverso la fiscalità generale, ogni cittadino versa un contributo aggiuntivo anche alla sanità privata di mediamente 580 euro pro capite, oltretutto con un livello di copertura da parte delle Forme di Sanità integrativa (FSI) di meno del 14%.
Questo significa che ogni cittadino deve sostenere contribuzioni doppie per ricevere potenzialmente lo stesso tipo di servizio, considerando che in molti casi le prestazioni erogate dalle strutture private sono sostitutive di quelle del SSN e non integrative. Il fatto che nell’ultimo decennio si sia registrato un massiccio arretramento del finanziamento pubblico in sanità ha fatto in modo di dover richiedere ai cittadini una quota sempre maggiore delle spese di accesso alle cure, generando inevitabilmente un’ingente quantità di disuguaglianze sociali. In questo modo infatti l’accesso alle cure è strettamente condizionato dalla disponibilità economica del singolo.
Confrontando il nostro scenario con il panorama degli altri paesi OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), l’Italia rientra nella fascia dei paesi con maggiore incidenza delle spese sanitarie private out of pocket, con un ammontare di più del doppio rispetto alla maggior parte dei paesi europei. Facendo riferimento ai dati del Rapporto Gimbe del 2019 infatti, risulta che il 27% della spesa sanitaria italiana sia privata e che di questa l’86,1% sia appunto out of pocket, cioè sostenuta direttamente dalle tasche delle famiglie. La differenza principale del nostro sistema rispetto a quello di molti altri paesi OCSE è quella di non avere delle funzioni ben definite assegnate al Secondo Pilastro Sanitario ed è quindi conseguentemente assente anche un’organizzazione di livelli assistenziali adeguata a diverse categorie di cittadini.
Il caso del federalismo sanitario
Larga parte di queste disuguaglianze sociali sono state accentuate in maniera più marcata dal federalismo sanitario, che ha generato disparità catastrofiche sul piano regionale. Per federalismo sanitario si intende ciò a cui ha portato la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001. Questo ha affidato la tutela della salute dei cittadini ad una legislazione concorrente tra Stato e Regioni, configurando un sistema che si muove tra diversi centri di potere e che, soprattutto, lascia maggiore autonomia e competenza ai vari nuclei locali. Le diseguaglianze generate da questa struttura sono cresciute progressivamente negli anni, sia sul piano economico (rispetto agli effettivi e differenti costi della sanità per i cittadini nelle varie regioni), che sul piano sociale e delle possibilità di accesso alle cure. Ad incrementare ulteriormente le disparità regionali soprattutto la differente funzione svolta dalla spesa sanitaria privata, che assume ruoli e funzioni differenti a seconda delle regioni.
Nel Nord Est infatti la funzione è principalmente integrativa rispetto al SSN e quindi la scelta di ricorrere ad un privato verte su fattori di maggiore accessibilità alle visite e su esigenze causate dalle prestazioni di alta diagnostica, oltre alle cure odontoiatriche. In molte regioni del Centro Sud invece ci si appella a strutture sanitarie private principalmente per quanto riguarda il comparto dell’ospedalizzazione, in particolare al fine di ridurre le liste d’attesa per i ricoveri, che in regioni come il Lazio raggiungono anche gli 82 giorni d’attesa. Il fatto di rivolgersi a strutture e prestazioni della sanità privata quindi risponde sia alle esigenze della nuova sfera dei bisogni (come nelle regioni con del Nord Est) che a servizi disfunzionali in alcuni SSN regionali (come nel caso del Centro Sud).
Il punto d’arrivo però, di qualsiasi entità sia l’esigenza che spinge al ricorso ai privati, è sempre il fatto che l’assenza di un Secondo Pilastro Sanitario ben regolato e funzionale alle esigenze dei cittadini incentiva queste spese a gravare direttamente sulla capacità reddituale e sulla disponibilità economica dei singoli.
Forme Sanitarie Integrative e disuguaglianze regionali
Vi sono comunque delle Forme Sanitarie Integrative (FSI) che si occupano di rimborsare ai cittadini parte di queste spese private, sebbene prigioniere di un sistema disfunzionale di Secondo Pilastro Sanitario e quindi prive di un’effettiva capacità di agire in maniera capillare sulle spese. Gravano però anche sulle FSI le disparità regionali, che prevedono forme di supporto completamente differenti per i loro cittadini.
La Lombardia ad esempio è la regione in cui si spende di più in sanità privata, ma è anche la regione in cui le spese coperte dalle FSI sono più alte, e gestiscono una quota pari a 247,83 euro per cittadino. Peculiare è invece il caso della Liguria, che presenta uno dei più alti indici di spesa sanitaria privata out of pocket, ma affida queste spese quasi completamente alla capacità reddituale dei cittadini. Altra situazione emblematica è quella della Campania, dove il costo pro capite della spesa sanitaria privata non è particolarmente elevato, ma le FSI provvedono a malapena ad una copertura dell’1% di queste, per altro in una delle regioni con PIL pro capite regionale più basso d’Italia. Le spese per l’accesso al SSN sono quindi considerevolmente differenti da una regione all’altra e un particolare accenno su questo fronte lo merita l’incidenza dei cittadini esenti, massicciamente concentrati al Sud e nelle Isole.
La motivazione che riconduce una maggiore presenza delle FSI in alcune zone d’Italia piuttosto che altre è quella che collega questi servizi prevalentemente al settore del lavoro dipendente, connesso quindi alla distribuzione dell’occupazione e più nello specifico legato alla presenza sul territorio di aziende medio- grandi o di Pubbliche Amministrazioni. La gran parte degli assicurati in questo senso infatti si concentrano tra il Nord e il Centro del nostro paese, lasciando nuovamente più scoperta proprio quella fascia di cittadini che già si trova ad avere un’assistenza sanitaria meno prestante sul suo territorio.
L’ambito della farmaceutica convenzionata è un altro settore che si sta trovando, negli anni, a essere sempre più profondamente penalizzato. Secondo il rapporto MEF del 2019 sul monitoraggio della spesa sanitaria, la spesa in farmaceutica convenzionata è passata da un 14,2% del 2002 ad un 6,6% del 2018. La conseguenza di questi dati porta inevitabilmente ad ulteriori elementi che alimentano la disuguaglianza, in quanto con la diminuzione delle spese nella farmaceutica convenzionata anche il costo dei farmaci a gravare sui cittadini aumenta notevolmente.
Liste d’attesa: quanto incidono sul rapporto tra SSN e privati
Secondo le statistiche, la maggior parte degli italiani rispetto al SSN lamenta prevalentemente la questione delle liste d’attesa, così lunghe da costringere in molti casi i pazienti a rivolgersi direttamente al privato. Questo fenomeno, in effetti, non ha fatto che crescere esponenzialmente negli ultimi anni, con un aumento dei giorni d’attesa persino a due mesi nel caso di esami specifici come le mammografie. Sembra essere questo infatti il principale fattore che spinge i cittadini a rivolgersi a strutture private, nonostante il conto da pagare per delle attese più brevi diventi sempre molto salato. La problematica relativa agli eccessivi tempi d’attesa è stata inoltre ampiamente sfruttata e cavalcata da parte della maggior parte delle assicurazioni sanitarie, che hanno accentuato attraverso massicce campagne pubblicitarie questo aspetto controverso del nostro SSN con immagini di uomini con visi costellati di rughe e barbe chilometriche.
Ci sono casi in cui però il tempismo è fondamentale, e così molti italiani anche con redditi molto bassi scelgono il pagamento come corsia preferenziale di accesso alle prestazioni in tempi compatibili con le loro esigenze: ad esempio gli accertamenti di alta diagnostica. Un altro settore in cui sottoporsi a lunghi tempi d’attesa diventa particolarmente deleterio è quello della riabilitazione, campo in cui risulta essere il 54% a pagare out of pocket la prestazione, oppure addirittura in molti casi anche a rinunciarvi per i costi eccessivi.
Anche per le liste d’attesa la componente territoriale sembra essere incisiva nell’influenzare il fenomeno, infatti, la percentuale più alta che si è rivolta al privato a causa delle eccessive attese per accedere alla sanità pubblica è quella dei residenti al Sud e Isole. In particolare, i giorni medi d’attesa sono di circa 83 nel Lazio e generalmente di 62 nel panorama del Sud e delle Isole, contro i 33 giorni del Nord Italia.
Migrazioni sanitarie e divario tra regioni
In generale, la percentuale di cittadini che lamentano sempre più ostacoli nel riuscire ad accedere alle cure sembra progressivamente aumentare, contestualmente alla crescita demografica, all’evoluzione scientifica e all’innalzamento della longevità. Questi elementi generano una crescita della richiesta di prestazioni sanitarie, alla quale negli ultimi anni il nostro SSN non sembra riuscire a sopperire, o sembra comunque farlo con delle profonde disparità soprattutto regionali.
Queste mancanze generano massicci flussi migratori di cittadini da una parte all’altra del nostro paese, che vanno in cerca di una maggiore qualità delle cure o di più snelle liste d’attese. Nella gran parte dei casi comunque la migrazione da una regione all’altra va fatta risalire ad importanti terapie patologiche: le principali sono quelle oncologiche, cardiovascolari, malattie croniche e patologie pediatriche.
Una peculiarità che peggiora il quadro è il fatto che, al di là delle migrazioni sanitarie, sembra che in generale, secondo i dati ISTAT sulla salute degli italiani del 2015, la concentrazione di cittadini con patologie gravi si riscontri nettamente più alta al Sud. Si parla di un 49% di persone che hanno superato i 65 anni e presentano almeno una patologia cronica grave, rispetto ad un 39% del Nord. Anche le percentuali di fumatori e soggetti obesi sembrano essere molto più alte al Sud rispetto al Nord.
Il federalismo sanitario ha quindi accentuato sotto vari punti di vista il divario tra regioni, in particolare tra Nord e Sud, presentando un’indiscussa penalizzazione del Mezzogiorno, che ha visto un’ulteriore contrazione della speranza di vita alla nascita e una perdita ingente di fondi per la sanità, dal momento in cui la maggior parte degli abitanti di queste zone sceglie di spostarsi al Nord per le cure, ridistribuendo quindi in questa direzione anche parte dei finanziamenti.
Chi potrà realmente migliorare il sistema?
Il rapporto RBM-Censis del 2019 riflette sulle problematiche evidenziate riguardo le carenze del nostro SSN e sulle altrettante problematiche in merito alle mancate coperture offerte dalle FSI, mettendo in luce come il nucleo del problema sia da far risalire ad una più adeguata informazione e consapevolezza dei cittadini relativamente a questi ostacoli. Così facendo, infatti, secondo il rapporto, tutti sarebbero in grado di ovviarvi dotandosi di forme di copertura delle spese sanitarie, cessando anche le differenze che tuttora vengono perpetuate tra le FSI riconosciute a molti lavoratori dipendenti, rispetto ai numerosi che invece ne rimangono tagliati fuori.
Forse però sarebbe più coerente se un processo di revisione e riesamina della struttura del nostro SSN avvenisse da parte dello Stato, che dovrebbe operare in una direzione tale da offrire maggiori garanzie sulla salute dei suoi cittadini, e non tanto una riorganizzazione da parte della popolazione sulla singola gestione delle spese sanitarie. Così facendo, altrimenti, si continuerà a perpetuare un sistema nel quale larga parte delle spese e delle responsabilità nella gestione delle mancanze gravano principalmente sulle spalle della popolazione. In particolare, poiché è la Repubblica a doversi occupare della tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo, di conseguenza i suoi abitanti non possono essere incitati a spendere maggiori fondi nei sistemi di copertura sanitaria e di conseguenza nelle strutture private. La tutela della salute è un diritto, e, come tale, tutti i cittadini dovrebbero poterne godere, al di là del reddito, della posizione lavorativa e della loro collocazione geografica in una regione piuttosto che in un’altra.
Parte IV

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Parte VI

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Parte VII

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Parte VIII

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Con i contributi di

Lorenzo Cirino
Redattore

Emilio Di Marziantonio
Redattore

Arianna Preite
Redattrice