In italia lavorare non basta più

Più di due milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà nonostante un lavoro

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Nel 2022 in Italia quasi 2,7 milioni di persone – quasi quante quelle che abitano la città di Roma –, pur avendo un lavoro stabile, appartenevano a nuclei domestici in condizioni di povertà, per cui la disponibilità di uno o più stipendi fissi non era sufficiente a corrispondere le necessità familiari. 

In gergo ci si riferisce a questo fenomeno come povertà lavorativa, e tra i ventisette stati europei, l’Italia è al quarto posto per la sua incidenza: nel 2022, l’11.5% delle persone con un lavoro rientrava nella categoria dei lavoratori poveri. La media europea era dell’8.5%. 

«Questo del lavoro povero è un elemento tipico del regime di povertà italiano», spiega David Benassi, professore di socioldogia dei processi economici e del lavoro presso l’università Bicocca di Milano. 

Qualitativamente, la cosa trova una spiegazione guardando alla definizione rigorosa di povertà lavorativa. Secondo l’Eurostat una persona è considerata tale se nell’anno precedente ha lavorato per più di 6 mesi all’anno ma il cui reddito disponibile – corretto in base alla dimensione del proprio nucleo familiare – è inferiore al 60% della mediana nazionale (per l’Italia, 18 592 euro nel 2022).

Come sottolinea Benassi, si tratta di una definizione che lega insieme due aspetti differenti e fondamentali della società italiana. 

Da un lato c’è una dimensione puramente economica che vede lavoratori tendenzialmente a basso reddito e un mercato del lavoro che paga poco il lavoro. Dall’altro invece c’è un fattore sociale che riguarda la stessa composizione delle famiglie, in cui spesso quel lavoro a basso reddito è l’unico all’interno del nucleo familiare. 

Questo è un dato estremamente significativo nel modello italiano, in cui la presenza di una larga porzione di lavoratori e lavoratrici sottoposta a condizioni lavorative sconvenienti e basso salario si intreccia al tema della scarsa – o cattiva – integrazione occupazionale di donne, persone straniere residenti sul territorio, degli individui più giovani e di quelli disoccupati più anziani e poco specializzati.

La commistione di questi due temi, insiste il professore della Bicocca, spiega perché la povertà lavorativa rappresenti «il precipitato di una serie di caratteristiche del modello di regolazione sociale italiano […], e fa sì che da noi siano particolarmente numerose le famiglie in questa condizione, mentre la stessa cosa non accade in altri Paesi, dove invece il fenomeno è molto più residuale».

Sull’orlo della precarietà

La prima questione è riconducibile in senso esclusivo alla forma del mercato del lavoro italiano. Il nostro Paese è caratterizzato da una forte preponderanza del fenomeno del lavoro autonomo – al 2017, il 21.1 % del totale contro il 13.9% della media europea – e da una grande diffusione di contratti a tempo determinato (il 15.9% del totale all’ultima lettura di maggio 2023). Entrambi i fattori rendono più difficile la garanzia di una forma di reddito stabile, comportando spesso paghe ridotte e incentivando la frammentazione delle carriere dei lavoratori e delle lavoratrici.

È un discorso che può trascendere dal valore degli stipendi. In Italia una grande parte dei contratti sono precari, anche di durata minima, e persino misure come il salario minimo potrebbero non essere sufficienti: «magari tu fai i contratti che rispettano il salario minimo, che però durano poche ore. Quindi la gente non ce la fa a campare», argomenta Vincenzo Bavaro, ricercatore presso il Dipartimento di Economia dell’università di Roma Tre. Come si legge in un dossier della Commissione europea del 2019 sul tema della povertà lavorativa nel nostro Paese, «la diffusione di contratti a tempo determinato e part-time rappresenta la causa principale dietro ai salari bassi degli impiegati italiani». 

Così, nel 2017 la percentuale di lavoratori con un contratto di lavoro di queste tipologie a rischio povertà era del 22.5%, mentre tra i lavoratori a tempo indeterminato il dato si attestava al 7.8%.

Sempre nello stesso report della Commissione si legge che nel caso del lavoro autonomo, oltre alla strutturale variabilità degli introiti derivanti dal lavoro, è da considerare che di frequente in Italia i membri di uno stesso nucleo domestico condividono la stessa attività di lavoro (si pensi ad una coppia di architetti associati allo stesso studio a conduzione familiare, o a quello di una coppia di ristoratori). 

Con un’unica fonte di reddito domestico disponibile, è più facile che un momento di flessione dell’attività lavorativa si ripercuota negativamente rispetto al caso di nuclei domestici con fonti di reddito eterogenee, delineando un quadro di estrema instabilità.

Lavorare meno lavorare in pochi

Nella seconda questione si raccordano vicende di natura sociale e culturale. 

In Italia spesso l’unica fonte di reddito consistente interna al nucleo domestico di una coppia eterosessuale, eventualmente con figli, è l’uomo, specie nelle regioni del sud.

I dati in tal senso sono univoci: il tasso nazionale di impiego femminile nel 2022 era del 57.3%, contro il 71.2% della media europea. Al contempo, mentre nelle regioni del Nord e del Centro Italia il tasso di occupazione si aggirava rispettivamente attorno al 60% e al 57%, nel Mezzogiorno questo rimaneva inchiodato al palo del 34.4%.

Ancora più sorprendenti e significative di queste cifre sono le statistiche sull’inattività lavorativa. A gennaio del 2023, secondo l’Istat, a non avere e non cercare lavoro erano il 25.2% degli uomini e il 42.6% delle donne tra i 25 e i 64 anni.

Uno scarto di quasi venti punti percentuali che racconta di una marginalizzazione ancora drammatica della figura femminile – quasi otto milioni di donne sprovviste di una fonte di reddito indipendente – e, riporta la Commissione europea, di un Paese ancora legato «all’antico modello di capofamiglia che porta il pane a casa».

Al contempo, sono pressanti i problemi di integrazione nel mercato del lavoro delle persone straniere e più giovani.

Tra le prime l’incidenza della povertà lavorativa è molto più grande in confronto alle persone autoctone: più del doppio (22.2%) e del triplo (31.8%) rispetto al caso dei cittadini e delle cittadine italiane (9.3%). Nel resto d’Europa le cose non vanno così male: l’incidenza tra i due gruppi considerati in precedenza è inferiore di circa otto punti percentuali (rispettivamente il 14% e 23.3%).

Nel caso delle seconde, spiega Benassi, deve essere tributata una grande attenzione a identificare cause ed effetti. «I giovani che non lavorano o non studiano sono più del 20% nel nostro paese. Cos’è, sono dei ragazzi pigri che vogliono stare a giocare alla Playstation? Tutti? No, vuol dire che sono persone molto scoraggiate, impossibilitate, che non credono nella possibilità di trovarsi un posto all’interno della società».

L’indicatore più efficace è fornito ancora dai dati Eurostat

Nel 2022, il potere d’acquisto mediano degli stipendi italiani per la fascia d’età compresa tra i 18 e i 24 anni era di circa 17 400 euro, una cifra inferiore rispetto a quelle di paesi con un costo della vita simile al nostro (i 21 000 euro della Germania, i 18 800 della Francia, i 23 100 dei Paesi Bassi), un trend che non si modifica nemmeno guardando agli anni precedenti, e che restituisce un quadro di svalutazione del lavoro giovanile, con la percezione netta che questo venga considerato di fondo una manodopera a basso costo.

Per ultima, c’è la questione di quei lavoratori e lavoratrici più anziani (tra i 50 e i 64 anni d’età), con un basso livello di formazione e competenze pregresse che si trovano a perdere il lavoro e che non riescono a trovarne uno nuovo. In questa fascia d’età il tasso di inattività è ad oggi ancora il più alto tra tutte (il 34.1% contro il 18.4% della fascia 35 – 49 ed il 24.9% della fascia 25 – 34), indice di una mancata ricaptazione di una grande parte di persone disoccupate più anziane nel mercato del lavoro.

«Magari ci fossero una serie di servizi che accompagnano il lavoratore fragile, che non ha competenze, che ha competenze obsolete, che è rimasto escluso dal mondo del lavoro per un periodo molto lungo. In Italia questa cosa non c’è assolutamente», puntualizza Benassi. 

Queste cause strutturali, mal mitigate dall’assenza di politiche sociali e di gestione del mondo del lavoro appositamente orientate (misure volte a incrementare gli introiti personali, stabilizzare le condizioni di lavoro, allargare il numero di percettori di reddito nei nuclei familiari più svantaggiati – in particolare tra le donne –, favorire la riacquisizione di competenze e il reinserimento nel mondo del lavoro delle persone più anziane) sono alla base della diffusione incontrastata della povertà lavorativa.

Preso atto che in Italia la quasi totalità delle strategie messe in campo in tema di povertà riguardano il fenomeno in analisi solo indirettamente, chiosa la Commissione europea, «è possibile affermare che la povertà lavorativa non rappresenti una priorità per la politica nazionale».

In tal senso la Commissione rintraccia un altro dato culturalmente interessante. 

In Italia «l’idea che l’occupazione sia una condizione sufficiente per evitare la povertà è ben radicata nel dibattito di politica economica e viene solitamente inquadrata nella dicotomia tra ‘lavorare’ e ‘ricevere un sussidio in denaro contro la povertà’»

All’interno di questa cronaca concentrata sulle responsabilità personali si perdono le cause fondamentali dietro allo stato delle cose, e non si riescono a identificare le linee di intervento adeguate. «Nel nostro paese c’è molto questa narrativa, chiamiamola così, del ‘lavoro a tutti i costi’. Dire che tu sei adulto, non sei malato, non sei invalido e allora devi trovare un lavoro è una semplificazione della realtà», fa eco Benassi. 

La cura di un problema così caratterizzante ed intrinseco alla società italiana come la povertà lavorativa dovrebbe passare per l’attuazione generale di politiche dedicate e trasversali: salvo casi fortunati, il processo di uscita dalla condizione di povertà richiede un percorso, e questo è ancora più vero per gli individui appartenenti a contesti domestici svantaggiati come quelli considerati, persone che magari «sono fuori dal mercato del lavoro da tanto tempo, hanno una situazione familiare complessa, hanno avuto delle esperienze molto negative, a cui quindi devi dare una prospettiva», conclude Benassi.

È una spesa non trascurabile, ma «che per un Paese grande, che vuole sentirsi ricco, appartenere al club dei paesi più sviluppati, è assolutamente sostenibile».

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