Rappresentazione mentale

Verso la fine della marginalizzazione del disturbo mentale

La risoluzione dei problemi psicologici è ancora un tema che viene sistematicamente scaricato sui singoli individui, alimentando un circolo vizioso che privatizza questi disturbi e li tratta unicamente come squilibri individuali o problemi riconducibili a disfunzionalità familiari ed esperienze traumatiche pregresse curabili mediante farmaci o, nei casi migliori, la terapia. Dimenticando – forse volontariamente – il possibile impatto di cause sociali sistemiche sulla salute mentale dei singoli.  

La sanità mentale è ancora un problema politico

Il massiccio dilagare del disturbo mentale non prende vita in tempi strettamente recenti, se consideriamo che Mark Fisher nel 2009, durante la stesura di Realismo capitalista, definiva i disagi mentali dei “disordini comuni”, rendendo l’idea della portata ingente e di lunga data del fenomeno al quale tutt’oggi ci troviamo ad assistere. 

Ciò che certamente non è cambiato in questo decennio è il modo di percepire a livello politico e di dibattito pubblico il problema della salute mentale: la risoluzione dei problemi psicologici è ancora un tema che viene sistematicamente scaricato sui singoli individui, alimentando un circolo vizioso che privatizza questi disturbi e li tratta unicamente come squilibri individuali o problemi riconducibili a disfunzionalità familiari ed esperienze traumatiche pregresse curabili mediante farmaci o, nei casi migliori, la terapia. Dimenticando – forse volontariamente – il possibile impatto di cause sociali sistemiche sulla salute mentale dei singoli.  

Le ripercussioni dell’attuale situazione pandemica hanno evidenziato un considerevole aumento dei casi di disturbi mentali, mettendo ulteriormente in evidenza la portata delle cause sistemiche del problema, sicuramente gravose almeno quanto i possibili squilibri individuali. Si rende così ancora più urgente la necessità di ripoliticizzare la malattia mentale, in modo da risalire alle cause sociali e politiche che la scatenano, senza limitarsi a una segnalazione, ad esempio, del basso livello di serotonina come causa centrale che conduce alla depressione, che lascerebbe da parte il quadro complessivo delle motivazioni per cui questo livello sia effettivamente basso in un numero sempre crescente di individui. Naturalmente, ricondurre qualsiasi genere di disturbo mentale a cause economico-politiche sarebbe semplicistico, come lo è anche cercarne le radici unicamente nella chimica individuale del cervello malato. Tenere sulla bilancia entrambi i parametri e osservare alla giusta distanza il quadro completo può certamente fornire elementi più accurati rispetto a un’analisi univoca delle cause che conducono alla malattia. 

Il peso gravoso del capitalismo sulla psiche

Facendo qualche passo indietro al periodo pre-pandemico erano già varie le radici sistemiche del problema messe in evidenza da diversi studiosi. Oliver James, nel suo saggio Il capitalista egoista traccia un quadro completo di come siano proprio le politiche egoistiche messe in atto dal sistema neoliberale ad alimentare l’incremento dei disturbi mentali: “le tossine più nocive del capitalismo egoista, sono quelle che sistematicamente incoraggiano l’idea che la ricchezza materiale sia la chiave per la realizzazione personale, che i ricchi sono i vincenti e che per puntare in alto non serve altro che lavorare sodo, indifferentemente dal retroterra familiare, etnico o sociale di provenienza. Se poi non riesci, l’unico da biasimare sei tu”. Questo meccanismo conduce così alla costante convinzione che i soli ostacoli al raggiungimento di un potenziale produttivo ininterrottamente performante sono dentro noi stessi, e che quindi la battaglia da intraprendere per uscire da questo cortocircuito sia di fatto una guerra intestina nei confronti del sé. 

Proprio l’auto-sfruttamento è stato individuato da Byung-Chul Han in La società della stanchezza e Psicopolitica come una delle principali manifestazioni della patologia simbolica dell’età contemporanea, contraddistinta da una costante parvenza di libertà che spinge però a far coesistere vittima e carnefice, sfruttatore e sfruttato, all’interno di un unico individuo che ha come obiettivo sempre più ambizioso l’auto-ottimizzazione, che consentirebbe di guarire dalle debolezze funzionali e dai possibili blocchi mentali, tutto in nome della massima efficienza delle prestazioni. Questo perché non esiste più uno standard di lavoro sufficiente, tale da far sentire l’individuo al sicuro e da consentirgli quantomeno una pausa dalla costante produttività. Un’analisi accurata di questo processo e del suo catastrofico impatto sulla salute mentale degli individui è condotta da Davide Mazzocco in Cronofagia: come il capitalismo depreda il nostro tempo, in cui emerge chiaramente l’ipnotica volontarietà di questo asservimento al sistema che erode le ore di sonno, dilata i tempi del consumo e demonizza ogni secondo di inattività, creatività e autocoscienza, aggravando lo stato di salute della popolazione a livelli sempre più disastrosi. 

Anche in ambito accademico si sviluppano processi simili, che danno vita a una costante ansia da amplificazione del curriculum con l’obiettivo di tentare disperatamente di ovviare ai livelli sempre più kafkiani di incertezza cui si va incontro approcciandosi al mondo del lavoro. Come descritto da Fisher in Il nostro desiderio è senza nome, infatti: “I facchini del capitale accademico, sono costretti non soltanto a svolgere nei minimi dettagli il prospetto, ma a registrare ogni singolo gesto produttivo. Gli unici peccati sono peccati di omissione. In questo senso, il passaggio dalla valutazione saltuaria e moderata alla valutazione permanente e ubiqua non può non dar luogo a una sorta di stacanovismo del lavoro immateriale, che come il suo antenato stalinista supera ogni logica di strumentalità, e non può che generare un sottofondo permanente di ansia debilitante”. Il grande problema di questa patologia è quindi anche il fatto che metta al centro perlopiù un sentimento di individualismo competitivo, che rende la depressione una malattia contemporanea in grado di decomporre la collettività e stimolare forme sempre nuove di atomizzazione. 

Sul ruolo del folle nella società

Ma la disgregazione della collettività quando si tratta di malattia mentale non è un meccanismo certo nuovo, la marginalizzazione della figura del “folle” e la conseguente scissione tra blocchi antagonisti costituiti dalla dialettica individuo sano – individuo malato veniva già trattata dagli studi di Basaglia, che individuava in questa opposizione un tentativo di costruire dei veri e propri muri, degli argini di contenimento di ciò che era definita follia o deviazione dalla norma, per paura che questa potesse in qualche modo infondere nel resto della società. Tuttavia la definizione di ciò che può essere comunemente inquadrato come “norma” si trova nuovamente in mano alla classe dominante, che traccia i confini e stabilisce ciò che si trova al di fuori o al limite di questi. Il concetto di “normalità” non è un concetto universale, ma risulta bensì essere un insieme di valori relativi codificati dalla classe dominante, che li presenta come assoluti e immutabili. Fornire una definizione e delineare dei confini netti tra ragione e antiragione, norma e follia risulta pressoché impossibile da un punto di vista filosofico, come scrive Foucault in Nascita della Clinica: di qui il potere fondatore della follia. Fondazione innanzitutto della ragione, in quanto, almeno a partire da Descartes, la ragione è ciò che resta quando si esclude tutto quanto è anti-ragione; la ragione circoscrive il suo spazio proprio tramite l’esclusione della terra di nessuno della follia, di questa plaga silenziosa che la circonda da ogni parte”. 

L’arma principe di questa guerra alla deviazione è indubbiamente la scienza, grazie alla quale è possibile, secondo Basaglia, consultare chiare codificazioni ed etichette che consentono una netta separazione della deviazione rispetto alla norma, diagnosticando efficacemente la follia, e tutelando quindi il resto della società da questo spettro di abnormità che incombe. È infatti proprio grazie alla figura del medico, come scrive Foucault in Storia della follia nell’età classica, che si realizza quell’assenza totale di comunicazione tra l’uomo di ragione e il cosiddetto “uomo di follia”. Il medico acquisisce una sorta di delega verso l’orizzonte della deviazione, ponendosi come intermediario consente di rinunciare all’utilizzo di un linguaggio comune. La rottura di questo dialogo sarebbe da far risalire, secondo il filosofo, alla costituzione della follia come malattia mentale, alla fine del XVIII secolo, in cui si perde ogni possibilità di comunicazione e “si pone la separazione come già acquisita, quando sprofondano nell’oblio tutte quelle parole imperfette, senza sintassi fissa, un po’ balbettanti, nelle quali si operava lo scambio della follia e della ragione”. 

Si è sperato così, nel tempo, tentando di perdere ogni forma di comunicazione con la dimensione dell’anti-ragione, di poterla semplicemente cancellare. Dimenticando forse la reciprocità che lega ragione e anti-ragione, che non consente di scindere mai completamente razionalità e follia, nemmeno fornendole quel fragile statuto di accidente patologico da relegare ai margini della società. Foucault situa infatti la dimensione della follia all’interno di una componente anarchica che si trova al di fuori della storia, in quella “regione scomoda” in cui non è ancora avvenuta la scissione tra ragione e sragione, dove la follia emerge come gesto originario, come “grado zero della storia della follia”. Ma il potere biopolitico si sviluppa, secondo il filosofo, mediante una promessa di benessere collettivo che agisce definendo una norma da rispettare per poter godere di questo diritto al benessere e offrendo antidoti come quello medico, per poter rientrare nei parametri stabiliti. Chi non riesce a inserirsi in questi spazi subisce semplicemente l’esclusione, o, come accadeva in passato, la ben peggiore reclusione.

Forse è quindi necessario, oggi più che mai, smettere di relegare la follia al margine, inglobarla in un modo nuovo all’interno della società e del dibattito e pensare nuove politiche pubbliche per ovviare al problema del disturbo mentale.

Tra informazione mediatica e rappresentazione finzionale

Il circolo vizioso dei linguaggi nella società

I media, che nel tempo hanno acquisito un ruolo sempre più rilevante nella società e nell’interazione fra membri, sono di per sé dei processi tecnologici che permettono la comunicazione tra chi invia il messaggio e chi lo riceve. Il problema si pone nel momento in cui i mezzi di comunicazione diventano di massa – che per definizione si caratterizza per la sua staticità e per il comportamento uniforme degli individui che la compongono -, con una comunicazione che va “da uno a molti”, la maggior parte delle volte a favore dell’ “uno”. Ad esempio il comportamento aziendale che rivolge la propria attenzione a diversi target vulnerabili presenti nel mercato. Questo meccanismo riduce però la variabilità e il livello di corretta rappresentatività del contenuto, il che va a danno dei “molti” fruitori del prodotto, i quali rischiano di cadere senza troppa difficoltà nell’ “iper-realtà” – termine coniato dallo studioso Jean Baudrillard che sta a indicare la condizione per cui le rappresentazioni mediatiche del mondo si sostituiscono all’esperienza del mondo reale costituendo pensieri e atteggiamenti in modo artificiale, pur riflettendosi nel quotidiano e contribuendo a creare quella realtà empirica di cui le nostre idee hanno bisogno per fortificarsi. Il sociologo Kai Erikson afferma che “la ‘devianza’ non è una caratteristica ‘innata’ di un qualsiasi tipo di comportamento; è una proprietà ‘assegnata’ a un comportamento dalle persone che vengono a contatto diretto o indiretto con esso”, perché lo considerano tanto pericoloso o imbarazzante da richiedere particolari sanzioni. Il comportamento è deviante solo se viene etichettato come tale e la società quindi è la prima responsabile delle varie discriminazioni e rappresentazioni fuorvianti che produce. Ognuno di noi però ne è parte integrante e ha il potere di partecipare al suo cambiamento, il cui punto di partenza è da rintracciare necessariamente nel racconto e nella parola, mezzo d’eccezione con cui gli uomini, sin dall’età arcaica, costruiscono la propria cultura.

Ri-narrare la sofferenza psichica

Come per altri temi ritenuti tradizionalmente scomodi se non addirittura tabù (sesso, droga, identità di genere per citarne alcuni) il disagio mentale è stato investito di stigma per mancanza di conoscenza prima, per paura e vergogna poi. Dalla definizione dell’enciclopedia Treccani, stigma è in psicologia sociale il marchio, l’attribuzione di qualità negative a una persona o ad un gruppo di persone e alla loro condizione; è, dunque, la discriminazione basata sul pregiudizio che porta l’individuo all’isolamento. La stessa informazione mediatica, dai giornali alle televisioni, dalle radio ai canali istituzionali, ha trattato la sofferenza psicologica alimentandone lo stigma sociale e alternando rappresentazioni sensazionalistiche a romanticizzazioni, mescolando stereotipi e linguaggi discriminanti, in una parola: disinformando. Si è andato costruendo nel tempo un immaginario collettivo della sofferenza psichica come un qualcosa di immutabile e standardizzato, nella maggioranza dei casi incurabile: un immaginario che non tiene conto della vastità e della specificità delle patologie esistenti, tutte ugualmente meritevoli di cura. Secondo la giornalista e psicologa Fuani Marino – la quale, nel suo ultimo libro edito da Einaudi Svegliami a mezzanotte racconta del suo tentato suicidio scoperchiando pian piano la diagnosi della sua sofferenza – esiste attualmente un grande bisogno di letteratura che racconti i disturbi mentali «dal di dentro, attraverso memoir e opere autobiografiche di chi ne è portatore o le vive da vicino». Questo perché, per imparare a rapportarsi con tali sofferenze bisogna iniziare a raccontarle attraverso narrazioni che diano loro giustizia e dignità.

Mente, media e linguaggio tra ieri e oggi

Un osservatorio particolare in merito alla narrazione della salute mentale è stato istituito sul linguaggio di tv e giornali. Ciò che emerge è che le storie di sofferenze psichiche sono riportate frequentemente in termini di notiziabilità, dunque di impatto sul pubblico, con una conseguente scarsa accuratezza tematica e linguistica a livello di trattazione. “Psicoradio” testata radiofonica bolognese con una redazione formata da persone in cura presso il Dipartimento di Salute Mentale della città, ha condotto nel 2008 una ricerca su otto quotidiani nazionali selezionando 234 titoli, come ad esempio: “Cesano Boscone: Berlusconi aiuterà i malati di mente”, “Ceccano, terreno dell’ex manicomio diventa orto aperto ai malati” e così via. Il risultato ha evidenziato la tendenza dei giornalisti ad utilizzare termini come “paziente psichiatrico” al 10%, “malato mentale/psichico” al 19% e disabile mentale/psichico al 15%. Il vademecum pubblicato nel 2012 dal Dipartimento di Salute Mentale di Modena e da alcune associazioni cittadine, intitolato “Le parole della Salute mentale”,  ha invece mostrato come sugli articoli di carta stampata i termini con cui si fa riferimento ai disturbi mentali siano per lo più in negativo: “problemi psichici, disagio mentale, malattia mentale” nel 34% dei riferimenti, “follia, raptus, nevrosi” nel 33%, “pazzo, impazzito” nel 30%, “folle, matto” nel 24%. Compito dell’informazione dunque – dai mass media ai canali istituzionali – è quello di invertire le disinformazioni e diffondere un linguaggio che scinda la persona dalla sua sofferenza, la quale non è che un aspetto della persona, ma non la persona stessa. Negli ultimi anni, specialmente grazie a un ritorno d’attenzione sull’importanza della parola e ad un incremento delle narrazioni sulla salute mentale in vari ambiti sociali, artistici, scientifici e culturali, assistiamo ad un miglioramento. Anche l’emergenza pandemica ha operato da normalizzatrice della sofferenza psichica, diffondendosi quest’ultima a macchia d’olio su larga parte della popolazione tanto in forme lievi quanto in forme patologiche e facendo sentire le persone parte di un tutto comprensibile. Non solo necessario ma anche urgente, dunque, raccontare e ri-narrare la salute della mente, ripartendo dall’inclusività e dalla naturalezza di un linguaggio (quello psicologico) a cui solo fino a poco tempo fa si era decisamente poco avvezzi.

Finzione narrativa: uno strumento potente da adoperare con cura

La tematica dei disturbi mentali ha trovato la propria rappresentazione anche nell’ambito finzionale della cinematografia e della scrittura. Diviene necessario, per una lettura critica delle produzioni culturali circostanti, individuare quali sono i sentieri più battuti nelle rappresentazioni dei disturbi mentali, perché indubbia è la responsabilità di chi tenta una narrazione della questione.

Il primo e più noto processo descrittivo da sottoporre a critica è quello della stigmatizzazione, la cui forma più ricorrente è forse quella che presenta il disturbo mentale come quasi univocamente e insitamente connesso alla violenza e al crimine, raffigurando personaggi che sembrano inesorabilmente destinati a compiere atti “malvagi”, in una lunga storia che emerge in filigrana, attraversando i decenni, tra grandi cult e pellicole mainstream. Seppur indubbia è l’importanza di analizzare nel dettaglio caso per caso, poiché molto dipende dal contesto e dalla trama che ruota attorno all’evento violento, esso rimane comunque il fulcro e l’apice di queste rappresentazioni che hanno talvolta largamente influenzato le percezioni della collettività.

Si presenta inoltre una serie di approcci narrativi più sottili, ma non per questo meno dannosi ai fini di una rappresentazione non mistificante: in primis la minimizzazione e banalizzazione delle problematiche e delle difficoltà a cui deve far fronte chi vive il disturbo mentale; in secundis i casi di errata narrazione a livello terminologico e scientifico per i quali si tende a creare calderoni di sintomi e patologie tutte afferenti allo stesso individuo con effetti decisamente confusionari. Un esempio lampante di quest’ultima casistica che ha suscitato dibattiti piuttosto accesi è Io, me & Irene (2000), film nel quale il protagonista Charlie, pur presentato come affetto da una forma avanzata di schizofrenia, manifesta sintomi legati al disturbo di personalità multipla (è infatti dissociato tra un ego gentile e pacato e un alter ego violento e aggressivo); è dunque evidente la vena approssimativa con cui si tratta la questione, non differenziando sintomi diversi per patologie diverse. A un processo non dissimile appartiene anche la banalizzazione di alcune patologie, ridotte spesso ad una serie di immagini comunemente note e divenute quasi cliché riprodotti in serie, senza che abbia luogo alcuna rappresentazione di cosa sta oltre la superficie; questo è quanto ad esempio avviene in Viaggio verso la libertà (2014) in cui il disturbo ossessivo-compulsivo e l’anoressia, pur essendo disturbi complessi ed elementi centrali della trama, diventano poi spunti per episodi che strappano un sorriso e momenti drammatici senza spessore.

 

Il memoir come punto di partenza

Al polo opposto rispetto alle rappresentazioni fin qui descritte, la “buona” narrazione si caratterizza non solo per l’assenza di componenti stigmatizzanti e minimizzanti, ma soprattutto per l’affacciarsi di due elementi strettamente interconnessi: complessità e umanità. Per cercare di rendere al meglio l’essenza si prenda come esempio Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli (2020), il cui racconto, ispirato a un’esperienza autobiografica, si incentra su una settimana trascorsa dal protagonista all’interno di un ospedale psichiatrico a seguito di un episodio di rabbia violenta. Quello che l’autore offre è il ritratto di un’umanità sofferente e appunto complessa: ogni paziente che incontra e con il quale stringe un legame è presentato mediante uno sguardo aperto, che di lui coglie non solo il disturbo da cui è affetto (bipolarismo, depressione, catatonia, psicosi) e le sue conseguenze, ma anche infiniti altri aspetti che si rifanno a qualità, desideri e pensieri dell’Altro che non è ridotto alla sua patologia. Non c’è stereotipo o stigma perché non esiste giudizio nello sguardo di chi narra, nessuna mistificazione o riduzione: tutto è raccontato semplicemente per quello che è, in un linguaggio semplice e diretto che conduce il lettore comune a interrogarsi sull’essenza e sul valore dei concetti di sanità e malattia. Forza intrinseca a tutta la narrazione è certamente il fatto che chi scrive ha come riferimento un’esperienza personale e mediante questa, con grande coraggio, permette a chi legge di avvicinarsi ad un nucleo di verità che raramente una fiction può arrivare a rappresentare. Emerge dunque in modo chiaro l’importanza dell’auto-narrazione, di chi raccontando di sé offre un punto di partenza, una sorta di chiave d’accesso a questo mondo; è infatti attraverso il vissuto, proprio o altrui, che si può arrivare a cogliere la complessità e la molteplicità dell’infinito mondo spesso nascosto dietro l’espressione di “disturbo mentale”. 

Emerge chiaramente l’urgenza di riflettere in modo critico sui processi, tanto intricati quanto fondamentali, che attraversano e plasmano non solo il vivere collettivo e la realtà circostante ma anche l’esperienza del singolo individuo in relazione al tema della sanità mentale.

Matti da slegare

La situazione italiana riguardo la salute mentale

In Italia, la malattia mentale è stata a lungo considerata un pericolo da cui la società doveva difendersi: chi ne soffriva veniva rinchiuso nei manicomi, strutture che si autodefinivano terapeutiche ma che di fatto erano carcerarie.

A partire dagli anni Sessanta ha preso forma un movimento di critica al manicomio guidato da Franco Basaglia, noto come psichiatria anti-istituzionale: gli individui venivano internati non perché costituissero un pericolo reale, ma in quanto percepiti come un fattore di disturbo a livello politico, economico e sociale. Gli psichiatri anti-istituzionali hanno lottato per la propria reintegrazione nella società, ottenendo nel 1978 l’approvazione della legge n. 180 confluita poi nella n. 833. Essa ha decretato la chiusura dei manicomi, stabilendo che la cura psichiatrica deve essere una libera scelta dell’individuo, limitando e regolamentando il ricorso al trattamento sanitario obbligatorio e istituendo il Servizio sanitario nazionale (SSN) con lo scopo di garantire a tutti i cittadini un accesso equo alle prestazioni sanitarie in conformità con l’articolo 32 della Costituzione italiana.    

La svolta parziale

Rimangono tuttavia alcune forti criticità: in primis, gli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG). Rimasti in funzione fino all’approvazione e all’attuazione della legge n. 81 del 2014, che ne ha stabilito la chiusura in seguito a ispezioni che ne hanno rivelato lo stato di degrado.

Gli OPG erano strutture in cui venivano reclusi gli imputati giudicati socialmente pericolosi ma non sottoponibili a un processo in quanto incapaci di intendere e di volere. Per loro veniva disposta una misura di sicurezza detentiva che, non avendo una durata massima, poteva essere prorogata fino a trasformarsi in un ergastolo bianco. 

Inoltre, un’analisi pubblicata nel 2018 dalla Rete sostenibilità e salute (RSS) mostra che attualmente la distribuzione delle risorse disponibili è sbilanciata verso la componente ospedaliera e residenziale degli interventi, a cui fa da contraltare un sottofinanziamento di quella domiciliare e territoriale. Emerge dunque un’attuazione solo parziale della riforma basagliana, il cui obiettivo era reinserire le persone che soffrono di disturbi mentali nella società, disponendo sul territorio una rete di centri cui rivolgersi per assistenza e cura senza dover essere isolati in strutture a parte.

La medesima ricerca evidenzia che, a causa di una politica pubblica e sanitaria caratterizzata da continui tagli alle spese per la salute mentale, l’accesso ai servizi è garantito solo a coloro la cui condizione è ritenuta maggiormente grave. Di conseguenza tutti gli altri, in particolare coloro le cui risorse economiche sono limitate, sono esposti al rischio di peggioramento e cronicizzazione.

Dunque, per fare in modo che la salute mentale non rimanga un privilegio per pochi ma divenga un diritto per tutti è necessario un investimento maggiore da parte dello Stato. Attualmente ai servizi per la salute mentale è destinato meno del 3.5% della spesa totale del SSN, nonostante sia prevista una spesa pari al 5%. Le conseguenze di queste scelte sono evidenti: uno studio condotto da ISS nei primi anni 2000 denuncia un sottoutilizzo dei servizi per la salute mentale correlato a una scarsa qualità degli stessi. 

 

Quanto pesa la disuguaglianza?

Dall’analisi dei dati del Sistema Informativo per la Salute Mentale (SISM) svolta nel 2018 risulta che gli utenti psichiatrici assistiti dai servizi specialistici nel corso dell’anno ammontano a 837.027 unità. I disturbi mentali di tipo ansioso-depressivo sono i più diffusi;  le percentuali variano in base a età, sesso e condizioni fisiche, ma oltre ai fattori genetici anche le differenze sociali, economiche e ambientali incidono sull’insorgenza delle patologie.

È stato riconosciuto dall’Oms che ci sono forti evidenze “sul fatto che i disturbi mentali comuni siano distribuiti nella società secondo il gradiente di benessere economico, e che i poveri e i meno agiati ne soffrano in misura maggiore”. Una più alta disuguaglianza sociale corrisponde a un aumento di esposizione al rischio. La prevalenza di depressione e ansia cronica grave aumenta tra i soggetti che hanno ricevuto un livello di istruzione inferiore o presentano una condizione lavorativa più svantaggiosa. Quindi le stesse persone maggiormente esposte al rischio di sviluppare dei disturbi mentali sono anche quelle che hanno meno possibilità di accedere ai servizi di cura. D’altra parte però l’art. 32 della Costituzione italiana definisce espressamente la salute come un diritto fondamentale dell’individuo, che deve, o dovrebbe, essere garantito a tutti. Le persone con un problema psichiatrico dovrebbero dunque poter accedere, senza correre il rischio di impoverirsi o indebitarsi, ai servizi sanitari e sociali essenziali che consentano loro di ottenere la recovery e raggiungere la migliore condizione di salute possibile indipendentemente da età, sesso, situazione socio-economica, etnia di appartenenza e orientamento sessuale.

In Italia le prestazioni psichiatriche vengono gestite dal Dipartimento di salute mentale (DSM): l’insieme di strutture e di servizi che hanno il compito di farsi carico della domanda legata alla cura, all’assistenza e alla tutela della salute mentale nell’ambito del territorio afferente all’Azienda USL (o ASL). Le prestazioni erogate nel 2018 dai servizi psichiatrici sono state 11.039.492, divise tra assistenza ambulatoriale, domiciliare, semiresidenziale e residenziale. Questi servizi non sono però accessibili a tutta la popolazione dal momento in cui è possibile usufruire di cure adeguate solo tramite il pagamento di ingenti somme di denaro. 

Contrariamente al principio indicato da diversi studi, che affermano quanto l’immediatezza delle cure sia un fattore di estrema importanza per l’efficacia della guarigione e per limitare i danni permanenti, in Italia prestazioni gratuite sono fornite esclusivamente ai casi di maggiore gravità che necessitano di ricoveri o day hospital e sempre solo a seguito di una visita privata o un ricorso al pronto soccorso. 

Oltre a usufruire dei servizi offerti dal DSM, i soggetti che soffrono di disturbi mentali possono decidere di intraprendere un percorso di psicoterapia privatamente. Anche il costo delle cure psicologiche ricade quasi sempre sul singolo cittadino. Per beneficiare di prestazioni che non richiedono un pagamento è necessario rivolgersi ai numeri verdi o agli sportelli di ascolto presenti sul territorio. Questi offrono però consulenze con professionisti del settore soltanto momentanee o di breve durata. Esistono esempi di sportelli di ascolto psicologico gratuiti in molte scuole italiane che garantiscono un appoggio fondamentale per tutti gli studenti che necessitano di un consulto o di un indirizzamento verso un percorso di cura più approfondito. L’efficacia del servizio varia però in base all’istituto e soprattutto alle necessità dello studente che, se richiede di cure specifiche o prolungate, non potrà lì trovare un servizio adeguato. 

 

In Italia quindi si presenta un problema strutturale: nell’ambito delle prestazioni psichiatriche e psicologiche sono presenti delle disuguaglianze socio-economiche che causano un accessibilità ridotta e disuguale ai servizi di cure. La situazione si aggrava poi nei periodi di crisi e disagio sociale nei quali la domanda aumenta drasticamente, mentre la disponibilità diminuisce. 

Il vuoto di servizi durante la pandemia

Situazione critica che si è verificata proprio durante la pandemia che stiamo vivendo, possibile fonte di trauma non solo nell’esperienza diretta della malattia, ma, come spiega l’Istituto superiore di sanità (ISS), anche nel distanziamento e nell’isolamento che hanno un impatto sulla libertà e i bisogni fondamentali delle persone, con gravi ripercussioni sul loro equilibrio psico-emotivo. Come spiega Damiano Rizzi, psicologo clinico della Fondazione Soleterre, la solitudine, “dolore mentale di sentirsi soli”, è una condizione psicologica da non sottovalutare, soprattutto tra gli adolescenti.

È proprio in questo momento di maggior richiesta e necessità di sostegno che emerge la fragilità dei servizi disponibili. Uno studio della Società italiana di psichiatria (SIP) mostra come sul territorio italiano abbiano subito una significativa riduzione tutte le attività, come i consulti psichiatrici ospedalieri (-30%), le psicoterapie individuali (-60%), ma soprattutto le psicoterapie di gruppo e gli interventi sociali (-90/95%). Queste interruzioni esasperano un problema strutturale rendendo ancora più diseguale e problematico l’accesso a un sostegno di qualità.

Nel tentativo di tamponare questo vuoto di servizi, l’OMS segnala come il 70% dei 130 paesi esaminati in un primo studio sui nessi tra Covid-19 e salute mentale siano ricorsi a strumenti tecnologici che permettono di proseguire e avviare percorsi di sostegno a distanza. Si asseconda dunque un dibattito già in corso da tempo sull’importanza dell’integrazione della sanità digitale (e-Health, teleterapia e telemedicina) nel mondo della salute mentale (e-MentalHealth), anche per la prevenzione. Applicazioni per smartphone, visite online, intelligenza artificiale e gaming, secondo il Transnational Policy for e-Mental Health, report del progetto europeo “eMen”, le tecnologie digitali “possono ampliare la portata dei servizi di salute mentale, fornire proposte accessibili, economicamente sostenibili e di alta qualità”. Sempre tenendo conto di alcune precisazioni.

L’OMS registra infatti come anche in questo caso vi siano notevoli disparità nell’adozione di tali interventi: sempre in un’ottica di privilegio, più dell’80% dei paesi ad alto reddito hanno potuto usufruirne, a fronte del 50% di quelli a basso reddito, con differenze interne ai singoli Stati dovute a disuguaglianze socio-economiche.

Inoltre, gli strumenti a distanza non si sono rivelati adeguati a ogni necessità: nell’esperienza della responsabile del Servizio educativo domiciliare (SED) della cooperativa Train de Vie di Padova, la preoccupazione e il rischio sono stati proprio quelli di perdere i contatti con ragazzi già in particolari situazioni di isolamento e fragilità. Alcuni ragazzi hanno rifiutato le videochiamate e in generale mantenere contatti regolari è stato più difficoltoso. Fortunatamente in quest’ultimo periodo il SED ha ripreso in presenza, ma i lavori di gruppo rimangono bloccati, rappresentando un’importante perdita per un approccio di cura fondato sulla relazione, la pratica della condivisione e dello stare insieme.

La cura della mente nel mondo giovanile

Intervista all’associazione Alice Onlus riguardo a prevenzione, formazione e intervento clinico

La pandemia da Covid-19 ha profondamente mutato l’assetto delle nostre vite e i modi relazionali della società. In molti casi, essa ha acuito sofferenze preesistenti e ne ha generate di nuove, rendendo spesso necessario il supporto esterno di professionisti della salute mentale. E’ con la pandemia, insomma, che la sofferenza è entrata nelle case interiori di ognuno, rendendoci in qualche modo depositari di un sentimento comune, comprensibile, condivisibile. Chiedere aiuto e riconoscersi vulnerabili è stata, dunque, la conquista acquisita nell’arco di questo tempo fermo, da una fascia  decisamente eterogenea di persone. Concentrandoci in particolare sulla popolazione giovanile e gli effetti pandemici ricaduti su di essa, Scomodo ha deciso di ri-costruire, assieme alla dottoressa Laura Brambilla e al dottor Paolo Grampa, psicoterapeuti dell’associazione milanese no-profit Alice Onlus, questo complesso anno da una prospettiva ideologicamente comune: la cura. 

Ad un anno dalla chiusura dell’Italia, l’impatto della pandemia pesa sulle spalle di tutta quanta la popolazione. Ma ci sono delle categorie più colpite delle altre?

Dott.ssa Brambilla
Non credo sia possibile individuare una categoria che stia soffrendo più di altre. Ciò che è certo è che ciascuna fascia d’età ne risente in modo peculiare: la sofferenza che in questo momento ci portano i giovani è diversa dalla sofferenza che ci portano gli adulti o i bambini. Io  lavoro principalmente con i ragazzi e le ragazze e le domande che mi arrivano oggi da loro sono diverse rispetto a quelle che mi arrivavano un anno fa in termini di impatto della sofferenza sulla vita quotidiana. Quindi sicuramente su questa fascia d’età la pandemia ha avuto un effetto importante, proprio perché è andata a colpire un momento di slancio.

Negli ultimi anni i giovani si sono tendenzialmente aperti alla psicologia e alla possibilità di chiedere aiuto. Si parla sempre più di cura e salute mentale nonostante l’aiutarsi non sia un processo scontato: entrano in gioco la vergogna, lo stigma, le difficoltà economiche, la paura. E’ cambiato qualcosa durante l’anno di emergenza Covid-19? C’è stato un incremento delle richieste d’aiuto e un bisogno maggiore di entrare in terapia?

Dott.Grampa
Sì, c’è stato un incremento in generale un po’ per tutti. Noi, così come molti dei nostri colleghi, in studio e negli altri contesti in cui operiamo, abbiamo visto saturarsi le agende di pazienti in modo mai visto. Mi viene da dire che la pandemia sia stata una spinta, un po’ la goccia che ha fatto traboccare il vaso per arrivare dal terapeuta. E parallelamente la terapia è diventata anche qualcosa di più dicibile: in studio si parla del Covid, delle deprivazioni, della mancanza sociale, ma si parla anche di tanto altro, si ripercorre la propria esistenza e si scopre che già da prima di questo momento c’era qualcosa che imprimeva dolore.  

Dott.ssa Brambilla
Sì, la pandemia da una parte è sicuramente causa di malessere, ma  dall’altra è un qualcosa che permettere di accedere ad un malessere preesistente. Mi viene in mente quanto successe nel 2012, quando ci fu il terremoto in Emilia Romagna ed io e Paolo andammo come volontari a lavorare principalmente con i bambini. Ciò che accadeva è che, proprio perché vi era stato il terremoto, era stato levato un velo dalle cose che non funzionavano, facendole diventare più evidenti. Con il Covid sta accadendo un po’ la stessa cosa: è chiaro a tutti che si sta male, ma è più facile accedere a determinati servizi perché la pandemia stessa lo legittima: essa ha acuito una parte di malessere che c’era già e ha reso più facile la strada per aiutarsi. 

Molte scuole secondarie di secondo grado sono dotate di uno sportello psicologico gratuito messo a disposizione degli studenti e delle studentesse, ma spesso gli adolescenti sono scettici sulla scelta di una frequentazione perché la ritengono non necessaria. Come può la scuola sensibilizzare e incentivare gli studenti e le studentesse all’utilizzo di tali sportelli, qualora ne sentissero il bisogno?

Dott.ssa Brambilla
Io ho lavorato per moltissimi anni come psicologa scolastica, anche durante la pandemia, e credo ci sia un elemento fondamentale su cui lavorare: quello di rendere lo psicologo parte dell’organico. Delle diverse scuole in cui ho operato, mi sento di riportare un paio di esperienze virtuose. In una, ad esempio, all’incontro di inizio anno con studenti e famiglie, accanto ai vari docenti c’era anche lo psicologo. La scuola lo presentava come una persona del team: normalizzarne la figura già dalla presentazione lo rendeva molto più fruibile. Un altro aspetto riguarda la possibilità per lo psicologo di uscire dal suo studio, dalla sua auletta (o sgabuzzino!) facendosi vedere per i corridoi o mettendo il naso nelle classi: è importante non solo per presentare lo sportello, ma anche per poter essere riconosciuto, considerato come punto di riferimento. Perché nel momento in cui è chiaro a tutti che lo psicologo è una risorsa che a scuola c’è, diventa anche più facile accedervi. Spesso, inoltre, specialmente quando gli sportelli non sono ben organizzati, non è semplice per gli studenti alzarsi in classe davanti a tutti e andare a fare terapia; lo psicologo e la scuola devono far in modo di tutelare la loro privacy. Ad esempio, una strategia che io ho trovato molto utile è  stata quella di lasciare agli studenti un foglio precompilato: ognuno selezionava su di esso l’orario del colloquio, consegnando ad inizio ora il tagliandino all’insegnante e poi uscendo autonomamente dall’aula senza il bisogno di specificare la destinazione o, peggio ancora, senza che i collaboratori venissero a chiamarli. Se non voglio non devo dire niente e questo sicuramente mi alleggerisce. Poi  però è chiaro che un’altra parte importante è quella dell’abbattimento dello stigma: semplicemente, non c’è niente di male ad andare dallo psicologo.

La psicoterapia non è alla portata di tutti e le disparità economiche spesso dividono chi può prendersi cura di sé da chi non può. Eppure esistono sempre di più centri specializzati che curano le problematiche psicologiche a prezzi calmierati. Quanto sono conosciute dalla popolazione giovanile tali strutture e quanto, ultimamente, sono state da loro frequentate?

Dott.ssa Brambilla
E’ una domanda molto difficile; per il mio osservatorio, non sono molto visibili le associazioni o le realtà che garantiscono la psicoterapia con prezzi calmierati. Quello che però ho visto proliferare nel corso di questo anno di pandemia sono gli sportelli gratuiti forniti online. Iniziativa virtuosa, dove però vedo un rischio grosso: il fatto che possa essere un po’ svenduto il valore della psicoterapia. Il costo calmierato va bene, ma il fatto che un servizio sia gratuito spesso lo rende maltrattabile. Intendo dire che anche per l’utente risulta meno efficace per una sorta di strano effetto placebo al contrario, che è un po’ quello che accade nel rivolgersi ad un medico del sistema sanitario nazionale o ad uno del privato. Come dire, se una cosa è gratis non è di grosso valore. Detto ciò sono d’accordo nel dire che la psicoterapia ha un costo spesso eccessivo, anche a fronte della frequenza con cui si va in terapia, quasi settimanale e quasi sempre per lungo tempo. Per questo credo che bisognerebbe intervenire piuttosto a livello istituzionale rispetto all’investimento pubblico sulla salute psicologica che non è considerata un diritto come la salute fisica.

Dott. Grampa
Sono d’accordo nel dire che che debba esserci una presa di posizione dall’alto riguardo la necessità di supporti psicologici più accessibili a tutti. Esistono servizi pubblici come i consultori, gli sportelli, gli ambulatori di psichiatria territoriali, ma è anche vero che in questo periodo di pandemia sono stati tra i primissimi servizi a saltare perché non si riceveva più; di conseguenza è andato tutto sul privato che non è assolutamente per tutti.

Secondo la vostra esperienza in questo periodo, quali sono le principali problematiche riscontrate dai ragazzi? E i principali disturbi insorti?

Dott.ssa Brambilla

La fatica maggiore per i ragazzi, indubbiamente, è la dispersione scolastica: c’è stato un profondo calo della motivazione, soprattutto nei ragazzi del biennio delle scuole superiori che si trovano in un momento molto delicato, dove capiscono se la scuola che stanno facendo è quella più adatta a loro. È chiaro che capirlo in didattica a distanza diventa più complicato. Anche per quello che riguarda i giovani, quindi ragazzi e ragazze di venti e trent’anni, la perdita della motivazione è comunque presente, sia a livello universitario che lavorativo. 

Dott. Grampa
Nel passaggio canonico dalle superiori all’università, ci si ritrova in qualcosa di nuovo, dove vedo molta sofferenza. Ci si immaginava di fare uno slancio che invece è avvenuto in maniera inedita e non soddisfacente: tanti giovani quindi sono congelati in questa terra di mezzo dove c’è molta fatica. I disturbi d’ansia, assieme alla depressione, sono oggi quelli che vanno per la maggiore. Ad essi si  aggiunge un forte calo della motivazione e il cosiddetto “effetto vacanza”, una condizione per la quale vengono alterati i cicli temporali, si dorme e ci si sveglia in altri orari, non si fa più alcuna attività fisica e si mangia più tardi del solito. E questo è all’ordine del giorno in tutte le età. 

Quali possono essere le conseguenze a lungo termine della pandemia sullo stile relazionale dei giovani? E’ possibile che la pandemia abitui ad un nuovo modo relazionale (sempre meno fisico e sempre più online) rispetto a quanto sta già avvenendo?

Dott. Grampa
Forse l’online e la modalità dal remoto diventerà sempre più usata in contesti lavorativi e non di relazioni affettive. La relazione affettiva, per quanto possa essere valida attraverso uno schermo, necessariamente ha bisogno della sua parte fisica, del contatto, di vedersi e di farsi una risata da vicini. Quello dovrà tornare, è qualcosa di non sostituibile. Tant’è che quelle persone che demandano alle relazioni mediate interamente dall’online, fanno parte di gruppo che è quello degli hikikomori. È una patologia. Non è pensabile utilizzare solo il metodo dell’online perché abbiamo scoperto che può funzionare.

E’ stato particolarmente acceso il dibattito sulla condotta giovanile durante il periodo pandemico. Cosa ne pensate delle critiche rivolte da parte di adulti e stampa sulla loro condotta? Crede che si tratti di casi isolati oppure che, in generale, avremmo potuto fare “di meglio”?

Dott.ssa Brambilla
Queste accuse aprono a due questioni: da una parte quella dell’educazione e della cultura, dall’altra quella delle regole. La prima questione evidenzia che non c’è adeguato  investimento né sull’istruzione né sull’educazione civica e critica: in molti non hanno gli strumenti per leggere la realtà. Il tasso di analfabetismo funzionale in Italia è altissimo: persone che sanno leggere ma che non sanno comprendere e capire cosa può essere ritenuto giusto o sbagliato fare. Il secondo aspetto riguarda il rispettare le regole solo se si è a conoscenza della punizione. Questo parte dall’educazione in famiglia: i giovani di oggi sono persone cresciute negli anni novanta e inizio duemila dove era prassi comune prendere a sberle il bambino se non faceva ciò che gli si diceva. Quella lì è l’educazione della paura: “fai ciò che dico io, sennò le prendi”. È chiaro che chi è cresciuto così, difficilmente rispetterà le regole per il bene comune. Accaniamoci poco contro i giovani poiché la maggior parte  della responsabilità è di chi li ha educati in una certa maniera.

Infine, cos’è che la vostra esperienza clinica vi sta rivelando umanamente, in questo periodo?

Dott. Grampa
L’altro è una profonda ricchezza, questo periodo storico me lo conferma. La preziosità  dell’incontro con l’altro è la cosa più importante che ho nella vita ed è per questo che ho scelto di fare il mestiere dello psicologo: per incontrare l’altro ed entrare con lui in una forma di intimità molto alta. 

Dott.ssa Brambilla
Anche l’aspetto del sentirsi è molto importante. Personalmente funziono meglio quando mi sento, al di là di ciò che succede di fuori, perché la bussola è interna. Non bisogna mai perdere questa bussola interiore e parallelamente si deve cercare di diventare sempre più fini ascoltatori: è nel momento in cui riesco a sintonizzarmi con ciò che sento, questo mi rende libera, questo genera il cambiamento.

Con i contributi di

Arianna Preite
Arianna Preite

Redattrice

Gina Maria Marano
Gina Maria Marano

Redattrice

Gaia Del Bosco
Gaia Del Bosco

Redattrice

Margherita Vita
Margherita Vita

Redattrice

Valeria Ortolani
Valeria Ortolani

Redattrice

Dania Prina
Dania Prina

Redattrice

Giulia Tore
Giulia Tore

Redattrice

Francesca Asia Cinone
Francesca Asia Cinone

Redattrice

Hanno collaborato

Anna Leonilde Bucarelli
Anna Leonilde Bucarelli
Benedetta Arcangioli
Benedetta Arcangioli
Luca Giordani
Luca Giordani
 Emma Sangalli Moretti
Emma Sangalli Moretti
Gina Maria Marano
Gina Maria Marano