Una cosa divertente che (forse) non farò mai più

A Milano, l’ultimo weekend di maggio, si è tenuta la diciassettesima edizione del MiAmi. Il festival – organizzato da Rockit a partire dal 2005 – si è svolto all'Idroscalo. In questa edizione ha ospitato ben sei palchi, animati da artisti italiani scelti tramite un'attenta selezione musical-culturale. Abbiamo deciso di mandare uno dei nostri redattori all’evento: tra death wall, una caccia al tesoro, birre e tanta musica, questo è il suo racconto.

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Appoggio la testa al sedile, alzo il volume dell’autoradio e accendo una sigaretta. Clacson impazziti tentano invano di accelerare la velocità media che al momento si aggira intorno ai 5 chilometri orari. Indosso il mio cappello largo per proteggermi dal sole e il braccio sinistro penzola molle dal finestrino. Con un’ora di ritardo rispetto al previsto, arrivo davanti al parcheggio. Il parcheggiatore non parla, urla, ma risponde a tutte le domande che gli faccio. Gli mollo cinque euro e fermo il furgone sotto un albero poco più avanti. 

Tra le macchine parcheggiate non sento molte voci. Butto un occhio nella dinette del van: una bottiglia di Campari piena per metà e dell’acqua gassata calda. 

Mi avvio verso l’evento con il drink in mano. Scruto l’ingresso non molto lontano e le persone in coda. Chiacchierano, sbevacchiano da lattine di bassa qualità, alcuni ballano sul posto. I buttafuori si limitano a farmi finire il drink e ad augurarmi una buona serata. Sorrido e faccio altrettanto. 

Sono in uno splendido parco le cui energie emanate mi ricordano quelle del parchetto del mio paese che, alla campanella dell’ultima ora dell’ultimo giorno di scuola, si riempiva di studenti allegri come cavallette. 

Bagni chimici alla mia destra, un primo palco alla mia sinistra e sopra la mia testa un arco. La scritta grossa ma non imponente ricorda a chiunque il nome del festival che per i prossimi tre giorni occuperà il Circolo Magnolia dell’Idroscalo di Milano. MI AMI. Organizzato da Rockit.it, il cui pleonasmo mi turba, MI AMI sta per Musica Importante A Milano. Mì à mì dunque, piuttosto che mì àmi

Esco dal gabinetto e molleggio le gambe verso il primo palco, scelto a caso, accompagnato da una canzone degli Skiantos che suona dalle casse per colmare i momenti morti. Ancora canticchio Sono un ribelle mamma, da solo, quando sale sullo stage sponsorizzato da Sephora un ragazzino vestito di nero seguito da un paio di altri ragazzi armati di strumenti musicali. Il tono è molto verso il pop ma con una strizzata d’occhio al post-punk. Il cantante ridacchia tra una canzone e l’altra, ringrazia in continuazione, saluta Milano accolto dalle grida della piccola folla che nel frattempo si è radunata dalle transenne. Non mi entusiasma, ma non è male. Poi chiama il death wall. Mi posiziono in prima fila, vibrando sul posto. Guardo le altre persone: caricano i piedi nel fango e si sorreggono a vicenda con le braccia larghe. Sistemo il berretto, il ragazzo dà il via. In mezzo ci si spintona ma nessuno cade in terra. Un pogo mite che comunque mi ha rovinato i jeans. Esco annuendo con la testa, divertito. 

Uso il braccialetto dotato di QR code che mi hanno dato all’ingresso per pagare nove euro di hot-dog. Il tavolo su cui mi appoggio è il classico arancione da fiera di paese, che non ha mai deluso. Ne conto una cinquantina, danno su un piccolo palco da cui una tizia sta suonando musica techno. Si tratta dell’Engine Arena, la piccola area sponsorizzata dalla marca di gin in cui si esibiscono, nel corso delle tre serate, i dj meno commerciabili. È  forse l’unica zona del festival in cui non devi spiaccicare il tuo sudore contro quello di qualcun altro per muoverti di qualche metro. Consigliatissima per decompressare. 

Ordino una media per sei euro. Un bicchierone di plastica, opaco, bagnaticcio e traboccante di birra senza schiuma, mi viene passato dal bancone di uno dei chioschetti da un ragazzo che sorride. Faccio sapere a tutti che ho finito il primo sorso emettendo un forte verso di soddisfazione e arrivo al palco Dr. Martens. A naso mi pare il più grosso. Sale sul palco artista-generico-con-un-certo-seguito e, in effetti, lo spazio a terra si colma di gente. Si canta, parte qualche coro, qualcuno accenna un pogo. L’artista finisce l’ultima canzone e se ne va. Come lui, i presenti si voltano e si dileguano in tutte le direzioni. Nessun pezzo cantato a cappella dal pubblico, nessun se non metti l’ultima noi non ce ne andiamo. Finisce il concerto, bisogna rimanere nei tempi previsti dal programma. Tra molto poco si esibisce il prossimo artista.

Avvicinandomi alla zona successiva, quella sponsorizzata da Idealista, mi rendo conto di che tipo di realtà sia quella che mi circonda in questo momento. Ogni palco è chiamato come il brand che sponsorizza. Le bancarelle e le attività proposte sono a loro volta intitolate alle aziende che hanno pagato, spesso le stesse dei palchi. È come se un’emittente radio si fosse materializzata. C’è un palinsesto, le pubblicità, delle tempistiche da seguire con rigore, tutto è piuttosto autoreferenziale. Siamo in un grosso prato protetto da alberi, ma non si terrà nessun free party o rave clandestino. E, guardando i presenti, sembra che tutti siano consapevoli di questa cosa. I ragazzi e le ragazze che mi circondano hanno uno sguardo per lo più sobrio, incollato a visi lisci, senza scavature o rughe, dalle barbe, quando presenti, curate. Molti hanno la faccia decorata da brillantini, trucco messo a disposizione dalla bancarella di Sephora, una delle attività proposte. Questi giovanissimi sono qua per un motivo ben preciso: hanno un programma che seguiranno permettendo a pochi imprevisti di cambiare il corso dei loro eventi. Si beve, ma non troppo. Storia Instagram durante il concerto, quindi non spintonare che viene mossa. 

Passano le ore e più avanza il palinsesto, più il parco si riempie di persone. A centinaia, ovunque, gli spazi in cui poter camminare senza doversi incastrare tra altri corpi sono sempre meno. Mi ritrovo nella zona cibo. Dietro di me, in un punto che alla luce del sole era vuoto, un tizio senza la maglietta ripete la parola “cacciucco” in un microfono, mentre una base techno minimal continua in loop. Al suo fianco una ragazza si muove come solo sotto le migliori sostanze riesci a fare. È il Twinkly Stage. Controllo il programma. Questo dj, chiunque sia, è l’unico artista che suonerà per tre ore di fila, per poi riprendere dopo una pausa di due. La parola cacciucco continua a essere ripetuta da venti minuti buoni ormai, mentre la base si arricchisce di suoni e melodie. Mi piazzo sotto cassa, accendo una sigaretta, agito la testa. La ragazza al suo fianco è fuori di testa. Finge di litigare con le luci del palco, scende in mezzo alla folla creando un cerchio in cui si tiene una gara di ballo improvvisata e demenziale, salta come una cavalletta. Dopo una quantità di tempo che non saprei determinare, mi avvio verso l’unico palco sotto il quale ancora non ho ballato. 

MI FAI è il nome della zona in cui non ho ancora avuto modo di vedere nessun artista esibirsi. Esiste da quando esiste il festival, ma solo dal 2016 ha un suo palco ufficiale. Per i primi anni il MI FAI è stato pensato come una zona del festival dedicata a illustratori e fumettisti. In seguito hanno integrato musica dal vivo alle performance live dei disegnatori. Questo, almeno, quanto sapevo. Sopra il palco, davanti al quale hanno montato la zona chill munita di sdraio, un grosso schermo mostra il video di una mano che disegna. Belle immagini, ma non corrisponde appieno alla mia definizione di “performance live”. Ma è probabile che mi sia perso qualcosa io. Ho scoperto a priori che, lungo tutta la durata del festival, era prevista una caccia al tesoro. Non ho altri dettagli a riguardo perché, appunto, non avevo afferrato niente. Scoprendolo dopo non ho approfondito. Ormai era finita.

La musica del MI FAI è molto carina, perfetta per l’orario inoltrato che ci ha raggiunto. Non resisto al magnetismo delle sdraio e riposo schiena e gambe per qualche decina di minuti. 

Apro gli occhi e se va bene è passata un’ora. Mi alzo e faccio un giro per il parco, cercando di capire a che punto della serata siamo. I miei passi sono amplificati dal rumore di plastica che si infrange. In terra è pieno di bicchieri vuoti per lo più disintegrati, aperti a fiore. Due ragazzi con pettorina già si sono mobilitati per ripulire. 

Proseguo. Le famiglie con i bambini non ci sono più. Chi ha ancora voce per cantare è sotto il palco di Idealista, dove si tiene l’ultimo concertone della giornata. Gli altri, come me, sono divisi tra l’Engine e il tizio del cacciucco, che sorride e agita i capelli lunghi come se fosse appena arrivato. 

Non me ne rendo conto che sono le tre e mezza. Non c’è quasi più nessuno. I rimasti sono radunati nei punti in cui qualcuno ancora sta suonando. Ragazzi e ragazze vestiti con una pettorina gialla camminano gobbi raccogliendo la sporcizia da terra. È finita, inutile fermarsi fino a chiusura effettiva. Mi avvio verso il furgone.

Trovo un posto dove passare la notte a dieci minuti di distanza dal parco. Allungo il Campari rimasto con dell’acqua del rubinetto e osservo la distesa di prati da cui sbucano, come giganteschi fiori, prefabbricati industriali e capannoni. Il MI AMI si sarebbe svolto per altri due giorni, più o meno nelle stesse modalità e tempistiche. Sold out il sabato sera, ma per il resto molto simile. Rifletto sul festival. Provo a chiedermi per quale tipo di persona sia pensato, quale sia il suo frequentatore medio, quali sono le differenze principali tra questa e le edizioni passate. Ma in fin dei conti ho passato delle serate piacevoli, ho scoperto artisti nuovi. È stato divertente. Ancora devo decidere se lo rifarei. La prossima volta, forse, faccio la scorta di Campari nel van.

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