Molestie a scuola

Il periodo di formazione di un ragazzo non riguarda semplicemente la sua istruzione scolastica.

Nello stesso momento in cui le nostre conoscenze intellettuali si ampliano e accrescono sono anche le esperienze pratiche e la nostra reazione emotiva ad esse a costruirci come persone, a porre le basi per il nostro approccio futuro alla realtà. 

Tra gli ambiti più delicati rientra quello della sessualità, in tutte le sue declinazioni. Dall’autoidentificazione, alla sfera emotiva e sentimentale, alla scoperta del proprio corpo, del modo in cui ci relazioniamo agli altri e rispondiamo agli stimoli che provengono dall’esterno. Forse è una sfera personale e sociale che non conosceremo mai fino in fondo, ma è indubbio che negli anni dell’adolescenza e della prima maturità si è tanto recettivi quanto vulnerabili e duttili. La violenza sessuale è un caso estremo e traumatico e gli ambienti della formazione purtroppo non ne sono esenti, nonostante dovrebbero categoricamente garantire più di ogni altro luogo la serenità e lo sviluppo libero e al contempo protetto dell’individuo. Ma pensare che sia solo il caso limite della violenza fisica ad intaccare questa sfera è un errore. Quelle che vengono definite come molestie, le attenzioni e le pressioni non desiderate, verbali e fisiche, costituiscono un reale caso di intromissione e lesione della sfera intima. Ancor di più in un ambiente come quello scolastico e universitario appare evidente che siano un modo con cui l’adulto può esercitare il proprio potere su soggetti che per definizione si trovano in una posizione di subordinazione. Nella recente cronaca romana sono emersi casi di molestie ai danni di giovani studentesse liceali, vittime di un’intrusione non legittima della loro sessualità. Un professore nell’immaginario e nel vissuto comune è da sempre una figura controversa, ma imprescindibile. Qualcuno da dover combattere in alcuni casi, come simbolo del potere costituito, ma soprattutto una guida a cui affidarsi.  Le notizie di cronaca più recenti hanno visto al centro dello scandalo il liceo classico Torquato Tasso di Roma, dove il professore di filosofia Maurizio Gracceva è stato accusato da quattro studentesse di aver mandato numerosissimi messaggi privati dal linguaggio spinto, in cui trattava temi di natura sessuale. Al di là delle conseguenze giuridiche, la sospensione dell’attività di insegnamento e l’apertura di un processo, un aspetto interessante della vicenda da analizzare è la reazione delle parti interessate. La componente studentesca ha ammesso di conoscere già di fama il professore, notoriamente “aperto” e “amico” dei suoi studenti. Le studentesse vittime di molestie hanno prima di tutto denunciato i fatti al preside dell’istituto, prima di intercedere con le autorità giuridiche. Questo semplice e naturale gesto delle studentesse dimostra già come la scuola sia un ambiente altro e particolare, che possiede un equilibrio proprio, in cui vigono regole proprie, dove esiste già una autorità da contestare e a cui rivolgersi. La violazione subita si aggrava proprio perché colpisce nel luogo per eccellenza dove gli studenti sperimentano e imparano le relazioni e i meccanismi della vita, come in uno specchio della società “futura”, in un periodo propedeutico dell’età adulta, dove invece responsabilità, affetti, amicizie, impegno sociale o politico, svago, saranno più suddivisi rispetto all’ambiente scolastico, in cui tutto è vissuto simultaneamente e quindi si amplifica. Il professore accusato di molestie ha mostrato nei giorni dello scandalo una grande serenità, convinto che le sue parole fossero state travisate e di essersi comportato in modo impeccabile, come richiedeva il suo ruolo. La sua preoccupazione principale è stata quella della perdita del posto di lavoro, facendo appello ai suoi diritti che non potevano essere ignorati “per qualche frase ad effetto detta da Tizio o Caio”.

Spostandoci dall’ambiente scolastico il quadro non appare più rassicurante. A Firenze lo scorso settembre si è consumato un episodio di violenza ai danni di due giovani studentesse americane da parte di due carabinieri. La violenza, che di per sé costituisce una violazione della sfera intima che non ammette giustificazioni, in questo caso riveste una gravità ancora maggiore: i due militari hanno accompagnato le ragazze a casa mentre erano in servizio per poi fermarsi nell’androne dove alloggiavano per avere un rapporto non consensuale con loro. 

Le giustificazioni però non sono tardate: accompagnare le ragazze a casa, violando le norme che regolano lo svolgimento delle loro funzioni, è diventato “un gesto di galanteria”, seguirle nell’androne “un modo per garantire la loro sicurezza”, e infine il rapporto sessuale l’usuale e scontato epilogo dei fatti precedenti. D’altra parte, “tutti sanno che queste americane spesso e volentieri fanno delle avances”. A completare questa ricostruzione dei carabinieri un’ultima dichiarazione “ci siamo comportati da maschietti, non siamo dei mostri”.

 Che cosa traspare dunque da queste parole? 

Il messaggio è chiaro, i carabinieri hanno colto al volo un’occasione che qualunque altro maschietto non si sarebbe lasciato scappare, ciò che è accaduto non è che la sommatoria di una serie di fatti che in sequenza non potevano portare ad altro risultato.

E poi il consenso, i carabinieri non si erano certo accorti che le ragazze erano ubriache e quindi incapaci di reagire con fermezza alle pressioni per un rapporto sessuale. Una serie di fraintendimenti quindi, nulla più, mica un caso di stupro.

La violenza, ammantata di quella galanteria e piacere della conquista tipicamente maschili, perde i suoi connotati, diventa più sfumata, un quadretto più facile da digerire per l’opinione pubblica, un episodio in cui questa possa riconoscersi perché non troppo lontano dal suo immaginario. Una violenza che non è più violenza.

Orizzonti di senso patriarcale

La struttura ancora patriarcale della società e l’assenza di un simbolico femminile inseriti in un contesto di sapere-potere generano un ambiguo campo d’azione in cui il soggetto femminile è condannato a rimanere passivo. Finchè non ci sarà una reale volontà di cambiamento. Attraverso i pareri della psicologa Elisa Ercoli e della psicanalista Simona Argentieri affrontiamo la delicata questione delle molestie in ambito formativo.

In un contesto formativo di presunta natura neutrale, talvolta si verificano episodi di molestia. Le molestie spesso ottengono un silenzio complice e una comprensione da parte della società, anche perché vengono narrate in modo tale da rientrare in un orizzonte di senso patriarcale che fa parte del nostro senso comune. Un orizzonte di senso in cui l’uomo ha una posizione fondamentale e centrale, mentre la donna è relegata ad una posizione di complementarietà rispetto all’uomo, sia in ambito sessuale che sociale. La coppa d’argento dove l’uomo ripone il suo frutto d’oro, diceva Goethe, e questo non vale solo per la sessualità e la riproduzione, ma anche per il simbolico a cui la donna può aspirare e si può rifare, che non è mai indipendente, ma sempre Altro rispetto a quello dell’uomo, quello che resta, che colma il vuoto e che completa. 

Le molestie, al contrario degli stupri, creano uno spazio ambiguo, in cui i ruoli non sono così definibili come lo sono in una violenza carnale. E se la donna agisce reagendo in base a come si struttura il non-simbolico femminile, diventa ancora più difficile stabilire dei limiti, anche all’interno di relazioni non istituzionalizzate che, quindi, non si intersecano con altre strutture di potere. Se socialmente l’atteggiamento della donna è concepito come passivo rispetto all’uomo diventa anche un problema per gli uomini identificare un consenso o un dissenso in un atteggiamento distaccato, ma di questo spazio di ambiguità spesso viene abusato. Se un uomo dalla donna si aspetta una re-azione, o comunque una passività, come farà a distinguere tra un consenso distaccato e un dissenso? Questo comunemente viene lamentato dagli uomini -celebre il “hanno avuto la parità dei sessi ma nell’ambito del corteggiamento dobbiamo comunque fare tutto noi”-, eppure questo è anche dovuto al fatto che non venga concepito un simbolico femminile attivo, per mezzo del quale la donna possa muoversi liberamente, per cui l’uomo ha un largo spazio per sovra interpretare i “segnali” che dà la donna, che sono sempre e solo delle risposte alle attenzioni dell’uomo.

Il problema del simbolico femminile indefinito si complica ulteriormente in una struttura istituzionale come un liceo o un’università, e in un rapporto studentessa-docente. Infatti, all’interno di un luogo istituzionale la stessa struttura, i limiti e i confini di tale rapporto vengono definiti da coloro che la edificano, e non da coloro che ne usufruiscono. In quanto fruitrici, le studentesse sono messe in una situazione per cui non spetta a loro definire il limite e il confine oltre il quale un docente non si deve poter spingere.

Quel limite sottile: quando è molestia?

Prendiamo come esempio quello che è successo recentemente al liceo Tasso. Un professore gentile, amato dagli studenti, che dimostra interesse nei loro confronti anche al di fuori dell’ambito accademico. Il professore che tutti hanno sognato, che consiglia testi e che invita alle proprie esposizioni artistiche, che se vede uno studente o una studentessa triste la sera invia un messaggio per accertarsi delle sue condizioni. Fin qui tutto bene, più o meno. Lo stesso professore però inizia a mandare messaggi di troppo, a inserirsi nella quotidiana intimità delle studentesse, a essere insistente rompendo la formalità istituzionale.

E adesso? Dove è una molestia e dove no? La psicanalista Simona Argentieri afferma che “ci sono infinite gradazioni e sfumature di collusione e complicità circa la consapevolezza e l’apparente consenso della ‘vittima’; ma è un criterio psicologico difficilissimo da tradurre sul piano morale e ancor più giuridico”.

Altro problema è che, spesso, la molestia, attuata in una condizione di superiorità da parte dell’uomo, non viene denunciata da chi la subisce o, peggio ancora, coperta dalle istituzioni scolastiche. 

La psicologa Elisa Ercoli, a proposito, ricorda come “nel rapporto docente-studente esista una disparità di ruolo e potere tale da richiedere nel docente una responsabilità inerente la chiarezza del limite di ciò che rientra nel suo ruolo e di ciò che vìola tale limite. Per una studentessa la questione è quindi duplice: non solo è stata affabulata dal molestatore ma si trova in una relazione in cui il docente, partendo già da una relazione dispari, ha usato il potere del suo ruolo per irretire. L’insegnante esercita un ascendente nei confronti della studente ed è per questo che non deve abusare di questo potere”.

Eppure, talvolta, è la stessa giovane oggetto delle molestie “ad illudersi di essere in grado di guidare la situazione -prosegue l’Argentieri- di averne il controllo senza correre troppi rischi”, incorrendo inevitabilmente in errore. E l’uomo, dal canto suo, si sente autorizzato ad agire impunemente se conta sull’omertà e il consenso dei suoi pari. Ma agiscono, sottolinea sempre l’Argentieri, anche “l’incredulità, la pigrizia, la falsa idea che per proteggere l’immagine dell’istituzione sia bene soffocare lo scandalo”, rendendo di fatto l’impunità tollerata, spingendo il ‘carnefice’ alla reiterazione.

È inevitabile chiedersi quali siano i meccanismi psicologici che agiscono individualmente nella psiche del carnefice. Secondo l’Argentieri, oltre “il narcisismo (il ‘carnefice’ si illude che l’interesse o il gioco di seduzione che si innesca con la persona in posizione subalterna, sia dovuto ai suoi fascini) ed il cinismo (la consapevolezza invece di poter sfruttare a suo vantaggio la posizione di potere)”, non ci sono fattori psicologici né biologici alla radice del fenomeno. Sono invece “i fattori culturali ad essere prevalenti ed è a questo livello che bisogna modificare il clima di ambiguità che circonda il problema”.

Si tratta quindi di una condizione di dominio strutturale da cui la giovane difficilmente riesce a sottrarsi: i contesti di potere amplificano la questione in quanto fortemente strutturati formalmente. La struttura formale agisce come dispositivo sapere-potere: la relazione è gerarchica e la conoscenza della strutturazione della gerarchia appartiene all’altro soggetto. La donna si trova inserita in una doppia assenza di strumenti interpretativi: non accede al simbolico maschile e non è l’agente strutturante la relazione di potere. Questi due elementi fanno sì che la donna sia doppiamente ingabbiata, da una parte dalla mancanza di cognizione dei limiti stabiliti della relazione -in quanto questa è strutturata nel simbolico patriarcale-, e dall’altra da una relazione di potere che non controlla.

Il dominio del fallo-logico-centrismo

Una delle analisi più lucide della struttura simbolica patriarcale in cui sono inserite le donne è della filosofa e psicoanalista francese Luce Irigaray. Irigaray, nel suo saggio “Speculum”, procede con una critica serrata della posizione astratta e disincarnata dei filosofi, che in realtà si rivela una disincarnazione unicamente del soggetto maschile nell’astratto universale del termine “uomo”. 

Tutto il pensiero di Irigaray si snoda attorno al concetto di fallo-logo-centrismo. Questo termine indica contemporaneamente tre aspetti: che il fallo e il logos sono per certi aspetti tutt’uno, che appartengono alla componente maschile, e che sono posti al centro del discorso ideologico. L’identificazione tra fallo e logos è un apporto teorico lacaniano che Irigaray riprende in forma critica. Il fallo e il logos sono l’uno lo specchio dell’altro in una produzione discorsiva dove il primo è una semantica e l’altro una sintattica della esclusione femminile. Il primo fornisce il contenuto della legge del patriarcato: la legge del fallo che in Levì-Strauss rende significativa la donna come oggetto di scambio dei clan. La legge del fallo è quell’orizzonte metafisico e simbolico che rende il soggetto maschile un soggetto oggettivato pensante sé stesso. Il femminile è creazione di processo, è l’opposto inessenziale che serve come luogo complementare negativo del maschile. Il patriarcato quindi produce un’esclusione della donna dalla possibilità di significare autonomamente il mondo. L’escluso è l’Altro del soggetto maschile, il femminile, che nel pensiero fallo-logo-centrico risulta essere solamente uno speculum, strumento di riflessione narcisistica del maschile. Questo Medesimo, il maschile, produce un femminile che non appartiene alla donna. Essa si ritrova apolide nel Simbolico del maschio, nel doppio inganno di essere stata trascinata fuori dalla sua essenza e essere costretta a credere che il “femminile” prodotto dall’uomo sia la sua casa. 

La donna, presa coscienza della sua esclusione dal discorso maschile del logos, deve quindi (ri)trovare un linguaggio autonomo, che le permette di dirsi fuori dalle categorie astratte e universalizzanti del maschile. Qui Irigaray si trova davanti a un problema difficilmente risolvibile a livello teorico: come si può uscire fuori dal simbolico maschile per ricreare un linguaggio proprio della donna? E soprattutto qual è questo linguaggio? In effetti la sola volontà definitoria di un linguaggio delle donne è una ricaduta in una categoria universalistica e astraente. Inoltre cosa è il “femminile”? Il rischio è ricadere in una dicotomia in verità prodotta dallo stesso patriarcato.

Che fare?

Che fare? A livello pratico abbiamo il compito di denunciare le ingiustizie, crederci, starci accanto, collettivizzare le debolezze e le vulnerabilità per ritrovarci insieme dalla stessa parte, e non soli. Ercoli afferma che “il cambiamento deve avvenire per contesti sociali per coinvolgere i soggetti. La capacità di avanzamento dei singoli tramite un cambiamento organizzativo e collettivo è di molto maggiore rispetto ad un cambiamento che pensi di partire dai soggetti”. 

Fondamentale, in questo senso, è riflettere su come il linguaggio di uso comune approcci la questione. Partendo dal presupposto che “il linguaggio esprime e veicola i contenuti che appartengono alle società” Elisa Ercoli afferma che modificarlo a seguito di nuove consapevolezze introduce innovazione e quindi avvia cambiamento”. E’ quindi necessario “introdurre il femminile delle professioni e dei ruoli come primo e irrinunciabile riconoscimento reale e simbolico della presenza delle donne nello spazio pubblico”. Occorre superare l’idea secondo la quale “l’uomo è cacciatore e la donne preda, l’uomo ha una sessualità incontrollabile, la donna è invece passiva sessualmente, l’uomo è il soggetto, le donne l’oggetto”. 

Forse occorre spogliare anche quelle istituzioni che più ci sono vicine della fiducia che ingenuamente attribuiamo loro e cominciare a concepirle non più come qualcosa che ci cresce e che ci protegge ma come un elemento potenzialmente estraneo, che dobbiamo guardare in modo critico e da cui talvolta siamo noi a doverci proteggere. “Perchè tutti gli ambiti delle nostre società hanno bisogno di evolvere, comprendere di più i meccanismi delle relazioni di potere per saperle gestire nel massimo rispetto dei diritti e delle libertà di ciascuna/o. In questo discorso l’ambito della formazione acquisisce una importanza fondamentale perché simbolicamente e realmente rappresenta il consolidamento delle identità delle/dei futuri/e cittadine/i”.

Per fare questo passo è necessaria un’unione e un riconoscimento nelle altre donne di queste stesse problematiche che ognuna, ogni giorno, anche se in misure diverse e a seconda dell’ambiente e anche della classe sociale, si trova ad affrontare (non tutte le donne sono sfruttate e molestate allo stesso modo ed è bene ricordare che una struttura come il capitalismo si fonda anche sul patriarcato e lo alimenta, in un circolo vizioso in cui entrambe le parti sono ugualmente essenziali). In questo senso hanno rappresentato recentemente una svolta anche movimenti quali Non Una Di Meno e #metoo, che a livello di sensibilizzazione pubblica hanno contribuito all’emersione di un clima di solidarietà, spingendo molte donne ad aprirsi e a confrontarsi e a rendersi così conto di non essere sole.

“La cultura patriarcale a cui apparteniamo tutte e tutti -continua l’Ercoli- ostacola di continuo la nostra evoluzione culturale, emotiva e relazionale. Molte e molti hanno retaggi culturali, stereotipi e pregiudizi che impediscono loro di analizzare con lucidità le responsabilità nelle relazioni di potere e quindi tutto l’ambito della violenza di genere. Inoltre i venti anni di berlusconismo alle nostre spalle hanno aggiunto alla relazione dispari uomo-donna e al potere un riconoscimento tale da far percepire come accettabile ciò che in realtà è grave violazione dei diritti umani, penso alle minori coinvolte nella prostituzione e comprate dai più affermati professionisti romani, penso alle molestie in ambito scolastico e universitario, penso agli ambiti lavorativi. Patriarcato e berlusconismo hanno rafforzato la protezione del violento e la condanna della vittima di violenza. Noi siamo chiamati a ristabilire un nesso tra benessere degli individui e società, che non fa che spingere la donna nella sfera dell’alterità dall’uomo in tutti gli ambiti”. Per questo gli strumenti prioritari da usare per combattere questa dimensione contro le donne e le relazioni di potere sono l’avanzamento culturale e il cambiamento dello stile di vita della collettività. “Partire dalle disparità per colmarle: disparità di retribuzione, presenza in ruoli apicali, lavoro di cura, e tanto altro”.




Possiamo ancora dirci femministi

Per chi pratica a livello agonistico la lettura di post e articoli femministi, senza perdere mai l’occasione di seguire le interminabili discussioni che spesso nascono nei commenti, non sarà una novità sentir parlare di MRA (Men’s Rights Activism). Per tutti gli altri invece ci siamo sobbarcati noi la responsabilità di riassumere in poche righe le loro posizioni di base e le argomentazioni più interessanti, citando in maniera quasi testuale da uno dei gruppi Facebook più rappresentativi del movimento a nostro avviso: 

“ Per la cronaca, quando le donne lottavano per il voto, gli uomini morivano in guerra perché il voto era connesso alla leva (ancora oggi che la leva è stata sospesa, gli uomini sono gli unici ad essere inseriti nelle liste di leva). Quando le donne non potevano lavorare (o potevano lavorare con una paga minore), gli uomini non potevano essere mantenuti e gli uomini che non potevano sostenere le proprie donne avevano così tanta pressione (prima legale – dato che era obbligatorio mantenere la propria moglie – e ora sociale) addosso che ancora oggi i maschi sono la quasi totalità dei suicidi per cause economiche. Quando c’erano leggi poco severe contro la violenza sulle donne, quella sugli uomini non aveva proprio leggi e anzi non erano proprio considerati vittime. Quando le donne non avevano modo di avere proprietà che non fossero approvate dal marito, questi venivano condannati e puniti per i reati delle mogli. Ancora oggi a parità di reato e condizioni gli uomini hanno pene più severe per lo stesso crimine: una pena il 63% più lunga e il doppio di possibilità di essere incarcerati quando condannati. Quando le donne non avevano congedi di maternità, gli uomini non avevano congedi di paternità e ancora adesso questi sono minuscoli. Quando il linguaggio era più orientato al maschile non facendo sentire rappresentate le donne, gli uomini venivano automaticamente invisibilizzati proprio da tale linguaggio: se morivano 5 uomini e 2 donne si diceva che vi erano stati ‘7 morti, tra cui 2 donne’; se un problema attaccava principalmente gli uomini era un problema ‘della gente’, se attaccava principalmente donne era un ‘problema delle donne’ o peggio ‘un problema di genere’. A questi problemi si sono aggiunti nel tempo quelli del collocamento dei figli dopo il divorzio e quello della dispersione scolastica maggiormente maschile.

Immediatamente ci si accorge che non si tratta di maschilisti reazionari o sprovveduti mal informati, categorie alle quali avremmo avuto pochissimo interesse a dare spazio e visibilità. I dati sono riportati da fonti attendibili e la prospettiva è comunque antisessista, ma questi fattori da soli non basterebbero; chi sono dunque questi MRA e per quale motivo dovremmo essere interessati a riflettere insieme e “contro” di loro? Chiariamo intanto che la nostra intenzione non è smontare punto per punto il ragionamento MRA, ma primariamente dare rilievo nella discussione a temi che spesso vengono trattati con superficialità e fretta quando invece meriterebbero approfondimento e calma; e, partendo da questo assunto, chiarire perché mettere al centro tali temi non costituisce in alcun modo l’impossibilità di mantenere un approccio femminista, contrariamente a quanto sostengono gli MRA.

Rispondiamo dunque alla prima domanda: chi sono questi “loro”?  

Alla base del ragionamento MRA sta una diversa analisi dell’origine dell’oppressione. Per dirla con un gioco di parole, l’oppressione non è più un’oppressione “di genere”, ovvero di un genere sull’altro, ma un’oppressione “del genere”, che forza a rispettare ruoli e stereotipi e che ha uguali ripercussioni negative sulle donne e sugli uomini. Questa oppressione non è né patriarcale, né maschilista, né ginocentrica, ma “bidirezionale”. Mentre il femminismo ha come termini chiave maschilismo e patriarcato, i punti fondamentali della critica MRA diventano bisessismo e il tradizionalismo. Per ogni questione femminile ne esiste una maschile uguale e complementare. L’argomentazione sottolinea come la codificazione dei ruoli di genere sia stata un processo culturale appoggiato da uomini e da donne in egual misura, e non una forma di oppressione unilaterale imposta dagli uni verso le altre. La tesi centrale è che non esiste e soprattutto non è mai esistito alcun patriarcato, alcuna oppressione sistematica del genere maschile sul genere femminile; questo perché storicamente il potere maschile formale sarebbe stato bilanciato da un potere femminile definito “informale”, ovvero un potere di fatto in grado di agire sulla società tanto quanto quello formale, se non addirittura di più. Spesso alle donne non era consentito accedere alle cariche ufficiali, riservate ai maschi, ma ciò non impediva loro di avere un’influenza decisiva sulla comunità. Oltretutto, dagli MRA parlare di oppressione unidirezionale viene ritenuto illogico, considerando quanto spesso l’uomo si trovi a fronteggiare problemi dovuti agli stereotipati ruoli di genere. Cogliamo quindi l’occasione per riflettere su alcune questioni che vengono poste in maniera relativamente originale. Quando viene messo l’accento su una serie di disagi che interessano una fetta di società a cui spesso viene negato anche solo il diritto ad avere problemi, figuriamoci protestare per risolverli, chi è chiamato in causa sente spontaneamente la volontà di attivarsi e se diamo per scontata la buona fede degli attivisti MRA li iscriviamo in questa categoria generica. Per questo motivo, almeno inizialmente, ci siamo interessati al loro punto di vista; i presupposti e le osservazioni sono gli stessi, ma le conclusioni tratte sono differenti.

Concordiamo tutti nell’affermare che i “problemi di genere” esistono; le donne pagano il prezzo di essere donne in alcune situazioni e gli uomini quello di essere uomini in altre. Evitando di rispondere a questa osservazione in termini quantitativi per stabilire chi paghi il prezzo più grave e fare a gara a chi è più oppresso, la domanda è: se gli svantaggi sono bilaterali è indiscutibilmente vero che la causa debba essere un ente generico e asessuato come la cultura o la tradizione? La risposta femminista (che poi è la nostra) è no, non è indiscutibilmente vero. Come tutte le forme di oppressione, il patriarcato ha l’incorreggibile difetto di essere una relazione fra esseri umani, e proprio in quanto relazione, porta con sé vantaggi e svantaggi per ambo le parti. Per portare il ragionamento all’estremo potremmo citare il caso dei ”re sacrificali”; in alcune culture, proprio in virtù della sua autorità massima, il re viene visto come il migliore dei sacrifici possibili da fare agli dei: in questo caso coincidono la figura di massimo potere sugli altri e la figura che maggiormente paga le conseguenze di questo potere. Per fare un esempio più banale; se abbiamo un servo che cucina per noi, questo da un certo punto di vista ci priverà della possibilità di imparare a cucinare. Dovremmo dunque concludere che il servo è responsabile per la nostra mancanza di competenza? Ancora una volta semplicemente la risposta è no. La conclusione è che oppressione non è mai sinonimo di vantaggio assoluto per l’oppressore. 

Il patriarcato esisteva come forma di strapotere e dominio maschile sulle donne (con buona pace del potere informale) e tutti gli svantaggi che gli uomini subiscono in quanto uomini possono essere visti come effetti del patriarcato stesso. Per fare un esempio che ci sta particolarmente a cuore, la mancanza di leggi sullo stupro maschile, e la loro inadeguatezza ed inefficienza oggi, non sono altro che inevitabili conseguenze del dover vedere l’uomo come sessualmente e fisicamente dominante, rendendo impensabile uno stupro “al contrario”. Oppure riprendendo la questione, già citata dai nostri amici MRA, dell’affidamento dei figli in caso di divorzio, questa può essere considerata diretta conseguenza dello stereotipo (che poi tanto stereotipo non è) che vede le donne relegate a svolgere i lavori di gestione della casa e della prole, e ancora una volta si rivela la complessità dell’oppressione patriarcale che rischia di far perdere il contatto con la realtà e confondere un danneggiato occasionale con l’oppressa strutturale.

Detto ciò sembra ragionevole non vedere il patriarcato come il frutto di una decisione cosciente di un gruppo che sceglie di dominarne un altro, ma d’altra parte quante volte l’oppressione di un gruppo su un altro inizia con una riunione nella “sala congressi dei gruppi oppressori”? Mai, ovviamente. Le oppressioni sono fenomeni molto più complessi, nel caso del patriarcato poi questo è quanto mai vero. La lotta allora non deve essere fatta agli uomini, che ovviamente non sono macchiati di un peccato originale per la loro sola appartenenza di genere. L’obiettivo critico deve essere (ed è, nel pensiero femminista) il dominio maschile e tutti i comportamenti a causa dei quali questo dominio patriarcale gode di buona salute tutt’oggi, talvolta semplicemente sotto forme nuove. I dati relativi alle disastrose conseguenze che esso provoca, sugli uomini come sulle donne, servono solo a sottolineare l’urgenza di combattere le forme che assume attualmente e delle quali spesso siamo, tutti e tutte, troppo poco coscienti. Non dobbiamo quindi avere paura di riflettere sui disagi tipicamente maschili in un’ottica femminista: dovremmo considerarla solo un’occasione in più per avere una presa di coscienza a trecentosessanta gradi dell’azione ancora tristemente potente del patriarcato sulle nostre vite.



Con i contributi di

A.C.
A.C.

Redattore

A.M.
A.M.

Redattore

Marziano Ravenna
Marziano Ravenna

Redattore

Elisabetta Pastorelli
Elisabetta Pastorelli

Redattrice

Salvatore Bianco
Salvatore Bianco

Redattore

Maria Franconi
Maria Franconi

Redattrice

Elena Parroccini
Elena Parroccini

Redattrice

Giuseppe Lanciano
Giuseppe Lanciano

Redattore