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Basta dire “Brava, Giovanna, brava” per scatenare l’ilarità di un gruppo di over 35. 

Questo ritornello nasce nel 2005 da una pubblicità dell’azienda produttrice di vernici Saratoga. Lo spot in questione è un esempio lampante di quello che viene definito male gaze, la cameriera Giovanna è l’emblema della visione della donna provocante vista dagli occhi di un uomo eterosessuale, mentre sua moglie è la donna angelica che rimane inerme davanti all’arroganza del marito. La problematizzazione di prodotti mediatici come questi nasce negli ultimi anni, all’interno del processo di lotta per l’uguaglianza di genere, in cui si è intensificato lo studio di come i generi vengono percepiti all’interno delle forme culturali.  Mettendo in conto la necessità artistica assoluta di prescrivere un punto di vista, sono state individuate due forme principali di sguardi artistici all’interno dei media, il male e il female gaze

Se già Sartre nel 1943 introduceva il termine regard, lo sguardo, per descrivere il modo in cui oggettifichiamo tutto ciò che percepiamo, solo nel 1975 viene usato il termine male gaze riferito ai media, per la prima volta, da Laura Mulvey per descrivere come la società patriarcale controllasse come venivano rappresentate le donne nei film. Per Mulvey la maggior parte dei film della Hollywood tradizionale servivano a soddisfare la scopophilia, cioè il piacere sessuale del maschio bianco eterosessuale di guardare la donna, che è “lo spettacolo”. 

Gli esempi sono molteplici e attraversano tutti i media, da Naomi in “The Wolf of Wall Street”, passando alle pubblicità di Belen Rodriguez in corso Buenos Aires a Milano che mandano in tilt gli incroci fino alle scelte di riprese di un porno.

Come ha detto Budd Boetticher, che ha diretto vari classici western negli anni ’50: «ciò che conta è ciò che l’eroina provoca, o meglio ciò che rappresenta. […] In se stessa la donna non ha la minima importanza». Per questo, il female gaze nasce come risposta e serve per descrivere un prodotto mediale in cui la donna è il soggetto che agisce, in opposizione chiara con la fissazione in cui viene solo guardata. Serie come “I Love Dick”, “Fleabag” o compagnie pubblicitarie come “The Luupe” sono state al centro di un nuovo modo di rendere i personaggi femminili nei vari media. 

Il genere di chi si occupa di creare il film, la pubblicità o il porno non è vincolante, lo sguardo che un regista uomo potrebbe applicare ad una sua opera potrebbe rientrare perfettamente all’interno del female gaze. 

Negli ultimi anni però queste analisi sembrano essere state inglobate dalle aziende che, sfruttando ideali di genere, tentano di vendere il loro prodotto.  Questo non fa altro che esacerbare i ruoli e creare immagini distorte di chi bisogna aspirare a essere, come scrive Naomi Wolf nel “Mito della Bellezza”: «Più donne hanno più denaro, potere, scopo e riconoscimento legale di quanto ne abbiamo mai avuto prima; ma in termini di come ci sentiamo fisicamente su noi stessi, potremmo effettivamente stare peggio delle nostre nonne non liberate».  Intanto l’inizio della consapevolezza, con l’analisi delle criticità della cultura egemone, ha portato alla definizione di altri sguardi, così sono stati introdotti al discorso l’imperial gaze, il white gaze e l’heterosexual gaze,  perchè l’inclusione di persone appartenenti a culture e gruppi sociali non dominanti nella produzione visiva può esercitare una potente forza politica. 

Cinema: una questione di sguardi

È impossibile quantificare quanto incidano le serie tv e i film sugli stereotipi di genere. La grande produzione seriale degli ultimi anni, i nuovi mezzi di fruizione, hanno reso il cinema e le serie televisive un prodotto di grande consumo, che spesso offrono terreni comuni di discussione o di riflessioni. Bisogna tenere conto che la narrazione può lanciare messaggi in maniera subdola, anche inconscia, senza il bisogno di comunicarli esplicitamente. In linea teorica, grazie al pensiero e all’azione di intellettuali che hanno teorizzato e applicato il female gaze, oggi dovremmo aver essere oltre questo concetto. Parlare di male e female gaze, infatti, è di per sé escludente per chi non si riconosce in questi due generi. Quello che resta da capire è se davvero abbiamo trovato un equilibrio o se invece il male gaze rimanga nascosto dietro l’angolo, pronto a tendere un agguato. 

Il cinema e le serie hanno a che fare con gli archetipi di Carl Jung. Si creano dei personaggi particolari, ma dietro un vestito di particolarità si cela una struttura, uno schema più generale. Nel momento in cui gli archetipi sono poco sviluppati, piatti e banali si possono creare degli stereotipi, quelli che in gergo sono chiamate “macchiette”. Gli stereotipi di genere in un prodotto culturale nascono nel momento in cui c’è una deliberata intenzione di divulgarli. Al contrario, vengono scardinati quando c’è la volontà di questionarli. Dalle gambe sempre scoperte, la scollatura in vista, tutto ciò che dipinge le donne come meri oggetti sessuali, alla donna che piange sempre, emotivamente fragile, si passa da stereotipi più o meno evidenti, ma rimane il tentativo di costringere la donna dentro un perimetro predefinito. Nel momento in cui nel processo di costruzione delle identità dei personaggi si inseriscono atteggiamenti standardizzanti della categoria, si aiuta ad avallare lo stereotipo. Come ad esempio:
Lui: aggressivo, dominante, logico, forte. 

Lei: fragile, prudente, capricciosa, nervosa. 

Lui: ambizioso e fiducioso. 

Lei: sentimentale e attraente. 

Il test di Bechdel, fondato dall’omonima fumettista, è un metodo utilizzato per valutare l’impatto di personaggi femminili nelle trame delle opere di finzione. Il test consiste nel verificare se un’opera contiene almeno due personaggi femminili che parlano tra loro di un qualsiasi argomento che non riguardi un uomo. Dietro il male gaze nei film c’è un sistema di editor, producer, sceneggiatori, registi, che approva e rema in quella particolare direzione. Non è colpa di Megan Fox se in “Transformer” mentre aggiusta le automobili assume una posa sensuale, ma di chi gliel’ha chiesto. 

Una motivazione per cui i personaggi della storia del cinema e delle serie abbiano spesso risentito dello sguardo maschile è perché nella produzione artistica del film o delle serie le donne non hanno ricevuto lo spazio giusto. Consultando dei dati forniti dal Sole 24 ore, le donne rappresentano «solo il 22% di tutti i registi che hanno girato almeno un film europeo tra il 2015 e il 2018». La questione è che il nostro sistema cinematografico italiano, compreso dei broadcast esteri che produce, è ancora fortemente di stampo maschilista. Le donne impiegate nei ruoli di sceneggiatrici, registe e produttrici sono poche rispetto ai colleghi uomini. Questo non dipende dal fatto che non ci siano talenti femminili, ma da una volontà o da un retaggio di assumere più uomini. Finché ci sarà disparità sul piano lavorativo, il male gaze sarà sempre in agguato, perché infondo che cos’è se non una discriminazione?

I personaggi femminili forti e tridimensionali, non a favore dell’uomo, sono sempre esistiti – basti pensare all’Antigone o Madame Bovary – anche in società profondamente patriarcali come quelle del passato, ma solo adesso inizia a intravedersi un equilibrio costante, anche se non del tutto raggiunto. A volte si confonde il ruolo che ha l’industria culturale nelle nostre esistenze e si tende a pensare che si assuma la responsabilità di cambiare la società o di guidare il progresso, mentre invece spesso ciò che fa è adattarsi a ciò che vende, a ciò che funziona, per creare profitto. È la società quindi, con la critica cinematografica, la possibilità di premiare con la propria scelta determinati prodotti e via dicendo, a decidere quali sguardi diventano posticci e non inclusivi. 

 Porno: un solo sguardo

«Il porno è un mondo visto da una sola prospettiva», dice Cindy Gallop, fondatrice della piattaforma Make Love Not Porn, durante un Ted Talk nel 2009. Gallop evidenzia come il problema principale della pornografia risieda nel suo essere, per la maggior parte, diretta e indirizzata a un pubblico maschile. Ciò comporta una serie di criticità nella rappresentazione dei corpi femminili e delle dinamiche che li coinvolgono, che non sono altro che il prodotto di una cultura patriarcale che viene esasperata a un livello quasi surreale. La criticità sta nel fatto che la pornografia si traduce, molto spesso, nel modo in cui “il sesso è”. In una società in cui la politica e le istituzioni ostacolano l’educazione sessuale nelle scuole e in cui i genitori evitano di parlare di certi argomenti, non resta altro che ricorrere a un’educazione sessuale fai-da-te. I fruitori di materiale pornografico sono quindi convinti che quello sia l’unico sesso possibile, riproducendone le dinamiche nella vita reale e adattandosi alle aspettative di genere che queste piattaforme promuovono. Il Porno a un Bivio in Scomodo n. 41 mostra come «nella pornografia contemporanea lo sbilanciamento di potere tra uomo e donna sia fortissimo: quest’ultima è oggettificata e relegata a un ruolo subordinato alla controparte maschile, costretta a veri e propri atti violenti. Le donne sono spesso legate, torturate, stuprate, molestate e umiliate, e la situazione degenera nel caso in cui la protagonista sia nera, poiché entrano in gioco anche le politiche razziste dell’industria pornografica». Il National Black Law Journal (2009) dell’università della California a Los Angeles (UCLA) mostra come il trattamento delle attrici nere sia qualitativamente diverso da quello rivolto alle colleghe bianche: mentre queste ultime presentano atteggiamenti accondiscendenti nei confronti dell’uomo, le prime calcano lo stereotipo della “donna dominatrice”. Caratterizzata da comportamenti talvolta animaleschi, la donna nera non fa altro che assecondare l’idea della supremazia bianca.  Ciò si traduce in atti sessuali degradanti, in cui le attrici sono coinvolte in situazioni di sottomissione, se non addirittura schiavitù, estremamente violenta che vengono vendute al pubblico come bondage, come fa notare Ariane Craze in The Color of Kink: Black Women, BDSM and Ponography (2016).

Un caso che merita maggiore attenzione è quello della pornografia lesbica che, secondo le statistiche del sito pornografico PornHub, rappresenta la ricerca più popolare sia per gli uomini che per le donne. Tali rappresentazioni furono inizialmente prodotte per gli uomini eterosessuali prima che la pornografia lesbica emergesse per le lesbiche stesse. Valerie Webber, ricercatrice specializzata in pornografia e salute sessuale, critica la mancanza di autenticità delle rappresentazioni della sessualità nella pornografia lesbica, soprattutto perchè questi video includono quasi sempre scene di penetrazione con dildo, mentre gli studi hanno dimostrato che le lesbiche usano raramente giocattoli sessuali. Ciò non fa che confermare che la maggior parte dei rapporti lesbici, non solo nella pornografia ma nell’industria audiovisiva in generale, non fanno altro che ricalcare una fantasia creata dagli uomini che è ormai diventata lo standard. Se la pornografia di largo pubblico ha creato un linguaggio che promuove un determinato modello di mascolinità e femminilità, nel corso del tempo sono nate alternative narrative con l’obiettivo di decostruire tali rappresentazioni.  Da una parte troviamo il femminismo anti-porno, per certi versi vicino al femminismo antisex, che condanna i codici della pornografia nel suo complesso; dall’altra il post porno, che ha come intento la messa in discussione dello sguardo dominante e la sovversione della pornografia convenzionale attraverso il coinvolgimento di persone trans, intersessuali e i corpi non conformi. 

Un’altra prospettiva è data da quello che viene definito come porno etico, il quale ha come obiettivo principale l’educazione del pubblico a una sessualità vissuta in modo aperto e consapevole.  La piattaforma Bellesa è un fulgido esempio di questo nuovo approccio. Fondata nel 2017 da Michelle Shnaidman, l’azienda si fa promotrice di una pornografia creata dalle donne per le donne. In questo modo il piacere femminile diventa, finalmente, protagonista.

Dall’essere guardate al potere di guardare: come uscire dalle dinamiche di potere del gaze? 

In risposta al male gaze imperante  si oppone il concetto di female gaze. Si tratta di più di un semplice “scambio di ruoli”, arrivando all’oggettivazione del corpo maschile da parte del genere femminile. Tale pensiero potrebbe essere considerato valido pensando, ad esempio, al fenomeno della soft masculinity in Cina (ormai diffuso in tutto il globo), conseguenza della Korean Wave, ossia della crescente popolarità della cultura pop sudcoreana, da cui deriva anche l’espressione “flower boy”.

Questo fenomeno da una parte implica una rottura degli stereotipi patriarcali di  individui “machi” di cui si romanticizza l’atteggiamento violento (si vedano i personaggi di Edward e Jacob in Twilight, progettati comunque per un pubblico femminile) sostituiti da un’idea di uomo caratterizzato da una presenza fisica aggraziata e da un’estetica androgina, che permette anche all’uomo cis di esprimersi in modi precedentemente considerati come il terreno degli uomini queer, ma non trascende l’oggettivazione delle donne per il visual pleasure, e inoltre ha portato – in Cina –  alla nascita di una vera e propria cultura di “consumo” di uomini sessualizzati (in cinese nan se xiao fei) soprattutto nell’industria pubblicitaria (questi ragazzi vengono addirittura soprannominati little fresh meat).

Pertanto, merita particolare attenzione la definizione di female gaze che Joey Soloway, regista, riporta in una sua masterclass del 2016 . La definizione risulta divisa in tre parti, che coincidono anche con gli scopi per raggiungere il female gaze. La prima è riappropriarsi del corpo utilizzandolo come strumento con l’intento di comunicare un sentimento visibile, ponendo in primo piano le emozioni. Solo proponendo un nuovo modo di sentire e di vedere, un nuovo modo di percepire il mondo, sarà possibile darvi una prospettiva femminile. È per questo che bisogna mostrare cosa significa essere oggetto del male gaze, per cui viene messo in luce quello che Soloway definisce  gazed gaze, descritto come «cosa si prova a essere guardati». Il processo restituisce lo sguardo “puro”; una piena consapevolezza da cui deriva il desiderio di ribaltare lo schema e divenire soggetti.

Il female gaze risulta così  un modo di fare arte che esige giustizia socio-politica. Lo sguardo femminile è uno sforzo consapevole per creare empatia come strumento politico, va al di là del banale punto di vista, è rompere la macchina da presa, porsi accanto al pubblico. È cambiare il modo in cui il mondo si sente e reagisce quando le donne muovono il proprio corpo, cosicché esse possano sentirsi finalmente un soggetto consapevole all’interno di esso, in una condizione che va al di là delle dinamiche di potere dello sguardo: non più guardare o essere guardati, ma esistere.

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