Dopo oltre quarant’anni di proporzionale, nel 1993 viene approvato in Italia il primo sistema elettorale misto con la legge Mattarella, ed è lì che la parata del cambio delle leggi elettorali ha inizio: “Mattarellum”, ”Porcellum”, ”Italicum”, ”Rosatellum” e “Rosatellum bis”. Cinque sistemi diversi in soli trent’anni. Ma a quanto pare tutto ciò non è bastato, e con il 2020 arriva l’ennesimo cambio di rotta.
Soprannominata “Germanicum” dai media, la nuova legge elettorale è stata depositata presso la commissione Affari Costituzionali della camera il 9 gennaio dai relatori Emanuele Fiano (PD) e Francesco Forciniti (M5S) e presentata alla camera la scorsa settimana dal Presidente della commissione degli Affari Esteri Giuseppe Brescia (M5S). Sostenuta dalla quasi totalità della maggioranza di governo (PD, M5S, Italia Viva), essa prevede un ritorno al proporzionale con una soglia di sbarramento al cinque per cento e diritto di tribuna. All’opposizione di questa legge troviamo la Lega in prima linea, seguita da Fratelli D’Italia, centrodestra e LeU.
Cosa cambierebbe in caso venisse approvata la nuova legge elettorale? Se la legge Brescia entrasse in vigore, passeremmo dall’attuale “Rosatellum bis”, ovvero un sistema misto a separazione completa – in cui solo il 61% dei seggi viene distribuito con un meccanismo proporzionale e clausole di sbarramento, mentre il restante viene attribuito con un sistema maggioritario uninominale – ad un sistema prettamente proporzionale che ricorda vagamente quello della prima Repubblica, di conseguenza verrebbero aboliti i collegi uninominali ed il premio di maggioranza. Inoltre, la soglia del 3 percento per entrare in parlamento si alzerebbe al 5, probabilmente per sollecitare aggregazioni e coalizioni più solide fra le forze politiche minori che già attualmente faticano ad emergere. Verrebbe introdotto anche il diritto di tribuna, per tutelare la possibilità dei piccoli partiti di essere rappresentati, ovvero dei seggi per i partiti che pur non superando la soglia di sbarramento riescono ad ottenere il quoziente in tre circoscrizioni all’interno di almeno due regioni.
Anche Matteo Salvini si è mosso per proporre una sua visione di sistema, a lui più conveniente in quanto statisticamente primo nei sondaggi: un referendum abrogativo che abolirebbe l’attribuzione dei seggi plurinominali con metodo proporzionale all’interno della legge vigente. Presentato il 27 novembre alla cassazione, il quesito è stato respinto il 16 gennaio dalla Corte costituzionale in quanto considerato inammissibile ed eccessivamente manipolativo, se fosse entrato in vigore avrebbe trasformato il sistema attualmente misto in un sistema maggioritario puro.
Un maggioritario secco a previsione del nuovo parlamento avrebbe portato un problema di rappresentatività di non poco conto. Di per sé il sistema maggioritario è meno rappresentativo del proporzionale, essendo un sistema che va a favorire, a discapito dei partiti minori, la maggioranza parlamentare. Se combinato con il taglio dei parlamentari, cavallo di battaglia storico dei pentastellati, alcune delle forze politiche, specialmente quelle minori che già ora faticano a farsi sentire, non avrebbero alcuna possibilità di entrare in parlamento, lasciando intere fette di elettorato prive di rappresentanza. Lo stesso discorso può essere applicato al Ddl Brescia, che pur essendo proporzionale, se combinato con il taglio dei parlamentari presenterebbe, seppur in misura minore, lo stesso problema.
Proprio per questo è stato istituito il diritto di tribuna, come spiegato prima, ma nel nuovo assetto parlamentare, più che una soluzione del problema sembra un “tappabuchi” non troppo efficace. Si corre oltretutto il rischio di trovarsi nuovamente in una situazione di impasse nel caso in cui la Consulta, in un prossimo futuro, dichiari il Germanicum incostituzionale come già avvenuto in passato con la legge elettorale del 2015 presentata dal governo Renzi (“Italicum”) e in modo parziale con la legge Calderoli del 2005 (“Porcellum”).
Le domande sorgono spontanee a questo punto: Perché cambiare legge elettorale? Come mai in Italia una legge elettorale non dura ormai più di cinque anni? E soprattutto qual è il motivo per cui abbiamo cambiato sistematicamente sistema elettorale negli ultimi trent’anni? La risposta possiamo trovarla solo andando ad analizzare la nostra storia politica. Facciamo un passo indietro, e torniamo a prima del “Mattarellum”.
Al servizio della politica
In principio era il proporzionale. E poi il Mattarellum. E ancora Porcellum, Consultellum, Italicum e Rosatellum. Il record di sistemi elettorali adottati dal dopoguerra in poi appartiene all’Italia, e non è decisamente qualcosa di cui vantarsi. La prima legge elettorale fu approvata dalla Consulta Nazionale, organo istituito al termine della Seconda guerra mondiale, e applicata per la prima volta in occasione dell’elezione dell’Assemblea Costituente il 2 giugno del 1946. Si trattava di un sistema proporzionale puro, nel quale l’assegnazione dei seggi avveniva in proporzione ai voti ottenuti dalle liste o coalizioni nelle 32 circoscrizioni elettorali.
La legge in questione permise la formazione degli esecutivi nell’arco di tutta la Prima Repubblica, consentendo alla Democrazia Cristiana di porsi come perno centrale delle varie coalizioni di governo tra il 1948 e il 1992. Il sistema diede vita, infatti, a quella che il politologo Giovanni Sartori ha definito “alternanza periferica”, ovvero un susseguirsi di maggioranze di governo in cui attorno alla DC si avvicendavano i vari Pli, Pri, Psdi e Psi. Eccezion fatta per la parentesi della cosiddetta Legge Truffa, in vigore solo per il 1953, il proporzionale puro non ha conosciuto modifiche sino al 1993. All’indomani dei grandi cambiamenti dei primi anni ’90, dal crollo del Muro di Berlino allo scandalo Tangentopoli che annientò i grandi partiti della Prima Repubblica, anche la legge elettorale fu oggetto di riforma a seguito del referendum del 18 aprile 1993.
La riforma, che porta il nome del suo relatore e attuale Capo dello Stato Sergio Mattarella, introdusse un sistema elettorale misto, in cui il 75% dei seggi era assegnato secondo metodo maggioritario in collegi uninominali, mentre il restante 25% dei seggi veniva redistribuito secondo il principio proporzionale. Il passaggio al maggioritario, combinato alla nascita dei nuovi partiti e delle nuove dinamiche politiche della Seconda Repubblica, comportò un vero e proprio terremoto elettorale nel 1994. Per la prima volta il sistema politico italiano produsse coalizioni pre-elettorali, conseguenza diretta della presenza di collegi uninominali in cui anche un singolo voto in più può fare la differenza.
Inoltre, le elezioni del 1994 diedero inizio ad un’epoca di bipolarismo quasi perfetto che accompagnerà l’Italia sino all’esplosione del Movimento 5 Stelle. Da un lato, infatti, il polo di centro-destra si unì sotto la guida dell’homo novus della politica italiana, Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia. Il centro-sinistra, invece, si compattò attorno al neonato Partito Democratico della Sinistra, cui si affiancarono altre liste dell’area progressista e post-comunista, quali Verdi e Rifondazione Comunista. Tuttavia, la legge elettorale non riuscirà a soddisfare a pieno gli attori politici della Seconda Repubblica. In particolare, sarà l’avversione di Berlusconi per i collegi uninominali, ritenuti causa di debolezza per il centro-destra, a convincere il Cavaliere della necessità di una terza riforma del sistema elettorale.
La Legge Calderoli, meglio nota sotto l’epiteto di “Porcellum”, sostituì i collegi uninominali con il premio di maggioranza: in questo modo il correttivo maggioritario era assicurato dalla garanzia del 54% dei seggi assegnati alla prima lista o coalizione, a prescindere dal numero di voti ottenuti. Ciononostante, l’intuizione di Berlusconi non si rivelò vincente nelle successive elezioni politiche del 2006, quando fu la coalizione dell’Ulivo a spuntarla proprio grazie alla vittoria del premio di maggioranza per una manciata di voti. Dopo essere stata applicato per ben tre elezioni (2006, 2008, 2013), il Porcellum fu oggetto di un giudizio di incostituzionalità pronunciato dalla Corte Costituzionale nel dicembre 2013: la modifica della Corte eliminò non solo l’assegnazione dei premi di maggioranza, poiché indipendenti dal raggiungimento di una soglia minima di voti, ma anche le liste bloccate, che impedivano all’elettore di esprimere una preferenza diretta ai candidati. Dal momento che la Legge Calderoli non fu abrogata bensì ne furono eliminate solo alcune disposizioni, la sentenza lasciò in vigore un sistema elettorale completamente proporzionale, in quanto depurato del premio di maggioranza, e integrato in modo da consentire il voto di preferenza. La legge elettorale risultante fu immediatamente soprannominata Consultellum, sulla scorta della tradizione “latineggiante” ormai largamente in uso nel dibattito pubblico. Ancora una volta, però, gli interessi politici guidarono l’ennesimo processo di revisione del sistema.
Questa volta fu il centro-sinistra a guida Renzi a promuovere una nuova riforma elettorale, la quale riguardò però solo la Camera dei Deputati, essendo parte di un più ampio quadro di riforma costituzionale che prevedeva l’abolizione del Senato. L’Italicum, così soprannominato dallo stesso segretario del PD, fu ispirato al modello francese ovvero un proporzionale puro con premio di maggioranza alla lista che avesse raggiunto il 40% dei voti. Fu previsto inoltre un eventuale doppio turno in caso di mancato raggiungimento della soglia. Come il Consultellum, però, anche l’Italicum non conobbe mai effettiva applicazione dal momento che fu anch’esso vittima di un giudizio di costituzionalità da parte della Corte. In particolare, furono dichiarati incostituzionali sia il ballottaggio sia la possibilità per il capolista eletto in più collegi di scegliere a propria discrezione quello d’elezione.
A questo punto, il duplice intervento della Corte, prima nel dicembre 2013 e poi nel gennaio 2017, consegnò al sistema politico differenti meccanismi elettorali per i due rami del Parlamento. In particolare, alla Camera rimase in vigore l’Italicum ma depurato del ballottaggio e della discrezionalità di scelta del collegio di elezione per i capilista plurieletti. Al Senato, che nel frattempo aveva resistito all’abolizione proposta dalla riforma Renzi-Boschi, rimase in vigore il Porcellum senza il premio di maggioranza regionale, di fatto un ritorno al proporzionale puro. La necessità di armonizzare i sistemi per le due Camere ha portato il Parlamento a produrre ancora una volta una nuova legge elettorale. Pochi mesi dopo la sentenza della Corte, infatti, il vicepresidente della Camera Ettore Rosato ha presentato una nuova proposta di legge elettorale, poi definitivamente approvata nel novembre 2017.
Il Rosatellum, tutt’ora in vigore, segna il ritorno al sistema misto, ma stavolta il meccanismo prevalente è quello proporzionale, con il quale si attribuisce il 67% dei seggi, mentre il restante 33% è assegnato ai vincitori dei rispettivi collegi uninominali secondo metodo maggioritario. Anche questa nuova legge elettorale, tuttavia, non è riuscita a consegnare una maggioranza di governo stabile e coesa all’indomani delle elezioni del 2018. La prevalenza del proporzionale sul maggioritario, combinata all’irriducibilità politica e ideologica del tripolarismo italiano, ha impedito la formazione di un governo che rispettasse le coalizioni presenti sulla scheda elettorale. Al contrario, il Rosatellum ha comportato un esito post-elettorale molto simile a quelli della Prima Repubblica, ovvero la necessità di costruire alleanze post-elettorali a sostegno di governi inevitabilmente fragili e instabili.
Come funziona all’estero
Il compito, non semplice, di individuare le motivazioni alla base della tendenza italiana a un continuo ricambio di leggi elettorali sono particolarmente evidenti se si esamina il sistema elettorale di diversi Paesi europei e non. Il confronto in questo caso è necessario per stabilire quale siano le caratteristiche che contribuiscono alla stabilità di un sistema, rispetto anche alla capacità di restituire un’immagine coerente del Paese rappresentato.
Negli USA, ad esempio, il sistema elettorale è stabilito dall’Articolo II della Costituzione (1787) e l’ultima modifica sostanziale al sistema elettorale risale al XII emendamento del 1804, con due aggiustamenti nel 1951 (limite di due mandati presidenziali) e nel 1961 (allargamento del voto al Distretto di Columbia). Il sistema elettorale statunitense è un maggioritario indiretto: gli elettori esprimono il voto per il Presidente, ma in realtà eleggono i cosiddetti “grandi elettori” ad esso collegati. È quindi il Collegio elettorale ad eleggere di fatto il Presidente, ma in realtà sono rarissime le occasioni in cui i grandi elettori non rispettano il mandato affidatogli. L’elezione del Collegio elettorale che ne consegue avviene su base federale: il candidato che prende anche un solo voto in più dell’avversario si accaparra tutti i grandi elettori di quello Stato (ad eccezione di Nebraska e Maine in cui vige una ripartizione dei seggi su base proporzionale). Questo sistema premia i candidati il cui consenso è ben distribuito tra i vari stati, penalizzando invece chi gode di un consenso massiccio ma più circoscritto geograficamente. In due recenti casi celebri, entrambi sfavorevoli al Partito Democratico, il candidato che aveva vinto nel voto popolare ha invece perso secondo il sistema dei grandi elettori: Al Gore nel 2000 contro G.W. Bush (che perse in Florida addirittura per 327 voti) e Hillary Clinton nel 2016 contro Donald Trump.
Rimanendo nel mondo anglosassone, è ugualmente imperniato su un sistema fortemente maggioritario il sistema elettorale nel Regno Unito. Rimasto praticamente invariato dal Representation of the People Act del 1948, il sistema britannico è il più classico esempio di “first-past-the-post”, un uninominale a turno unico. Ognuno dei 435 seggi della Camera dei Comuni corrisponde ad uno dei 435 collegi, e il candidato che ottiene la maggioranza relativa nel singolo collegio conquista il seggio. Questo sistema garantisce quasi sempre una buona governabilità – ma non è detto: nel 2017 Theresa May si trovò a dover formare un governo partendo da un hung parliament, ovvero un Parlamento privo di un partito di maggioranza assoluta – e impernia il sistema politico verso un bipolarismo che favorisce i partiti più grandi e i partiti con forte radicamento territoriale. Alle elezioni del 12 dicembre scorso se n’è avuta l’ennesima riprova: i Liberal Democratici hanno conquistato 11 seggi, pur avendo ottenuto l’11% dei voti, in funzione della distribuzione di questo consenso in maniera più o meno uniforme su tutto il territorio; lo Scottish National Party invece, che ovviamente presenta i suoi candidati solo in Scozia, ha ottenuto 48 seggi pur avendo solo il 3,9% dei consensi a livello nazionale. Sono molti, in Italia, gli estimatori di questo sistema; che però ha il grave difetto di fornire un Parlamento “deformato” rispetto alla reale presenza dei partiti nel paese, allo scopo di fornire a tutti i costi una maggioranza chiara (vedi Scomodo n.27, “Brexit Poll”)
Più simile alla nostra è, invece, la legge elettorale tedesca. Anzi: in una delle prime bozze il Rosatellum tuttora in vigore era chiamato Tedeschellum proprio perché ispirato, a detta degli autori, al modello tedesco; e anche la legge elettorale presentata poche settimane fa è stata subito, erroneamente, ribattezzata Germanicum. Tuttavia, sono tante le differenze tra il modello tedesco e le tentate imitazioni italiane. Il sistema elettorale della Germania è un misto di maggioritario e proporzionale, in cui gli elettori possono esprimere due voti: uno per il candidato all’uninominale del suo collegio e l’altro ad un partito o una lista per la quota proporzionale. La quota proporzionale è di gran lunga più importante di quella maggioritaria, ma la vera differenza la fanno i correttivi: per garantire una buona governabilità la soglia di sbarramento è alta, al 5% (ma le liste più piccole possono provare a vincere i collegi uninominali). Inoltre, per evitare le storture dei sistemi maggioritari, il Bundestag tedesco non ha un numero di seggi sempre uguale (il minimo è 598, attualmente sono 709) ma si adatta in base alla quantità di candidati eletti al di fuori della quota proporzionale.
Un problema tutto italiano
Una prima conclusione che è possibile trarre da questo ampio confronto è la maggiore stabilità nel tempo dei sistemi anglosassoni o comunque maggioritari. Una questione di maggiore abitudine alle prassi democratiche, certo, ma pesa anche un fattore meno culturale e più legislativo: sono meno soggetti a modifica i sistemi elettorali riportati in costituzione. È il caso degli Stati Uniti, ma anche della Francia per quanto riguarda l’elezione del Presidente della Repubblica (diverso è il caso del Regno Unito, non essendo questo provvisto di una vera e propria Costituzione). Italia e Germania, che hanno sistemi più soggetti a modifiche (nel caso tedesco) o revisioni complete (come accade in Italia), hanno entrambe in Costituzione generici richiami – peraltro molto simili – ad un voto “personale ed eguale, libero e segreto”, senza ulteriori specifiche.
Passaggio al maggioritario come garanzia di stabilità? Non è così facile, per due motivi principali. Il primo è che in Italia la cultura del maggioritario non ha mai attecchito tra gli attori politici: il passaggio al bipolarismo nel nostro paese non ha mai davvero penalizzato i piccoli partiti, che hanno sempre trovato nelle enormi coalizioni di centrodestra e centrosinistra una sorta di ala protettiva sotto la quale fare il bello e il cattivo tempo una volta arrivati al governo. Il secondo invece deriva da una peculiarità del sistema legislativo italiano: il Capo dello Stato, ovvero il Presidente della Repubblica, esercita solo una funzione di garanzia; mentre il Presidente del Consiglio è un primus inter pares, con limitato potere esecutivo. Ne deriva che, in assenza di una figura preminente, il Parlamento assuma un’importanza maggiore che altrove, in quanto vero e unico luogo dell’azione politica; e in quanto tale deve rispettare determinati criteri di rappresentatività (basta pensare alle questioni riguardanti il Porcellum e l’Italicum). Un sistema maggioritario, a queste condizioni date, non solo danneggerebbe la rappresentatività, ma non garantirebbe un governo più stabile: in quanto fornirebbe un Parlamento ugualmente frastagliato, semplicemente però non in corrispondenza con le volontà dell’elettorato.
Quel che rimane è la tendenza tutta italiana ad adattare il sistema elettorale alle contingenze politiche, e non viceversa. E tra chi ha bisogno di un ritorno al proporzionale puro (centrosinistra e M5S), chi spera in un maggioritario (Salvini) e chi addirittura spinge per una riforma dell’ordinamento dello Stato in senso semipresidenzialista (Meloni), i prossimi mesi potrebbero essere decisivi per delle importanti modifiche del sistema politico e legislativo italiano. Cambiare tutto, per non cambiare nulla.