Passeggiando per SpaccaNapoli, la strada principale del centro storico, si incontrano ristoranti, pizzerie, negozi di souvenir e se si è fortunati anche l’uomocorniciello, che in cambio di qualche spiccio è pronto a vendere al turista una foto, l’immagine di Napoli che vuole vedere ed a cui è già abituato, avendola ormai conosciuta in tv
La Napoli che il cinema, la moda e gli interi media si ostinano a raccontare, però, sopravvive a malapena alla trasformazione in feticcio che così subisce, mentre sotto gli occhi di spettatori poco attenti passa dalla “Napoli cartolina” alla “Napoli souvenir”. Così diventa il nuovo fenomeno pop che vende ed emoziona, ed a cui partecipa l’intera comunità cittadina (o almeno ne dà l’impressione) e che ogni giorno si trova vestita in modo diverso, con una nuova identità da posizionare nell’armadio ed indossare al momento giusto, mischiata tra le precedenti decine già esistenti e senza più distinguere tra quelle volute o non volute, quelle che erano almeno in parte veritiere e quelle che invece son parse da subito fittizie.
Napoli si trucca e diventa “velata”, con Ozpetek, quando è ripresa nella sua parte fantastica, segreta, esoterica, quando è sviscerata e portata ad una dimensione irreale di gioco e di fortuna. Diventa “liberata” quando è invece trattata con romanticismo, quando Napoli è lungomare, amore, adolescenza, baci e taralli. Diventa “geniale”, agli occhi di Elena Ferrante, “segreta” o “milionaria” quando si esprime in note; diventa “camorra” quando la sua stilista è Sky e “casalinga” quando invece è Real Time.
Napoli sorride ed allora si trasforma, senza lamentarsi, e lo fa fingendo di non perdersi ed aggrappandosi disperatamente alle proprie tradizioni: il presepe, la pizza, il cornicello che porta fortuna e il ciuccio che ti fa tifare (come dimenticare il cardinale Voiello di Sorrentino che nemmeno al Vaticano abbandona le cover “Forza Napoli” e il suo completino azzurro).
La nuova attenzione che feticizza, idolatra Napoli e la aggiunge alle città che hanno già vissuto la loro trasformazione in icona, che hanno smesso di essere un luogo cittadino per diventare un prodotto immaginato e appetibile di cui tutti vogliono un pezzettino, fa festeggiare e ridere tutti, con gli slogan che compaiono sulle mura con scritto che “essere Napoletano è meraviglioso”.
Festeggiando, si dimentica però di cosa significhi tutto questo per una città e per la sua vivibilità. E se è vero che essere Napoletani è diventato (finalmente) meraviglioso, si dimentica il fatto che a continuare a goderne, nei prossimi anni, potrebbero essere solo gli altri.
La definizione identitaria
«Il mantra – ‘Napoli ha uno spirito indomabile e quindi non succederà’ – che l’amministrazione si ripete dal 2015 fingendo che gli anticorpi sociali della città bastassero a renderla immune da un fenomeno ben chiaro, la turistificazione, si basa su una serie di superstizioni e credenze lontane da qualsiasi comparazione con le altre città, già vittime del fenomeno, che mostrano chiaramente qual è il trend: quando il mercato dei fondi immobiliari compra nuovi quartieri è difficile tornare indietro» spiega Anna Fava, tra le fondatrici e i fondatori di Rete Set (Sud Europa di fronte alla turistificazione) Napoli, rete nata nel 2018 mentre la città diventava il comune più visitato del Sud Italia, con 3,8 milioni di presenze, il 13,6% in più rispetto all’anno precedente.
Rete Set è una rete di città, pensata e nata in Spagna e poi allargatasi al resto del Sud del mondo, per ragionare sulle criticità dell’attuale modello turistico e ripensare un nuovo modello di città vista come spazio d’aggregazione per i suoi cittadini. «La nascita di Rete Set a Napoli sembrava un progetto folle, in una città che vedeva il turismo come unica speranza alla risoluzione dei suoi problemi» ci ha detto Ugo Rossi, attivista e docente universitario di geografia urbana, «ma il bisogno di una rete nasceva non da un concetto di turismofobia ma dal bisogno concreto di un campanello d’allarme».
Un aumento così repentino di turisti in una città non può non trasformarla se non si attuano delle politiche reali, nonostante tutta la retorica che si può prendere in prestito – basti pensare a come Pasolini descriveva Napoli nel 1976, «una tribù che ha deciso di non arrendersi alla cosiddetta modernità», quando durante le riprese del Decameron il regista rimase folgorato dalla qualità del popolo napoletano di non adeguarsi al cambiamento ma bensì di preferire l’estinzione al corrompere dell’essere napoletano – ed a partire dal 2015 l’ondata di turismo ha messo in crisi le specificità storico-sociali della città, fortunatamente ancora presenti.
Una ricerca del 2019 riguardo i B&B nella città di Napoli mostra la presenza di circa 7500 annunci, di cui il 70% disponibile nel centro storico della città: numero cresciuto, come si legge sul sito Istat, del 35% in 4 anni – cifra in cui non rientra l’aumento del 9.6% degli alberghi, e non rientrano i tanti “b&b improvvisati”, le strutture non registrate. Le abitazioni vengono così sottratte al mercato dei fitti e perdono la loro funzione naturale: essere casa della popolazione della città e dei suoi quartieri. Il centro storico di Napoli è da sempre abitato dalla sua classe popolare e mantiene così tutte le specificità del caso: “verdummari” e “chianchieri” si alternano a “pizze fritte e presepi” tenendo in vita l’identità che piace tanto anche agli altri, ma che può scomparire con l’inasprirsi dei processi in atto fino ai primi mesi del 2020, prima dello stop forzato, ma non ripensati e rimodellati per il futuro prossimo.
Se in una città l’attore dominante smette di essere il cittadino e diventa il turista si crea una disparità di trattamento incolmabile e che parte da un semplice assunto facilmente verificabile: in vacanza si spende di più.
La città incorruttibile diviene il centro di un turismo sempre più fitto, arrivando ad essere la meta prediletta da visitatori e brand di alta moda. Il centro di Napoli, e addirittura zone come Scampia e Secondigliano che fino a poco prima venivano evitate sistematicamente a causa della cattiva fama, diventano must have tra i luoghi da visitare per vivere un’esperienza social a 360 gradi. Posillipo perde quasi il suo fascino al cospetto dei vascio (il basso, abitazioni tipiche napoletane poste al piano terra) tour, che al “modico” prezzo di 50 euro a notte, permettono di immergersi profondamente nella dimensione folcloristica della napoletanità. Spuntano baretti ad ogni angolo, i b&b prendono il posto delle abitazioni, schiere di visitatori si accalcano alle vele per fotografare il set di Gomorra e tutto questo a discapito dei cittadini, costretti a difendersi per non perdere la casa o anche solo l’identità.
Le case diventano case vacanze, con l’affitto di una stanza che va dai 40 ai 70-80 euro a notte, e le attività tese allo sviluppo locale e cittadino si ripensano, piegandosi e modificandosi per rispondere a bisogni che non sono più locali e che si legano totalmente ad un attore esterno, diventandone dipendenti. I prezzi degli appartamenti ne risentono e così ne risente la popolazione: lo stesso appartamento a Corso Umberto che nel 2002 si poteva trovare tra i 550 e i 600 Euro, si ritrova nel 2020 con un aumento di costo del 100% a dover ospitare le stesse famiglie.
La turistificazione del centro porta con sé oltre al sopruso del diritto all’abitare, la dipendenza degli abitanti e delle attività locali ai continui flussi turistici, con un centro che diventa sempre più monoproduttivo e che rischia di immobilizzarsi con una mancanza forzata di persone esterne.
La città stenta a sopravvivere quando è restituita a sé stessa e potrebbe cambiare per sempre con una nuova ripresa anche più forte e più veloce.
Nives, proprietaria di un ristorante e attivista, sembra dal 2018 una contraddizione vivente agli occhi degli altri, mentre lavora per pensare ad un turismo nuovo che potrebbe significare meno clienti per il suo ristorante a Santa Chiara, nel cuore della città. Il concetto da lei analizzato è che seguendo i ritmi pre-pandemici, la turistificazione di Napoli avrebbe spazzato via anche le attività come la sua. I ristoranti locali a conduzione familiare tendono a un tipo di economia lenta e diversa, e non possono né competere con delle multinazionali né pagare dei fitti che aumentano esponenzialmente. Napoli non vive il rischio di estinguersi, ma la paura è che ad estinguersi possa essere il nucleo cittadino che la tiene viva e che fa di una città un prodotto non replicabile.
Un esempio è Barcellona, città principale nell’azione di Rete Set, manifesto del sorpasso dei negozi storici che esistevano dal secolo scorso ed anche prima, con le più svariate attività tradizionali costrette a chiudere per degli affitti locali che diventano sostenibili solo per le multinazionali.
È proprio questo il cortocircuito che innesca la turistificazione: da un lato vi è la riqualificazione di un quartiere che rapidamente diventa l’epicentro dell’attenzione mondana e abitativa, con l’effetto quasi immediato di una cospicua entrata economica a vantaggio del settore terziario; dall’altro, nel lungo periodo i prezzi salgono alle stelle e spesso quelli che ne pagano le conseguenze sono gli autoctoni, costretti a migrare verso una periferia o a modificare totalmente le loro abitudini economiche e sociali, con un processo analogo a quello più famoso della gentrificazione, già in atto alla fine degli anni ‘50.
Un quartiere popolare viene trasformato in zona abitativa di pregio, con conseguente cambiamento della composizione sociale e aumento dei prezzi delle abitazioni. Il termine gentrification fu coniato nel 1964 dalla sociologa britannica Ruth Glass, nel tentativo di descrivere quello che stava accadendo nel quartiere operaio di Islington, Londra, dove da quasi un decennio avevano cominciato a investire persone appartenenti alle classi sociali più agiate. Ciò provocava l’allontanamento delle famiglie operaie che col diffondersi del fenomeno non erano più capaci di sostenere i costi della vita in quel luogo.
Le “nuove Londra” non soccombono ai concittadini più agiati ma sono alla mercé degli altri, e fenomeni simili sono rintracciabili a Venezia, Valencia, Siviglia, Palma, Pamplona, Lisbona — ed è meglio non continuare—.
Le alternative popolari
Di tutto questo ne è ben consapevole Salvatore, che ci spiega come nasce “la battaglia del pesone” (“affitto” in napoletano), ovvero la lotta per il diritto all’abitare, che da anni associazioni come Rete Set, Magnammece o’ Pesone e Zia ADA (Zona Indipendente Autogestita Autonomamente Dagli Abitanti) portano avanti.
Salvatore è un giovane uomo, che all’età di 34 anni si trasferisce nel plesso di Zia ADA, complesso occupato situato a piazza Miraglia, che ospita più di quattro famiglie, persone anziane, inquilini singoli e ancora soggetti affetti da patologie che non potevano sostenere i costi di un affitto.
È lui ad accoglierci al portone e dopo una breve scalinata ci ritroviamo al primo piano del complesso, un lungo corridoio ci conduce alla sua abitazione: una porta bianca che spicca tra le altre quasi tutte decorate.
Entriamo in casa di Salvatore, una stanza luminosa e colorata, «l’ho dipinta io così, mi piace esprimere la mia creatività» e solo dopo un po’ notiamo un dettaglio, «si, condividiamo il bagno. Uno su ogni piano. Zia ADA ci consente d’avere uno spazio nostro, un’indipendenza, e negli anni ci sono state molte persone aiutate che, una volta migliorata la propria condizione economica, hanno preferito dimensioni più private e lasciato spazio a chi aveva la stessa loro iniziale necessità».
Prendere il caffè al tavolino che Salvatore ha messo tra le due finestre della sua stanza è un’esperienza strana ed è proprio la parola necessità a ricordarcelo. «Avevo da poco perso mia madre, lasciato la casa di famiglia a mia sorella con i suoi tre figli e convissuto per un periodo con mio padre e la sua nuova compagna. Nello stesso periodo avevo fatto coming out, ma non è stato questo il motivo che ha reso la convivenza impossibile, ha solo accentuato la mia necessità di avere uno spazio personale. Purtroppo avendo una vertenza lavorativa in atto, non riuscivo a pagarmi una sistemazione in autonomia».
Ci affacciamo alle finestre e gli occhi corrono sulla piazza, sul palazzo, sui lavori in corso ormai da anni. «Il palazzo non è decadente, ma è comunque un edificio storico e richiede una costante manutenzione. Ci occupiamo di tutto noi, tutti insieme: il senso di comunità qui è molto forte, pur essendo tutti di estrazioni sociali ed età differenti. Ma siamo tutti accomunati dalla stessa battaglia, questo ci rende molto uniti». Sporgendosi un po’ dalle finestre, vediamo in lontananza il via vai di Via Tribunali, «credo che Napoli sia una bella città: attira i turisti in maniera naturale» continua Salvatore «Il fenomeno della turistificazione, è però un’arma a doppio taglio, nel senso: accogliamo di buon grado i turisti, sappiamo che portano alla città prosperità economica, un lustro e soprattutto una bellezza umana, che ha un’immensa importanza, ma tutto questo diventa controproducente se mina all’autenticità della città. Un palazzo può essere bello, ma chi lo racconta? Chi è del centro storico, chi ci vive. La ‘napoletanità’ si racconta soprattutto attraverso le persone che vivono la città. Dobbiamo difenderlo a tutti i costi, perché è vero, il centro sono le mura, le strutture, le strade, ma ancor di più siamo noi. La gente, la nostra cultura. Se togli Napoli ai napoletani, perdi tutta la sua identità. È aberrante pensare che vogliano noi fuori, per rendere il centro ‘degli altri’. La città è nostra».
Sguardo al futuro tra i vecchi e nuovi bisogni
La caccia alla napoletanità ha reso Pulcinella, già goloso di suo, famelico: non sapendo più cosa mordere, comincia a mangiarsi la città, le strade, le piazze, le pareti di tufo, sottraendo ai cittadini spazio vitale. Pulcinella, la sintesi simbolica dei napoletani tutti, comincia a mangiarsi Napoli, un gesto di pura autofagia, la napoletanità che si mangia Napoli a pezzi.
Il centro storico viene restituito ai cittadini dopo una pandemia ma gli effetti che si sono accumulati nel tempo non terminano qui e soprattutto il rischio che si ripresentino ancora più voracemente è reale. La situazione del centro oggi è cambiata con l’impossibilità di fare viaggi internazionali per vacanza, e le metropoli si svuotano, come se fossimo tornati a un tempo passato, e intanto le gestioni familiari chiedono fondi su internet, dopo aver ricevuto mere risposte da parte delle istituzioni.
ZIA ADA resiste, e le associazioni si stringono più forte intorno ad una comunità che tiene testa al mondo in tutti i modi. Il futuro, però, si decide adesso e si decide tramite delle politiche reali in grado di gestire il rapporto tra dentro e fuori, cittadini e turisti, Napoli e il mondo.
Se la pandemia è un momento di freno, non ci si può far trovare impreparati al dopo che sembrerà una corsa in discesa.
«San Gennaro non fa più miracoli», e come scrive Balducci negli anni ‘70, «Napoli non ha più nemmeno un letto in cui girarsi: fuoriesce dal suo spazio, vinta dalla propria massa. Le sue parti sono l’una accanto all’altra, non sono in funzione di un tutto: il tutto è solo quantità. La città stessa ha divorato il suo retroterra e ridotto a liquame biologico perfino il mare, splendido e azzurro solo nelle canzoni del mito» e, continua Antonio Colasanto, «A nessuno salta in mente che legare lo sviluppo della città alla trasformazione è come mutarla fino al midollo…» tesi confermata da quello che si può notare oggi, con il mercato degli affitti come protagonista, ben diverso dalle piccole “imprese” che vivono soffocate dalla concorrenzialità tipica del mercato contemporaneo.