“Scialla Marì …sono solo un care leaver”:
esperienze, aneddoti e storie -
appunti del diario di un Tutor per l’autonomia
Questa è una di quelle esperienze che lascia il segno per diversi motivi e da punti di vista molto differenti: quello personale, quello professionale in senso ampio, ma anche educativo, emotivo, esperienziale e metodologico.
I care leavers sono giovani che al compimento della maggiore età vivono fuori dalla famiglia di origine sulla base di un provvedimento dell’Autorità giudiziaria.
Il mio lavoro e quello degli altri operatori dell’Asp Asilo Savoia inizia a novembre 2019 dopo una lunga e riflessiva preparazione metodologico-operativa.
L’Ente sta portando avanti diverse progettualità riguardanti i neomaggiorenni grazie ai fondi e alle risorse messi a disposizione dalla Regione Lazio, dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e dal Dipartimento Politiche sociali di Roma Capitale.
Durante il nostro lavoro ci siamo resi conto che questi ragazzi combattono una guerra infinita contro il loro passato che, inevitabilmente, torna sempre, anche “solo” per essere raccontato al nuovo operatore di turno che in quel momento si occupa del proprio “caso”.
Ogni volta dunque occorre ricordare, rimettere insieme i pezzi e con un nodo in gola raccontare la propria storia riportando alla mente accadimenti che vorrebbero soltanto essere cancellati dalla memoria.
Alcuni ragazzi non hanno nessuna voglia di raccontare il proprio vissuto perché non vogliono essere percepiti in funzione di esso e non vogliono instaurare una relazione in cui debbano sentirsi parte debole e bisognosa di aiuto.
La guerra continua anche con il presente, nel cercare disperatamente di svincolarsi da un rapporto di dipendenza dai servizi e quindi di assistenzialismo.
Il desiderio più grande di questi ragazzi è essere percepiti e sentir parlare di sé stessi non come “utenti” di un servizio o come “in carico a”, ma come persone adulte che si sono meritate un posto nella comunità sociale non più come spettatori passivi, ma come attori protagonisti.
Il rischio è che il ragazzo possa rifiutare qualsiasi forma di aiuto e possa essere fagocitato dalle difficoltà che qualsiasi ragazzo della sua età può incontrare nel percorso di crescita, ma non importa correre rischi, la priorità è dimostrare di non aver più bisogno di supporto perché tanto loro sono cresciuti senza mamma e papà quindi possono farcela.
Molti ragazzi riflettono sulle motivazioni che li hanno spinti ad accettare di essere inseriti nel progetto:
“Ho accettato di entrare in questo progetto perché potrò essere aiutato pur vivendo in autonomia”
“È una cosa che aspettavo da tempo…vivere in modo indipendente ma avendo delle “ombre” che mi accompagnano nel percorso, così da non sentirmi sola”
“Ho accettato di entrare nel progetto senza la minima esitazione, mi sono aggrappata forte a questa cosa, mi sentivo come se fossi stata salvata, un po’ come le principesse nelle favole, che stanno per essere divorate da un drago e ad un certo punto arriva un principe a salvarla”
La vita dei ragazzi a questo punto inizia con un nuovo percorso, percorrendo strade mai intraprese e viene sottoposta a nuovi stimoli e nuove sfide che riguardano un futuro nuovo, tutto da definire e costruire.
Il lavoro con i ragazzi non segue quasi mai una linea retta e predefinita ed è in continua evoluzione e ristrutturazione.
L’atteggiamento che i ragazzi hanno nei confronti degli operatori ci dice molto sui loro rapporti pregressi con le figure genitoriali e diventa un punto di riflessione fondamentale per stabilire le modalità relazionali e comprendere eventuali difficoltà o chiusure.
In questo panorama l’educatore deve diventare un eccellente stratega perché deve permettere al ragazzo di avere un ruolo proattivo nel suo percorso di autonomia consentendogli di essere attore protagonista, ma al tempo stesso deve continuamente sbirciare da dietro le tende del sipario per poter, se serve, dare suggerimenti o tirare le tende qualora accada qualcosa di inaspettato che richiede una pausa.
Alcuni ragazzi scrivono:
Rispetto al futuro i termini utilizzati dai ragazzi fanno emergere sentimenti molto forti quali paura, incertezza, terrore, uno dei ragazzi afferma:
“Ho una paura fottuta del futuro”
e un altro: “Il futuro mi ha sempre spaventato più di ogni altra cosa”
“Noi diciottenni siamo tutti diversi, ma la paura e l’incertezza sono le stesse e ci accomunano”
La cosa più interessante come Tutor è osservare come i ragazzi si relazionano con me: alcuni di loro sono sfuggenti e quasi percepiscono la mia persona come ingombrante e da evitare, si mostrano evasivi alle mie domande e alle mie proposte, non con indolenza o in modo spiacevole, ma per il fatto che sono stanchi di seguire le indicazioni di un adulto che, anche se in modo per niente prescrittivo e autoritario, gli indica quello che “sarebbe bene fare”.
Con questi ragazzi l’approccio che ritengo sia auspicabile è quello di essere presenti, con proposte e indicazioni utili, in modo discreto e avvicinandomi a loro quasi in punta di piedi.
Questi ragazzi, benché non lo ammetteranno mai a loro stessi, hanno per certi versi maggiori bisogni proprio perché costruire un rapporto di fiducia con loro è estremamente difficile.
Il tempo e i tentativi mi hanno dato la misura ideale per capire come poterli “agganciare”.
Molti di questi ragazzi hanno alle spalle storie travagliate caratterizzate da continui abbandoni ed è quindi comprensibile che non riescano ad affidarsi facilmente e siano schivi nell’instaurare una relazione con una “nuova figura” che si occupa del “nuovo progetto”.
Con questi ragazzi l’approccio che cerco di tentare è quello che definisco “una mano sulla spalla”. Sono presente ma alle loro spalle, quindi non ho la presunzione di propormi come loro guida ma seguo i loro passi cercando di stabilire un contatto discreto e delicato che non li faccia sentire controllati, né tanto meno giudicati. Desidero che abbiano la percezione di poter sempre contare su una figura di supporto che li consiglia e li aiuta.
Alcuni ragazzi sono estremamente aperti a tutte le proposte, sono propositivi e cercano con il Tutor un contatto stretto e frequente. Alcuni di loro si rivolgono al Tutor anche quando devono scegliere quale sia la crema per il viso migliore…o quando non stanno bene e non ricordano quale sia il medicinale opportuno da assumere. Benché quest’ultimo modo di porsi sia estremamente appagante e lusinghiero per il Tutor occorre anche in tal caso compiere un’attenta riflessione.
Ritorna alla mente dell’educatore la questione che spesso si presenta nel proprio lavoro ossia il dilemma se mettere o meno dei paletti.
Personalmente credo sia più una questione di confini, che è utile delineare, anche se informalmente, non tanto perché il Tutor si sente invaso nella sua sfera personale, ma per il bene dei ragazzi, affinché possano comprendere che il loro “compagno adulto” è lì a loro disposizione per poterlo aiutare e supportare nel proprio percorso ma che alcune cose dovranno essere prese in mano da lui/lei in prima persona. Il Tutor non può agire e decidere per loro, mai! Un Tutor eccessivamente ingerente e invadente rischia di soffocare e falsare le autentiche capacità e inclinazioni dei ragazzi negandogli in tal modo la possibilità di diventare adulti e autonomi nelle scelte.
Non è semplice stabilire dei confini perché non possono essere fissi e immutabili. I confini mutano e si spostano continuamente tenendo presente che ci sono molti fattori che ne determinano la misura: il contesto sociale, le situazioni che sta affrontando in quel momento il ragazzo, il percorso che sta affrontando in quel momento anche il Tutor e molto altro.
Spesso mi trovo a interrogarmi sulla relazione con i ragazzi con i quali lavoro e rifletto sul fatto che per quanto io cerchi di prevenire e razionalizzare gli aspetti che dovrebbero caratterizzare tale relazione
(mantenere il giusto distacco ma non essere troppo distaccata, sostenerli, ma non sostituirmi a loro ecc) non c’è mai una “ricetta” valida per tutti. Una delle prime cose che cerco di fare è quella di disegnare dei confini immaginari, ovviamente non dichiarati, in base al ragazzo/a che ho di fronte e mi rendo sempre più conto che con ciascuno di loro traccio dei confini diversi, poiché altrettanto diverse sono le loro storie, le loro esperienze, la loro motivazione a stare nel progetto, le loro prospettive e ovviamente il loro carattere.
Tali confini, inoltre, una volta “disegnati” non rimangono mai fissi ma sono dinamici, si muovono continuamente, si allargano, si restringono, includono nuovi territori inesplorati.
Dunque di fatto mi trovo con alcuni di loro ad essere costantemente presente poiché questa è la loro necessità espressa, ma in questi casi cerco sempre di “sparire” in alcuni momenti per concedere loro la possibilità di prendere decisioni in autonomia; mentre con altri mi ritrovo a dover fare un passo indietro, ad avvicinarmi quasi in punta di piedi e a procedere dietro di loro, per fargli percepire la mia vicinanza e il mio sostegno.
Altre volte invece mi trovo a relazionarmi con ragazzi che dichiarano di non gradire la mia presenza ingombrante (perché gli ricorda quella dell’operatore della casa famiglia che gli diceva costantemente cosa poteva o non poteva fare) e che si mostrano insofferenti e prevenuti.
Alcuni di loro quando sono troppo pressante su alcuni aspetti mi dicono: “Scialla Marì, non ti agitare…”
Con questi ragazzi devo essere ancora più cauta e costruire un più solido rapporto iniziale di fiducia reciproca e fargli comprendere che, assolutamente li percepisco come persone capaci e adulte, ma che sono lì per sostenerli qualora ne avessero bisogno e rappresento un valido aiuto per mostrargli “cose” che ancora non conoscono.
Alcune volte le relazioni si instaurano in modo fluido e quasi spontaneo, altre volte richiedono invece più strategie o semplicemente più tempo, ma la costruzione della relazione è fondamentale per il buon andamento del progetto e dunque per il percorso dei ragazzi.
Dal punto di vista dell’operatore la risonanza emotiva di tutto ciò è molto potente.
La sfera affettiva dell’operatore entra inevitabilmente in gioco e l’analisi del proprio lavoro e del percorso dei singoli ragazzi non viene elaborata solo alla luce di elementi razionali, l’operatore si lascia guidare anche dal suo intuito e dal suo istinto. Ciò rende il suo lavoro ancora più difficile poiché l’educatore è custode di una enorme responsabilità nei confronti di questi ragazzi.
Lo è per diversi motivi: deve compiere un’attenta lettura dei bisogni dei ragazzi, soprattutto di quelli inespressi, deve valutare le strategie da mettere in atto per sostenere il percorso di ciascuno, deve, alla stessa stregua di un direttore d’orchestra, far sì che tutti i “componenti” del progetto siano ben accordati e armonizzati.
In tutto ciò deve prestare particolare attenzione affinché il suo retaggio culturale e sociale nonché le sue convinzioni non costituiscano un ostacolo, anche in termini di chiavi di lettura delle situazioni o pregiudizi, alla elaborazione delle strategie di intervento.
L’operatore deve sempre ricordarsi che non deve prevalere il suo obiettivo rispetto a quello del ragazzo altrimenti a quest’ultimo rimane solo la frustrazione di non essere stato in grado di raggiungerlo.
È come se dovessimo posizionare per i ragazzi un’asticella del salto in alto che misura il livello di autonomia raggiunto, dobbiamo tener presente che l’asticella non va posizionata esclusivamente in alto poiché esistono altezze intermedie.
Il vissuto dei ragazzi è così potente e riecheggia continuamente nelle loro vite che è in grado purtroppo di condizionare fortemente le loro scelte, il loro percorso di autonomia e dunque la loro capacità di salto in alto e questo non lo dobbiamo mai dimenticare.
Come non dobbiamo mai dimenticare che Il loro vissuto e le loro ferite continuano a fare male e sono ancora aperte, non possiamo guarirle ma possiamo aiutarli a curarle affinché poi possano prendersi cura di sé e sviluppare un senso di appartenenza che li possa aiutare anche nel processo di svincolo dal progetto il quale è possibile affrontare se si ha una base sicura, altrimenti si verificherà attraverso uno strappo.
Non possiamo ricucire il tessuto della loro vita e delle loro esperienze dolorose ma possiamo donare al ragazzo piccoli pezzi di appartenenza che lo aiutino a sviluppare quella fondamentale capacità di prendersi cura di sé.