Mercato dell’arte

Un’indagine sul valore dell’arte contemporanea

Qual è il reale valore dell’arte contemporanea? Cerchiamo la risposta nelle dinamiche del suo mercato, affrontandone l’aspetto più puramente economico e quello più storico artistico, approfondendo le contraddittorietà e i paradossi che compongono questo fenomeno, al quale guardiamo come sintomo culturale, cercando di non farci trarre in inganno dal modo in cui, nella contemporaneità, le immagini vengono veicolate. Alla luce della complessità del tema, che ancora crea dibattito, e dell’intervista rilasciataci da Edoardo Marcenaro, collezionista e curatore, questo focus non si propone di mettere un punto alla questione, ma vuole essere innanzitutto un punto d’inizio, un pretesto di riflessione, uno spunto per delineare un’opinione che si basa sull’informazione ma che conserva la sua matrice soggettiva.

Il mercato dell'arte: un incontro preliminare

Abbiamo assistito all’inaugurazione della mostra “Art is Money, Money is Art”, galleria Rosso20sette arte contemporanea (Via del Sudario 39), per prendere in analisi un soggetto interessante: l’esposizione di opere d’arte per lo più street (autori come Banksy e Solo, Dface e Diamond) accostate dallo stesso supporto, la banconota da un dollaro, a nomi di grande influenza culturale come Warhol, Beuys, Pistoletto e Haring. 

Come introdotto da Giorgio De Finis nella presentazione, scopo della mostra non è quello di rivelare un divertissement da collezionista. La prima tendenza nella mentalità dell’artista è quella qui mostrata: la fuga dal mondo della finanza, micro o macroeconomica che sia, con la sua eseguita iconoclastia, ironica in alcuni punti, feroce in altri. Ma proprio quest’iconoclastia si riaccartoccia, come alcune banconote alla mostra esposte, seguendo nuovamente un altro percorso: dimostrare che l’estetica del dollaro, ricordando le parole di Warhol, è un’opera d’arte già di per sé. Sfruttare tale occasione artistica per farla propria, come un pittore ruba l’occasione paesaggistica che si trova davanti, riesce poi a celebrare l’esistenza storica, magnifica della finanza stessa, dello sviluppo economico e dei grandi cambiamenti di stime e valori produttivi.

Di nuovo ci si affaccia ad un discorso viscerale: per un’arte disfunzionale o per un’arte celebrativa? Ma in fondo l’obiettivo era quello idiomatico del prescindere dal soggetto, ironicamente collegato con l’idea di mercato, e di vedere cosa c’è dietro la singola banconota appesa, come sia possibile che un dollaro sia salito ad un valore che superasse le diecimila unità.

Sebbene di fondo esistano molti altri artisti che basano la propria visione su questo ambiguo e inafferrabile rapporto arte – mercato, nomi come Dalì, Cattelan e Koons, la mostra riusciva a includere perfettamente il discorso qui introdotto, attraverso opere per molti versi interessanti nella loro inconsapevolezza d’esserlo. La considerazione più ovvia è che il mercato lo ritiene di esserlo, inconsapevole ma corretto, sensato ma pronto al profitto. Eppure la campagna che ci veniva mostrata, l’accoppiamento di cui si è parlato all’inizio, rimane così positiva, che è sembrato di contropiede trovare delle soluzioni ad un futuro mercato in evoluzione.

 

Giorni a seguire abbiamo incontrato Edoardo Marcenaro, collezionista e curatore della mostra, insieme al gallerista, con cui abbiamo avuto una conversazione lucida e calzante.

L’obiettivo era semplice e diretto: individuare al meglio le dinamiche di questa araba fenice, il mercato dell’arte italiano.

Come ti sei avvicinato al mondo dell'arte?

Lavoro come avvocato interno in una multinazionale, mi occupo infatti contratti internazionali. Materia distante dal mondo artistico, che è la mia valvola di sfogo: chiaramente un lavoro che include negoziare, litigare, stare attenti a cosa si dice fa sì che quando trovo davanti un mondo all’insegna della libertà e del divertimento mi ci trovo per l’appunto più d’accordo. 

Ho cominciato dai poster dei Rolling Stones e dei Talking Heads, che col tempo, vero punto d’inizio del mio avvicinamento all’arte moderna, sono diventati poster di Hopper e Wesselmann.

Nel 1999 ho cominciato a ricevere opere uniche, come quadri ad esempio, e da lì sono diventato collezionista.

L'inizio è stato passivo quindi, valorizzando poi col tempo le proprie opere

Sì, partendo dal presupposto che mi sembrava folle spendere certe cifre per delle opere d’arte. Il passaggio dell’artista, per noi di Milano, dei Navigli alla galleria d’arte, con curriculum e un diverso approccio, mi ha sempre fatto esclamare “Voi siete matti!”. Da lì in modo graduale ho cambiato idea. L’abitudine nel costituire un tesoretto anno per anno però non mi ha portato a voler creare un’industria: quello che raccomando infatti è di non collegare mai l’arte all’investimento. Compro Diamond, Solo e Paloscia e penso che sia un investimento: questo per me è sbagliato.

Quello che conta in primis è l’estetica. Se odi Donald Trump, ti metti un quadro che lo distrugge davanti al letto e ogni mattina ti alzi e vedi Trump. Adesso ho l’obiettivo di presentare un’arte più accessibile: al di là del multiplo di Warhol, lo rifiuterei in confronto ad un’opera di strada, fusa di un valore dinamico e vivo nel tempo. In particolar modo con gli artisti viventi, stabilire dei rapporti umani fa parte del progetto artistico che mi presentano e di cui faccio il curatore.

Il passaggio di scenario, verso le opere d'arte più street e appartenenti ad un registro più umile, è significativo. Specialmente qui, al centro di Roma, vedere queste banconote rese opere d'arte è ironico ma d'impatto, fa riflettere al meglio sul vero significato delle opere

Io e gli altri collezionisti abbiamo voluto lanciare proprio questo messaggio, citando l’“affordable affair”, il messaggio dell’arte per tutti e da tutti. Un aneddoto suntivo di tutta la mostra può essere quello warholiano: negli anni 60 e 70 Warhol, dopo aver dichiarato che il dollaro era la moneta più bella del mondo, ad ogni suo party nella Factory firmava col suo nome decine di biglietti da un dollaro. In questo modo ponendoci sopra il proprio nome ne aumentava inevitabilmente il valore. La distribuzione però era talmente vasta che l’opera d’arte aveva il suo messaggio proprio in questo.

Cosa spinge l'investitore o il collezionista medio a proiettarsi nel mercato dell'arte? Come trova dei giusti criteri di valore?

Il valore è determinato sempre da una forma mancante di investimento medio, in ogni caso. La spinta molto spesso nell’investire nel mercato artistico è dovuta al fatto che è una via di mezzo tra quello dei piccoli investimenti mobili e quello dei grandi investimenti immobili. Ciò non significa che non sia pieno di rischi anche questo mercato. C’è una bellissima descrizione in “Oggetti di bellezza” di Steve Martin, attore e artista americano, dove descrive che una persona si innamora di qualcosa per un motivo estetico o economico e poi, dopo averla acquisita, torna a casa e dice “Cos’ho fatto?”. Questo è un estremo, poi c’è il rovescio, come il fatto che in America siano nati dei fondi d’investimento che utilizzano l’opera d’arte come se fosse un pacchetto d’azioni di Amazon. Io non li condivido entrambi. Quello che conta è il criterio di mezzo, senza sbilanciarsi.

Parliamo di memorabilia, le opere d'arte non intese come tali dallo stesso artista: crede che il loro inserimento nel mercato abbia mozzato le gambe al mercato stesso?

Ritorniamo a Warhol: quel singolo invito su dollaro posso trovarlo nelle aste che conosco anche a  cinquecento euro. Un po’ troppo per un opera d’arte così volutamente “serializzata”. Dipende sempre dalla galleria, se ne trovi una onesta stai sulla giusta strada. Ci sono dei criteri, ma non concernono la mia professione: i parametri in gioco sono stabiliti dai galleristi. 

Difficile è operare una denuncia in questi casi: Banksy e artisti simili hanno già sul mercato migliaia di non-opere pronte per le aste online. Contenere il fenomeno è come osservare un gatto che si morde la coda e provare a fare qualcosa. Anche un singolo disegno può essere riproposto sul mercato, fatto su un calendario o su un tovagliolo di carta. Devi importi di non comprare certe cose, mi autodisciplino in questo modo. Anche se dovessero offrirmi un bozzetto di una certa importanza a diecimila euro, ringrazio e lascio perdere. Pensa al paragone americano, lì nasce proprio l’autografo. Ci sono dei negozi in cui li vendono, dove a seconda del tipo costano anche di più. Un autografo sbiadito costa meno di uno sopra una foto scattata sul posto, meno ancora rispetto a quello sulle mutande di Uma Thurman.

Ma anche la prima edizione di un libro di Foster Wallace firmata dall’autore rimane un libro, alla fine della fiera.

La pop culture sta rinascendo. Ad esempio molti artisti musicali pongono delle proprie opere d'arte, come Kanye West, al centro della scena. Un esempio sono le sue scarpe Yeezy, volutamente provocatorie perché dotate sia di lacci che di feltro strappabile. Cosa significa per il mercato l'avvento di questa accessibilità artistica così immediata e dirompente?

Rimanendo nel confine di un minimo di criterio per giudicare l’opera, lo scenario è perlopiù positivo. Dipende tutto dal fatto che riceviamo così tanti stimoli confusi nel corso della giornata, che nel riuscire a riorganizzarli si partorisce sicuramente un’idea, anche due. L’input ormai è al secondo: se mi addormento e rifletto al numero di stimoli ricevuti, pensa se fossi artista a quante idee potrei tirare fuori. Sta al mercato sempre a trovare il vero valore, però più andiamo avanti e più la scena sta diventando interessante e difficile da giudicare. La visione per il futuro e  per questo presente immanente non è assolutamente negativa, bisogna solo mantenere la giusta dimensione estetica.

 

Alla fine di una lunga discussione sulle opere esposte, l’incontro si è sintetizzato per punti chiari e concisi. Il mercato dell’arte è una struttura sorretta da galleristi e collezionisti, dove dentro gli artisti tengono i propri artifici. Il gioco finanziario si vede a volte sbilanciato verso il lato finanziario, quello dell’investimento sicuro, a volte verso quello della mostra in questione, più dedita ad un discorso di natura teorico-artistica. Il cliente non trova però grandi vie d’uscita se non incontra l’artista per una comprensione più approfondita dell’opera o se non riesce ad accettare il valore proposto in vetrina. La proposta più efficace, emersa dall’intervista, è quella di strutturare una mostra, unire opere distanti nel tempo e nello spazio con un unico filo conduttore. Il confronto tra l’opera e la sua limitrofa in questo modo accentuerà la ricerca nell’individuare l’estetica che si rifà più a noi osservatori. Tra i due estremi citati del cliente investitore, quello che realmente prevarrà sarà proprio quest’estetica, che dovrà combaciare o ampliare quella del visitatore.

Comprami, io sono in vendita

Panoramica sulla valutazione di un’opera d’arte

Nel Diciannovesimo secolo l’artista, uomo d’affari e filosofo politico William Morris scrisse che le persone avrebbero dovuto seguire un’unica regola aurea nella loro intera esistenza: “non abbiate nulla nelle vostre case che non reputiate utile o non crediate sia bello”. Si può ancora affermare la netta predominanza della matrice estetica quando si acquista un’opera d’arte? 

Il mercato dell’arte è un’industria fiorente ed in continua espansione, la cui ragione di vita e scopo fondativo è di attrarre il maggior numero possibile di acquirenti, anche a costo di diventare low-budget: l’11% delle opere battute all’asta nel 2017 aveva un valore massimo di mille dollari, il 20% è stato battuto tra i mille e i cinquemila, mentre la restante maggioranza oscillava tra i cinquemila e i cinquantamila dollari. Le nazioni protagoniste della gran parte delle transazioni artistiche si sono riconfermate Stati Uniti, Cina e Gran Bretagna, detenendo l’83% dei 63,7 miliardi di dollari delle vendite di settore (fonte: UBS, ‘The Art Market 2018’). Ma come vengono impiegate queste cifre esorbitanti? Chi stabilisce cosa è degno di essere considerato arte, nonché il suo valore commerciale?

Partendo dal presupposto assiomatico che l’Arte è e deve essere esteticamente appagante, quest’ultima deve tuttavia essere considerata come comunione “col conoscitivo e con l’etico […] entro l’unità della cultura” e ricondotta “sulla via maestra dell’unitaria cultura umana” (cfr. Bachtin, ‘Estetica’). Per questo motivo, essendo una definizione tanto esaustiva quanto criptica e astratta, non si pretende che il fruitore e/o l’eventuale compratore indovinino o imbocchino la retta via, e dunque ci si avvale di pareri esterni autorevoli, come la figura del critico d’arte o del gallerista, auspicabili degni conoscitori degli spesso oscuri meccanismi della valutazione di un elaborato artistico.

L’arte è la risorsa “scarsa” per eccellenza, puntando tutto il suo intrinseco valore nella non riproducibilità e nell’originalità dell’intuizione: Baumol e Bowen, nel 1966, teorizzavano appunto la non progressività del settore culturale, essendo quest’ultimo “affetto” da scarsi rendimenti di scala e mancanza di economie dei costi. Il valore di un’opera d’arte è storicamente attribuito dal mercato, inteso come spontaneo incontro delle soddisfazioni estetiche, speculative e artistiche di domanda e offerta, dai pari e dagli esperti, il cui inappellabile giudizio ha fatto, dall’Impressionismo ad oggi, il bello ed il cattivo tempo per un artista (cfr. Wijnberg-Gemser, ‘Groups, Experts and Innovation: the selection System of Modern Visual Art). Questi personaggi agiscono secondo dei criteri, che costituiscono una sorta di canovaccio per quanto riguarda la fluttuante valutazione monetaria di un’opera, in quanto non esistono regole ben consolidate alla base della sua valutazione: è necessario considerare fattori storico-artistici come la tecnica, il contenuto, le dimensioni e l’epoca dell’opera, ma anche requisiti più marcatamente personali dell’artista tra i quali si annoverano la liquidità (se bassa o elevata), l’interpretazione più o meno ostica del suo elaborato o se si tratta di un capo scuola piuttosto che di un continuatore. 

Dal punto di vista economico, invece, si considera esclusivamente la domanda di opere d’arte e la loro offerta. A tutti è ben nota la coesistenza di “filosofia”, divertimento e passatempo all’interno della domanda, ma spesso e volentieri viene fatta sparire dietro una generica facciata “culturale”, dando per scontato che il mero consumo di un prodotto artistico sia “culturale”. L’efficienza riguarda esclusivamente l’appagamento di questa domanda aggregata. In sostanza, l’economista si occupa d’arte perché dietro la speculazione filosofica c’è un fenomeno di consumo di massa che la natura conoscitiva dell’arte strappa all’effimero e dotata di rilevanti effetti collettivi di benessere. Ed è proprio qui che subentra il ruolo della “moda”, con un meccanismo decisamente scontato: più persone lo vogliono, più il prezzo aumenta. Esattamente grazie a ciò si arriva a poter vedere Jean-Michel Basquiat fatturare 313 milioni di dollari e superare la soglia dei 100 milioni dalla vendita di una singola opera d’arte, che il compratore originario acquistò nel 1984 a circa 5300 volte in meno del valore a cui l’ha rivenduta. 

In conclusione, ai posteri l’ardua sentenza: giusto o sbagliato che sia, se per moda o per genuino interesse non è compito di nessuno tranne che dell’acquirente stabilirlo. Critici d’arte, curatori, economisti sono semplicemente delle pedine nella scacchiera del mercato dell’arte, in cui a dettare legge è (come del resto per tutto) il compratore.

Quale storia dell’arte per un’arte contemporanea?

Conoscere un percorso storico dell’arte può sembrare un problema banale. Basta aprire il manuale del liceo e troviamo cronologicamente esposte tutte le correnti, almeno quelle occidentali, che inanellate una dopo l’altra ci raccontano lo sviluppo di forme e contenuti con cui l’umanità ha scelto di rappresentarsi. Costruire questa narrazione, in rapporto alla storia degli uomini, è invece una questione assai più complessa, che cerca di coniugare un concetto astratto come l’arte ad una produzione materiale di opere, frutto di gusto personale ed eventi passati. Una narrazione infatti è qualcosa che avviene sempre a posteriori, dopo i fatti, analizzando le cause e gli effetti, e per quanto riguarda l’arte ha un inizio riconosciuto, anche se ancora in una forma embrionale e superata. Si tratta delle “Vite” di Giorgio Vasari, apparso per la prima volta nel 1550. Qui il Vasari, anche lui artista, miscelando riferimenti biografici, descrizione delle opere, argomenti tecnici e una dottrina sullo sviluppo dello stile fornisce il primo racconto sull’arte, quindi una storia dell’arte che per definizione è il tentativo di costruire il corso della vicenda artistica. Fino alle Avanguardie artistiche del Novecento, primo momento di crisi, riconoscersi in uno sviluppo storico per gli artisti è stato naturale, al di là della concezione che si è voluta dare a tale storia: talvolta ciclica, con un ritorno periodico del classicismo e del suo superamento, talvolta lineare, con un continuo sviluppo teso al futuro. Un processo razionale e teleologico era portato avanti dagli artisti e descritto dagli storiografi. Oggi invece gli artisti tendono a non voler più essere riconosciuti in questo processo evolutivo. Non esiste forse più una storia dell’arte, accademica, in cui riconoscerci e che segni il percorso da seguire o dal quale allontanarsi, ma senza poterne mai prescindere. Esistono invece tante storie dell’arte. Narrazioni personali, legate anche al modo in cui si produce e a ciò che si produce, se è vero che una volta che cambia il mezzo è esso stesso a veicolare le forme dell’associazione e dell’azione umana. È forse finita quindi la storia dell’arte come l’abbiamo sempre conosciuta e studiata? Una storia che attraverso il racconto del veicolo della rappresentazione, l’opera, forniva un servizio al critico per poter elaborare la sua interpretazione, e collocarla là dove nel processo storico assumesse più significato. Ma di quali rappresentazioni e quindi di quali opere parliamo oggi? Di un’arte sempre più concettuale. Se prima la rappresentazione era frutto del lavoro dell’artista, in uno sviluppo storico, in cui il critico si inseriva per rappresentare a sua volta verbalmente tale opera, oggi questo non è più così possibile perché il campo della critica è invaso da quello dell’artista, che progetta già una critica di sé stesso. L’opera è sempre più simile ad una sola interpretazione, un discorso che necessita riferimenti e collegamenti, una coerenza che solo lo stesso artista può dare. Stanno cambiano i ruoli, la tradizione canonica in cui si inserivano l’artista il critico e lo storico. E sta cambiando anche la storia dell’arte, che ha bisogno di subire una trasformazione. Le opere non sono più testimonianza di un più generale sistema di rappresentazioni, una storia dell’arte unitaria, ma singoli eventi, ognuno con la propria personale verità.

Quanto vale un’idea?

Allontanandosi dal figurativismo, o comunque limitando la necessità di un’abilità artigianale (fino -talvolta- a escuderla dal processo creativo), l’arte contemporanea spalanca le porte allo scetticismo, ed è subito un levarsi di “ma che è sta roba? potevo farlo pure io”.

E se la realizzazione pratica dell’opera è accessibile a chiunque, questa che senso può avere? L’instancabile dibattito sul valore dell’opera d’arte nasce dall’incapacità di definire il valore dell’idea dietro la sua realizzazione pratica, dal momento in cui questa cessa di basarsi sulla perfezione tecnica. 

 

Il contemporaneo, da un certo momento in poi, ha smesso di considerare l’arte imitazione del vero: non c’è più necessità di sviluppare abilità tecniche per la realizzazione artigianale di uno studio della realtà. 

Questo, certo, ha inizio anche a causa dello sviluppo di mezzi tecnici che rendono la resa realistica dell’opera non più necessaria; sto parlando, anzitutto, della fotografia. Come sappiamo, è proprio la fotografia a spingere i pittori impressionisti a staccarsi dall’imitazione della realtà, per cercarne l’impressione. Ma c’è da dire che nessuno potrebbe mai dubitare del valore di un Monet, né tantomeno della legittimità della sua presenza (e di quella di qualunque altro impressionista) all’interno dell’istituzione museale. Non è quindi spiegabile con il solo sviluppo tecnologico la radicale virata verso l’astrattismo ma soprattutto verso il concettualismo. 

 

“L’arte ha avuto un principio, può avere una fine storica. Come sono finite le mitologie pagane, l’alchimia, il feudalesimo, l’artigianato, così può finire l’arte. Ma al paganesimo è succeduto il cristianesimo, all’alchimia la scienza, al feudalesimo le monarchie e poi lo Stato borghese, all’artigianato l’industria: che cosa può succedere all’arte?” così Giulio Carlo Argan, nel 1970, si interrogava sul destino dell’arte. Ma l’arte dopo la sua fine è sempre arte, perché l’arte non è né paganesimo né cristianesimo, l’arte, in questa equazione, è la fede stessa, universale. Ma dopo il trauma delle grandi guerre, in particolar modo dopo l’assurdità della seconda guerra mondiale, avviene una rottura talmente profonda che l’artista, l’uomo, guarda alla realtà e si rende conto che non ha più alcuna ragione per volerne rappresentare l’aspetto. L’artista arriva a mettere in discussione anche il suo stesso ruolo, la sua stessa identità, arriva a dubitare che la sua esistenza sia legittima. Ogni tentativo d’espressione artistica sarà mediato dalla necessità di un chiarimento ideologico, di un fondamento etico, spirituale, simbolico, concettuale, inconscio, talmente essenziale da portare al venir meno d’ogni altro presupposto formale. Ed è così che per esprimersi l’artista crea il minimalismo, il concettuale, l’informale e così via. È da questo momento in poi che iniziamo a dubitare che quello che stiamo guardando, da spettatori, sia autentico, sincero, sentito, impossibilitati come siamo nel giudicare un’immagine che, in fondo, si basa su un pensiero e niente più. Cosi, l’idea che un Pollock possa essere venduto per 140 milioni di dollari ci sembra follia.

 

Ma la questione si complica ulteriormente se consideriamo l’attenzione che, dal Dada in poi, ed in particolare col Ready Made, si pone all’oggetto comune. Duchamp, per primo (e a dirla tutta, in modo involontario) rende un semplice oggetto, già fatto, già completo, un’opera d’arte, semplicemente ponendo una ruota di bicicletta su uno sgabello per osservarne il movimento. Quindi, quando oggi si dice “ti pare giusto? Se questa penna la metti in una sala di museo con un cartellino accanto, diventa automaticamente un’opera”, forse non si dovrebbe puntare il dito contro il fenomeno del white cube, ma bisognerebbe considerare che, se questo è possibile, è anche perché un artista, più di (e fa strano dirlo) cento anni fa, si è interrogato sulla poetica intrinseca nell’oggetto insignificante, l’ha reso ironicamente qualcos’altro, cambiando per sempre le regole del gioco. Straordinario e ordinario, eccezionale e insignificante diventano la stessa cosa, e non sappiamo più distinguerli, ed è anche per questo che non sappiamo se il valore economico -o la validità artistica- che gli stiamo attribuendo siano meritati.

 

Quando poi questo discorso viene ripreso dai Neo-Dada e dal Nouveau Réalisme, si aggiunge l’ennesima implicazione. Nascono le bandiere di Johns, gli oggetti di Arman, o le tavole intrappolate di Spoerri. In particolare, quest’ultimo, fissando sul tavolo gli oggetti dopo che qualcuno vi ha mangiato, lascia anche la totale autonomia compositiva al caso. Certo, il caso entra in parte anche nel dripping di Pollock, ma questa volta vuol dire qualcos’altro: non solo l’artista non ha, o non ha intenzione di utilizzare, le sue abilità tecniche, ma ambisce a scomparire totalmente dall’opera, facendosi tramite neutrale. Lo stesso si può dire anche per le opere che devono la loro genesi ad un processo meccanico, ma anche per il facile bersaglio del ready made. La mano dell’artista vuole scomparire, ma allo stesso tempo è l’unica cosa che conta, e con gesto religioso, come un re Mida in un delirio di onnipotenza, conferisce battesimo artistico ad ogni cosa che tocca. Ma se l’uomo ha sentito la necessità di esprimersi tramite quelli che qualcuno chiama “scarabocchi”, o oggetti che per qualcuno non hanno motivo di essere considerati arte, è perché porta con sé l’eredità del suo tempo storico, e non può far a meno di dichiararlo in ogni suo gesto. L’arte è sempre stata lo specchio dell’umanità, e se quello che ha da mostrarci non ci piace, se per noi non ha alcun valore, dovremmo chiederci chi siamo. 

Dal Creatore al creativo

Quindi un’arte delle idee, per le idee. L’opera d’arte non vuole più appagare la vista quanto, per usare le parole di Duchamp, “il nostro appetito di comprensione”. 

L’arte contemporanea si muove in un territorio dove tutto è lecito e, su insegnamento delle avanguardie, insegue una creazione libera, alla riscoperta della vita, che non sia tenuta per mano da canoni, abitudini o convenzioni.

Ma quanto questa “zona anarchica” è sfruttata per una ricerca inedita sulle possibilità dell’esistenza e quanto è solo un asilo nido per bambini alla ricerca di attenzioni facili e divertimenti insipidi protetti dal “nessuno può capirmi”?

Quanto queste idee sono intuizioni geniali sul presente e quanto trovate pubblicitarie costruite per attirare l’attenzione? 

Certo, l’arte contemporanea (e con lei quasi ogni forma di creazione oggi) è stretta suo malgrado nella dicotomia contenuto/comunicazione, rendendo difficile nella maggior parte dei casi capire dove finisca uno e inizi l’altra. 

Alcuni artisti hanno anche saputo dar voce a questa complessità contraddittoria con intelligenza ed ironia, come Piero Manzoni con la sua “Merda d’artista”. 

Il fruitore non può infatti negare che si tratti di un “prodotto” dell’artista (per certi versi addirittura della più pura e primordiale forma di creazione umana. Georg Groddeck dice: “Tutte le opere della scultura, i capolavori di Fidia e di Michelangelo non esisterebbero se il neonato non avesse formato con gli intestini e con l’ano i suoi stronzi, per poi lavorarli con le manine in immagini della sua fantasia”.) e la possibilità stessa che un barattolo di feci possa essere un’opera d’arte è tanto provocatorio quanto indiscutibile.

Il fatto poi che un simile oggetto venga venduto per 220.000 euro (come è accaduto il 6 Dicembre 2016 a Milano) mette in ridicolo dall’interno il mercato, pronto infatti ad attribuire cifre esorbitanti a qualsiasi “cagata” sia appartenuta a un personaggio eccentrico, famoso e morto in giovane età.

Tuttavia non sono tutti così consapevoli ed irriverenti come il grande Piero. 

Secondo il critico e curatore francese Jean Clair i “creatori” sono diventati “creativi”: “quelli che, diceva Mathurin Régnier, pisciano nelle acquasantiere perché si parli di loro. Piscio, dunque penso.” Scandalo senza utopie morali, diversità omologata, novità noiosa, moda.

Sempre secondo Jean Clair il termine “Arte contemporanea” è una versione più mansueta di “Avanguardia”, parola utilizzata comunemente fino agli anni ’70: “Arte contemporanea è una griffe, un marchio che dà valore a qualcosa che non vale nulla. […] le arti plastiche sono fatte di oggetti e prodotti dal valore fiduciario troppo alto che non rientrano più nel campo del gusto”. E ancora: “Si va verso una galleria d’arte moderna e contemporanea che non ha un tesoro, ma è un luogo dove presentare cose nuove in accordo con il mercato. Le banche hanno una riserva aurea e serve per autenticare la carta che non avrebbe valore, è la stessa cosa.”

L’homo oeconomicus (specie che ha da tempo soppiantato l’homo sapiens nel dominio del pianeta) è tenuto non tanto a saper-fare qualcosa, quanto a saper-vendere qualcosa, che siano i suoi prodotti o la sua persona. La pubblicità ha poi da tempo cambiato le regole del gioco: l’immagine vince sulla sostanza e non vende il prodotto migliore ma quello più accattivante.

Oltretutto in un mondo in cui la durata di attenzione media non supera gli 8 secondi e le persone attraversano i corridoi di un museo come scorrono la bacheca di Facebook, gli artisti che mirano a campare con le proprie opere devono accertarsi che queste si distinguano da quelle dei loro rivali conquistando rapidamente l’attenzione del pubblico. 

Persino la Cappella Sistina, spesso citata come la più alta espressione artistica nella storia dell’uomo, non attrae più così com’è e viene trasformata in “Giudizio Universale”: il primo show di “arteinment” con Pierfrancesco Favino nel ruolo di Michelangelo, proiezioni 3D, danze dal vivo e musiche di Sting, per assicurare una qualche forma di coinvolgimento ai paganti di via della Conciliazione, incuranti che la vera Cappella si trovi a pochi passi da loro. 

Il sito web dell’Auditorium recita senza nessun imbarazzo: “l’arte incontra lo spettacolo. […] Un impianto teatrale e tecnologico unico al mondo restituisce la potenza del capolavoro di Michelangelo”. 

Le nostre menti flaccide, rese incapaci di sentire ed immaginare, hanno bisogno di macchine per trasformare in spettacolo qualsiasi esperienza e provare l’illusione di essersi relazionate con qualcosa; che insomma i pensieri e i sentimenti che ci potrebbero attraversare mentre avviciniamo l’opera di un artista ci vengano spiegati ed imboccati attraverso un apparato registico (qui Marco Balich, che non manca di lasciarsi definire “designer di emozioni”). 

La comunicazione per immagini, “senza la quale non ci sarebbe cultura di massa” (G. C. Argan), ci rende assuefatti a colori innaturali e fluorescenti, ci abitua gli occhi a costruzioni visive, ci costringe ad introiettare una quantità eccessiva di figure, e quello che viene dopo deve essere sempre più straordinario di ciò che verrà. Siamo assuefatti alla meraviglia, alla novità, all’intrattenimento, e ci annoiamo sempre più in fretta. E’ per questo che tutti vanno a visitare prima facciata arnolfiana di Santa Maria del Fiore a Firenze solo ora che l’hanno ricostruita in scala 1:1 nel Museo del Duomo, e non prima, quando le sue statue erano esposte in modo meno scenografico: perché ora genera stupore, è una novità. 

Siamo diventati incapaci di contemplare, incapaci di apprezzare il silenzio o la profondità di un’immagine semplice. Nel “Crepuscolo degli idoli” Nietzsche sostiene che serva un educatore per imparare a vedere, ovvero “assuefare l’occhio alla calma, alla pazienza, al lasciar venire a sé”. Questa sarebbe la “prima istruzione alla spiritualità”, imparare a “padroneggiare gli istinti che inibiscono”. Al contrario la debolezza dello spirito coinciderebbe quindi con l’“incapacità di resistere a uno stimolo”, di dire no.

Secondo il filosofo coreano Byung Chul-Han la bellezza di un tramonto sta in tutto quello che non riesce a comunicarci. La relazione stessa si basa sulla differenza incolmabile tra “Io” e “l’Altro”. In questo vuoto nasce il desiderio, Eros.

Ma se tutto quello che guardiamo si sforza di essere immediatamente comprensibile e nessuno ci educa ad attendere lo sviluppo interiore della relazione con qualcosa che non capiamo, diventiamo incapaci di conoscere, di scegliere, di amare, diretti solo dall’astuzia degli esperti di comunicazione.

Se gli artisti poi assecondano questa tendenza malata producendo opere d’arte che non richiedono pensieri autonomi e agiscono sugli spettatori con la logica di un meme, rinunciano alla controffensiva e tradiscono il loro pubblico. E’ chiaro che quando Rudolph Beuys diceva: “qualsiasi uomo è un artista” non intendeva dire: “qualsiasi cosa produrrai sarà bella e giusta”.

Insomma davvero siamo pronti a rinunciare a bellezza e profondità nell’arte come nella vita attenuando il dolore con palliativi temporanei di facile fattura quali il quasi-proibito, il quasi-strano e il quasi-divertente?

Dall’altro lato, paradossalmente, queste forme d’arte adempiono al loro compito di raccontare il presente e riflettere la condizione dello spirito umano: I padiglioni della Biennale di Venezia si riempiono infatti di opere provenienti da tutto il mondo, eppure identiche tra loro nel loro narcisistico e vuoto bisogno di essere notate.

Ed è questa in un certo senso la tesi del partito opposto, che trova il suo campione in Andy Warhol, secondo il quale ogni forma di trasformazione sociale non può che essere assorbita e assecondata in modo del tutto acritico, come non ci riguardasse. 

Per lui il dibattito contemporaneo tra contenuto e comunicazione si risolveva facilmente: “la comunicazione è il nuovo contenuto”. “Sono una persona profondamente superficiale” diceva di sé stesso, e bisogna riconoscere che grazie al suo cinismo apolitico è stato in grado di riconoscere ed accettare il modus vivendi proprio del capitalismo, affermatosi ormai al meglio in tutte le democrazie occidentali.

La sua famosa “Zuppa Campbell” si fa portavoce glamour della società dei consumi, in cui non è icona ciò che nella sua armonia e perfezione muove il nostro spirito ad elevarsi, bensì ciò che porta la nostra proprietà materiale ad allargarsi, ciò che è acquistabile. Una banale zuppa può diventare, attraverso la narrazione iconografica, bella come Maria Vergine e trasformare ogni pasto in un momento sacro, in cui per soli 99 centesimi le promesse mosse dalle immagini (riuscendo dove la religione ha sempre fallito) diventano reali e mentre la mandiamo giù possiamo sentire i simboli potenti della gratificazione occidentale riempirci il corpo. Transustanziazione del consumabile. (Anche se, come ogni droga, l’effetto dura solo poco tempo, lasciandoci deboli e bisognosi di comprare ancora.)

D’altra parte Andy Warhol metteva radici in un’epoca diversa e per lui è stato forse più semplice accettare il progresso, per gli aspiranti artisti nati in quest’epoca di fascismo culturale, cresciuti dai media di massa sotto la legge del “è tutto qui, cosa vai a cercare” le scelte sono essere critici o essere zombie, sputare sangue per raccontare il presente o soccombere all’ossimoro di un’arte facile.



Con i contributi di

Daniele Gennaioli
Daniele Gennaioli

Redattore

Carolina Scimiterna
Carolina Scimiterna

Redattrice

A.D.
A.D.

Redattore

Laura Cocciolillo
Laura Cocciolillo

Redattrice

Giovanni Onorato
Giovanni Onorato

Redattore