Sulle occupazioni abitative romane pende un’indefinita data di scadenza. Gli occhi di Zao sono stanchi e trasmettono una disillusione maturata col tempo. «Tempo fa ero in un palazzo ad Anagnina, poi sono andato a Carlo Felice e ora sono qui». Zao ha cinquant’anni, è senegalese e da diciotto vive a Roma. Negli ultimi cinque anni ha abitato il palazzo occupato in piazza Attilio Pecile, quartiere Garbatella. È passato da un’occupazione all’altra grazie al lavoro di “Action-diritti in movimento”, associazione e movimento per la promozione del diritto alla casa con sede a Spin Time Labs, un palazzo occupato nel quartiere Esquilino di Roma che, dal 2020, ospita anche la Redazione di Scomodo.
«Carlo Felice mi piaceva molto, lo sgombero è stato duro per me. Ogni sgombero è diverso, a volte non hai un preavviso e altre volte riesci a temporeggiare o negoziare per mesi e anni». Ci sistemiamo sul divano, sorride gentile e un po’ imbarazzato. «Anche se questo palazzo non è nella lista degli sgomberi ci penso costantemente, perché sicuramente con questo nuovo governo il rischio aumenta e io vivo preoccupato perché non so dove altro andrò», dice riferendosi alla stretta contro le occupazioni abusive annunciata dall’esecutivo Meloni. La sua stanza racchiude l’essenziale. Oltre al letto, la chitarra, i fornelli, la tv accesa in sottofondo e un paio di sedie. Salta all’occhio una scritta sul muro: “sempre in lotta”. «L’ho trovata e l’ho lasciata lì» dice, con lo sguardo spento.
Scarsità o totale mancanza di reddito, contesti familiari violenti, problemi di salute psico-fisica o irregolarità del permesso di soggiorno sono solo alcune delle vulnerabilità che, se concatenate, estromettono soggetti e nuclei familiari da un contesto abitativo sicuro e li spingono al margine della strada, con l’unica alternativa di occupare case sfitte o edifici in stato di abbandono. Ne abbiamo parlato con Alberto Campailla, presidente di NonnaRoma, associazione nata con l’intento di provare a fornire risposte materiali alle condizioni precarie in cui versano migliaia di persone a Roma.
Lo incontriamo in sede al Quarticciolo, la quinta zona più povera di Roma (su un totale di 72), secondo i dati di MappaRoma. «L’assenza di un Piano di edilizia residenziale pubblica differenzia strutturalmente l’Italia da altri paesi europei, dove il numero di case popolari è notevolmente più alto e le politiche dell’abitare riescono a impattare sul problema», spiega Campailla. «A questo si aggiunge una componente emergenziale di gestione del fenomeno, che deriva dall’innalzamento dei prezzi dei beni di prima necessità e dalle crisi socio-sanitarie che ci hanno preceduto».
Nel 2021 l’incidenza della povertà assoluta in Italia conferma i massimi storici raggiunti nel 2020, impattando su più di 1,9 milioni di famiglie italiane, per un totale di 5,6 milioni di individui. Sugli individui stranieri è aumentata del 3,1% rispetto all’anno precedente. Anche l’intensità della povertà assoluta – che misura in termini percentuali quanto la spesa mensile delle famiglie povere sia in media al di sotto della linea di povertà (cioè “quanto poveri sono i poveri”) – rimane stabile rispetto all’anno precedente (18,7%), soprattutto grazie a un incremento più contenuto della spesa per consumo delle famiglie meno abbienti.
«Il processo di ‘turistificazione’ urbana che ha invaso molti quartieri, anche popolari, negli ultimi anni, incentiva l’aumento del costo degli affitti», aggiunge Campailla di NonnaRoma. In Italia, seppur il costo dell’abitazione rappresenti un peso difficilmente sostenibile per una percentuale relativamente bassa della popolazione (7,2%), il 17,6% delle persone (quasi 1/5) vive in abitazioni con carenze strutturali, mentre il 28% in condizioni di sovraffollamento. A Roma, sempre nel 2021, il 27,2% dei cittadini si trovava in almeno una delle seguenti tre condizioni: famiglie a bassa intensità lavorativa, famiglie a rischio di povertà, famiglie in condizioni di grave deprivazione materiale.
Secondo Campailla, «in generale, lo sblocco degli sfratti, poi, non ha fatto altro che scongelare una situazione di difficoltà la cui mole è drasticamente aumentata». I dati ministeriali sugli sfratti registrano nel 2021 38.163 provvedimenti emessi sull’intero territorio italiano (di cui 9.537 eseguiti), una cifra di gran lunga inferiore a quella degli anni precedenti per via del blocco sfratti imposto durante la pandemia di Covid-19. Il Lazio, in particolare, con 5.986 provvedimenti di sfratto emessi, resta la regione con la situazione più critica. I dati risalenti al 2020 del Dipartimento Programmazione ed Attuazione Urbanistica del Comune di Roma mostrano la presenza di circa 200.000 persone (57.000 famiglie) in emergenza abitativa, di cui 13.000 nuclei in attesa di un alloggio di edilizia residenziale pubblica. Secondo le stime, 12.000 persone vivono in stabili occupati e 3.850 famiglie in alloggi Erp (Edilizia residenziale popolare) senza assegnazione
«Le persone non sono pacchi»
Il decentramento in materia di assistenza sociale dato dalla riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 si è concretizzato in politiche sociali fortemente differenziate su base regionale. Così, alcuni territori italiani si sono caratterizzati per l’insufficienza di servizi e interventi minimi. «Anche nella gestione urbanistica del paese si è mirato a frammentare la “massa critica” di soggetti in precarietà abitativa sparpagliando le costruzioni di unità immobiliari popolari e di case sfitte, e abbandonando un modello di definizione dei canoni nazionale», racconta Massimo Pasquini, ex segretario nazionale di Unione Inquilini, sindacato italiano degli inquilini e dei senza casa.
«I dati della Commissione Comunale sul Patrimonio, che riguardano la dotazione di alloggi Erp recuperati e assegnati nel 2022 agli aventi diritto, ci dicono che a Roma ne sono stati recuperati solamente 150, pari allo 0,2% del patrimonio. In media, il Comune di Milano ne assegna più di 750 all’anno, mentre quello di Firenze ne recupera più di 500».
Tuttavia, secondo Alberto Campailla di NonnaRoma «questa amministrazione [guidata dal sindaco Gualtieri, ndr] ha fatto dei passi in avanti con la conversione di alcuni centri di accoglienza stagionali in annuali per garantire maggiori possibilità di fuoriuscita dalla condizione di marginalità, agendo sia sulla progettualità d’intervento che sulla sua qualità».
Nel 2020, infatti, il Dipartimento di Politiche Sociali di Roma aveva indetto una gara d’appalto per l’affidamento dei servizi di accoglienza che, tuttavia, presentava diverse criticità sostanziali, tra cui l’apertura di piccoli centri ad accessibilità limitata e con mere funzioni di orientamento ai servizi presenti sul territorio, senza alcuna forma di assistenza sanitaria, psicologica, legale, linguistica e socio-lavorativa. «Le persone non sono pacchi, bisogna avere il tempo di instaurare un rapporto di fiducia, comprendere la loro storia e assisterli per reinserirli nella comunità» prosegue il portavoce di NonnaRoma.
Secondo l’associazione, il numero dei posti nei centri di accoglienza è aumentato notevolmente rispetto a quelli disponibili durante l’amministrazione Raggi, arrivando a circa 3000. Una cifra insufficiente, se confrontata col numero delle persone senza dimora a Roma (oltre 20.000). La distribuzione dei centri di accoglienza all’interno del Comune è, inoltre, fortemente eterogenea e conta un solo centro con 16 posti nel X Municipio (Ostia), mentre i Centri per nuclei mamme e bambini (CMB) – accoglienza notturna e diurna con pasti – sono presenti in soli 5 Municipi per un totale di 172 posti. I centri aperti massimo quattro ore al giorno per garantire servizi igienici e di prima necessità, si trovano solo in due Municipi per un totale di 115 posti, di cui 80 solo nel XIV Municipio.
Nei fatti, i numeri dell’accoglienza ordinaria a Roma sono del tutto insufficienti. Tali carenze sono frutto di una visione politica che, negli ultimi anni, non è mai riuscita ad affrontare la questione attraverso un approccio strutturale e integrato, prediligendo una prospettiva emergenziale.
Il diritto di esistenza
La residenza gioca un ruolo centrale per la tutela del singolo e, di conseguenza, le difficoltà di accesso all’iscrizione anagrafica o l’impedimento a effettuarla – a causa di complessi e spesso discrezionali procedimenti amministrativi – limitano il pieno godimento dei diritti fondamentali a essa correlati. «Il decreto Renzi-Lupi del 2014, in particolare, ha comportato una modifica dei parametri per l’attribuzione della residenza, snaturando l’originaria funzione dell’anagrafe e privando molte persone dei propri diritti fondamentali», spiega Campailla.
Il decreto a cui fa riferimento il presidente di NonnaRoma è noto per il suo articolo 5 che, a partire dal titolo, esplicita lo scopo primario della normativa: la lotta all’occupazione abusiva di immobili. La disposizione prevede infatti che chiunque occupi un immobile senza titolo non possa richiedere la residenza, l’allacciamento di pubblici servizi né la partecipazione alle procedure di assegnazione di alloggi popolari per i successivi cinque anni.
«Siamo dentro a un processo di criminalizzazione del vulnerabile, in cui la normativa si pone l’obiettivo di smascherare gli occupanti abusivi e negar loro la possibilità di essere riassegnati, come se questi soggetti occupassero per scelta e non per necessità». Un sistema punitivo, che ha finito per distorcere anche l’istituto della residenza fittizia.
Via Modesta Valenti è una via inesistente nella topografia, attraverso cui poter censire i senza dimora assistiti dai servizi sociali, che è sempre più utilizzata anche dagli occupanti abusivi timorosi di autodenunciarsi. «Bisogna anche considerare che la residenza fittizia viene giuridicamente riconosciuta solamente dagli uffici comunali e non dalla Questura, per cui un migrante che potrebbe ottenere un contratto di lavoro regolare, deve rinunciarvi poiché per il rilascio del permesso di soggiorno è richiesta la residenza reale», argomenta Campailla.
Alcuni articoli di cronaca hanno, infatti, riportato le testimonianze di centinaia migranti le cui istanze di rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno sono state rigettate da delle Questure italiane per la mancanza di un indirizzo di residenza effettivo, nonostante il Consiglio di Stato abbia di recente sentenziato in merito.
Nel 2022, il sindaco Gualtieri ha firmato una direttiva in deroga all’art.5 del decreto, segnando un cambio di paradigma nella gestione della precarietà abitativa. La deroga riconosce il diritto a registrare la residenza presso il domicilio abituale, a prescindere che si tratti di un edificio occupato senza titolarità, e a entrare in graduatoria per l’assegnazione di un alloggio popolare.
Il rapporto di Roma Ricerca Roma stima che negli ultimi anni il numero di assegnazioni nella Capitale si sia aggirato tra i 250 e i 500 all’anno. Ottimisticamente, i 13.000 nuclei in attesa di casa verrebbero smaltiti in 26 anni. Alberto di NonnaRoma ribadisce che «in media, il tempo di attesa per l’assegnazione è tra i 10 e i 12 anni a richiedente, ma come fa una persona o una famiglia a sopravvivere per tutto questo tempo senza un tetto sopra la testa? La residenza, così come la casa, è un diritto all’avere diritti, un diritto di esistenza». Oltre che un’indispensabile mezzo per censire le persone e comprenderne le esigenze.
Seguire le orme
Spesso l’unica alternativa alla strada o agli insediamenti informali è data dall’occupazione di un edificio inabitato. Nella Capitale ne esistono circa un centinaio, fra cui Spin Time, che un tempo ospitava la direzione generale dell’INPDAP in Via S. Croce in Gerusalemme, e Metropoliz, un ex salumificio nel quartiere di Tor Sapienza in cui coabitano circa duecento persone dal 2009. Per queste due realtà, in particolare, il Comune sta valutando la fattibilità di progetti di acquisizione e rigenerazione per consentire il passaggio ad una situazione di legalità e sviluppo.
A Spin Time si respira un’atmosfera inclusiva, frutto di un lungo lavoro d’integrazione tra gli abitanti e il vicinato. «Mi chiamo Alberto, ho diciannove anni e abito qui da circa cinque, ma sono stato ad Anagnina, Rebibbia e a Carlo Felice prima che li sgomberassero». Alberto racconta la sua quotidianità mentre ci guida all’interno del palazzo. Spin Time è occupato dal 2013 e al suo interno vivono circa 400 persone, su ogni piano ci sono cucine e bagni comuni, anche se qualcuno è riuscito a costruirsi un bagno amatoriale nel proprio appartamento.
All’interno del palazzo c’è un comitato a cui rivolgersi per richiedere l’assegnazione di una stanza, a seconda delle necessità. «La mattina dello sgombero a Carlo Felice ero uscito per andare a scuola. Quando sono tornato mi hanno detto che non potevo entrare perché il posto non era più accessibile. Poco tempo prima di uno sgombero le forze pubbliche mandano dei preavvisi, a volte senza proporre una sistemazione alternativa. In quell’occasione, solo una parte degli occupanti è stata assistita e mandata nei centri di accoglienza, mentre gli altri sono stati smistati in altre occupazioni», racconta Alberto. Facciamo il giro dell’edificio, passiamo dall’auditorium e dalla palestra.
Incrociamo delle bambine che hanno appena finito il doposcuola. Alberto mi racconta che «anche i bambini più piccoli sanno che potrebbero doversene andare da qui da un momento all’altro. È triste perché i bambini non dovrebbero pensare agli sgomberi, però ne sono consapevoli». Arriviamo nel suo posto preferito, il tetto. «Io sono nato in Eritrea e a 9 anni sono arrivato in Italia. Da quel momento ho sempre vissuto in occupazioni quindi non ho mai percepito la differenza né la problematica di vivere in un palazzo occupato. Lo sento mio, anche se ci sono alcuni ragazzi che a scuola si vergognano di dire che abitano qua».
All’ingresso del palazzo incontriamo Fabio, veterano sulla cinquantina che di sgomberi e occupazioni ne ha vissute tante, a cui chiediamo un’opinione sull’acquisizione del palazzo da parte del Comune. «Per noi sarebbe una bella soddisfazione che il Comune lo tolga alla speculazione per riqualificarlo, però sono scettico perché i soldi da investire saranno tanti e gli abitanti non saranno contenti di uscirne senza avere la garanzia di rientrarci. Sappiamo come vanno queste cose, fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio».