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L’onlife della Gen Z: parlarne non è mai abbastanza

Social media e salute mentale hanno un’influenza reciproca, significativa per il difficile periodo che stanno vivendo i giovani di tutto il mondo. In uno scenario ombroso che pare non lasciare spazio ad appigli luminosi, persistono e sorgono considerazioni attive che alimentano il dibattito.

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Analizzare la complessità dello stato della salute mentale tra i giovani è estremamente complesso e il rischio di cadere nel clichè o nel superficiale è sempre vicino. Per questo è più semplice partire dai dati: nella fascia d’età tra i 10 e i 19 anni, 1 giovane su 7 convive con un disturbo mentale diagnosticato; di questi, il 40% soffre di ansia e depressione. Sono questi i dati, che raccontano di un fenomeno internazionale, pubblicati nel rapporto Unicef del 2021 “La Condizione dell’infanzia nel mondo – Nella mia mente: promuovere, tutelare e sostenere la salute mentale dei bambini e dei giovani”. Le stime a seguire, globali quanto locali, confermano tali valori, e l’amplificazione degli stessi a causa della pandemia. “Health at a Glance: Europe 2022” è uno studio dell’Ocse che mostra le variazioni in Europa a cavallo tra il 2019 e il 2020/21: tra i 18 e i 29 anni, gli affetti da sintomi depressivi sono passati dal 9,5 al 42,5% in Norvegia, dall’8,7 al 37% in Islanda, dal 14, 8 al 38,5% in Svezia; per quanto riguarda l’Italia il valore riportato riguarda la fascia d’età 16-24, ed ha raggiunto il 24,2%, quasi dieci punti percentuali in più rispetto alla percentuale tra gli adulti.

Agli studi scientifici si affianca una percezione collettiva meno di settore: il mondo della televisione, come quello del cinema, ha affrontato in misura sempre maggiore tali argomenti. Il successo di queste produzioni dimostra un interesse, una sensibilità verso delle difficoltà sentite in maniera pervasiva. Ne deriva un fenomeno particolare che coinvolge direttamente un numero di persone sempre maggiore e di cui ognuno di noi ha avuto modo di conoscere gli effetti, attraverso una trasmissione di contenuti che si dirama su diversi piani. Allo stesso tempo, i rapporti sociali muovono troppo spesso in direzione opposta a questa consapevolezza: le persone si allontanano, le comunicazioni si interrompono o prendono derive tutt’altro che costruttive, portando a isolamenti che amplificano le difficoltà personali.

Vivek Murthy, il “chirurgo generale degli Stati Uniti”, personalità all’apice della gerarchia sanitaria federale, ha parlato di una vera e propria “epidemia di solitudine”, un sintomo della società in cui viviamo da cui consegue la fuga attraverso le sostanze, che promettono di supplire alle mancanze di una vita negata: l’abuso di alcool, droghe, psicofarmaci…

Ma come nasce questo fenomeno? Come si svolgono le comunicazioni quotidiane e dove si incrinano i legami interpersonali? Nei rapporti, tra dialogo offline e online, si trovano le basi degli equilibri sociali odierni, o – forse – la loro rottura.

Nuove generazioni sull’onda dei social media

Le pagine da scrivere servono ancora. È lo slogan con cui la nostra rivista è ripartita qualche mese fa e un monito dai toni decisivi per il presente e per il futuro: la sostanza di cui sono fatte le pagine è la parola, uno degli strumenti più istantanei e potenti che abbiamo a disposizione per interagire col mondo circostante; e in una società iperconnessa come quella attuale, il peso riservato alla gestione della parola è maggiore, proprio in virtù di una complessità data dal sistema integrato vigente. Nello scenario contemporaneo, dove l’online e l’offline si mischiano, sono le generazioni più giovani a stabilire un legame forte con i social media, utilizzati sia come spazio di connessione con le persone sia come mezzo per esprimersi e informarsi, grazie ad un funzionamento rapido e “fresco”. Tuttavia, i social possono presentare insidie nel momento in cui li si usa con superficialità, frettolosità e senza buon senso: in mancanza, per esempio, della componente prossemica, a connotare le nostre azioni si presentano incomprensioni, sottovalutazioni o ipotesi alterate con più facilità.

In relazione a ciò, la consapevolezza assume un ruolo centrale anche nell’utilizzo dei social, rimarcato anche dalla sociolinguista Vera Gheno. con cui abbiamo potuto approfondire il legame che unisce le nuove generazioni e i social media. La studiosa ha sottolineato la necessità di conoscere le dinamiche digitali in cui siamo immersi come passo fondamentale nella ricerca di un equilibrio tra vita digitale e fisica. È una condizioni individuale, in cui non esiste ricetta o prescrizione che possa fornire una soluzione standardizzata. Le reti di comunicazione generate dai social network si basano su di un valore fondamentale: la capacità di amplificare una parola, un contenuto, un’emozione, una fragilità. Sui fili che si vengono a creare si gioca un continuo confronto identitario.

Se alle relazioni online si abbinano quelle fisiche, nasce un intreccio in cui troppo spesso viene a mancare la capacità di districarsi. Per questo, il tempo speso sui social media, a cui a volte si aggiunge la tendenza all’oversharing, può essere il campanello d’allarme di una condizione di disagio. «I social possono rappresentare una via di fuga da una situazione di rischio» ci dice Vera Gheno. Eppure, se questa cosa inizia ad essere preponderante, subentra uno stato di difficoltà  in cui si vanno a inserire fenomeni di appiattimento e semplificazione dei propri rapporti, come l’hikikomori. Il termine indica una condizione di isolamento nella propria casa, per lo più connessa a un intervallo di età tra i 14 e i 30 anni. Traducendo tale dinamica secondo quanto appena detto, il soggetto non fa altro che recidere alcuni dei propri fili relazionali, se non la maggior parte, limitandosi a contatti digitali non inferiori di per sé, ma solo in quanto privi di equilibrio.

Da un’altra prospettiva, alcuni fenomeni fallaci come la gogna o i deragliamenti comunicativi possono indurre l’individuo ad un’amplificazione del disagio, a maggior ragione se ci si trova in una fase evolutiva delicata quale è l’adolescenza in cui la pressione dei pari risulta un elemento importante. In questo caso, il rischio è di entrare nella logica psicologica della massa e seguire la reazione di gruppo. Questo succede quando si tiene molto alla propria figura, al profilo che appare ai nostri coetanei e in questo senso, Gheno sottolinea: «Se la mia vita analogica rischia di diventare una semplice base su cui impostare la vita digitale, è preoccupante». Proprio per scongiurare un aumento della de-soggettivazione delle persone immerse nell’onlife – termine coniato da Luciano Floridi per sintetizzare la dimensione vitale frutto di una permanente relazione tra reale e virtuale – fra la performance sui social media e il soggetto reale che sta dietro, occorre ricercare un equilibrio. Qualsiasi tipo di social media ci insegna la forza della comunicazione, la possibilità di trovare nuove vie che congiungono sia affinità caratteriali che problematiche di cui dover parlare. Quando alla fine di questa via si cerca un rifugio in cui nascondersi, il disagio personale è il solo che risulta amplificato.  Ciononostante, non bisogna demonizzare i social media quale male assoluto per i giovani, poiché, se gestiti in un modo virtuoso, possono essere funzionali anche per far fronte a condizioni di disagio o malessere mentale. Noi, attraverso i social, possiamo accedere a informazioni e forme di discussione estromesse, per esempio, dall’ambito dei media mainstream. Inoltre, motivo originale e originario della loro nascita, i social consentono alle persone di condividere hobby, passioni, temi che hanno in comune: ci si rende conto di non essere gli unici individui e si può alleviare il dolore entrando a far parte di una comunità web (sana). Certo, occorre avere una certa bravura nel destreggiarsi tra le sopracitate gogna, deragliamenti, fake news, odio e movimenti che alimentano fantasie del complotto.

Vera Gheno, infine, ci indica due viatici principali da seguire al fine di vivere l’universo dei social e di internet secondo un Nirvana marcusiano, ovvero con soddisfazione e senza dolore,  delle strade da percorrere per vivere in modo finalmente libero le ricchezze che il web e i social ci offrono: educare a un uso del mezzo non solo di evitamento del pericolo, ma anche attivo, parlando dell’uso improprio che si fa della parola per favorirne uno consapevole e accorto; creare modalità di supporto psicologico alla portate di tutte le persone, con lo scopo primario di migliorare la funzione degli sportelli psicologici nelle scuole.

Tali strade presuppongono una cooperazione equa e solidale tra generazioni. È fondamentale, in questo senso, superare l’ingiustizia epistemica che ha visto da sempre le nuove generazioni venir screditate da quelle più anziane per un’idea di mancanza di competenze per produrre sapere. Infatti, soprattutto nell’ambito digitale, si assiste ad una maggior expertise da parte delle generazioni più giovani rispetto alle altre; perciò è necessario un dialogo, un punto di contatto tra le due, superando i millenari stereotipi e pregiudizi che ancora sussistono.



Una nuova definizione di dipendenza

 

«Non c’è nulla sul pianeta Terra che sia paragonabile al fentanil, tranne Jules» dice Rue Bennet, protagonista della nota serie tv teen Euphoria, un racconto (più o meno) verosimile degli eccessi e delle difficoltà che caratterizzano i giovani di oggi. Insieme a tanti altri prodotti virali – Baby, Sex Education, Elite, Skam – ha attirato l’attenzione del panorama mainstream su problemi legati alla salute mentale, la difficoltà di crescere, il rapporto amore-odio con i genitori: i classici temi del coming of age, conditi però da novità culturali che raccontano una generazione che ha nuovi problemi e (forse) anche una consapevolezza diversa. Si parla di sessualità, di identità di genere, di depressione, di abuso di droghe, di dipendenza. 

La frase di Rue è l’esemplificazione di quel processo che parte dal malessere, arriva alla depressione e naufraga in modo disastroso nell’abuso di sostanza; un trend preoccupante in crescita tra i giovani e i giovanissimi. Un numero consistente di studi condotti confrontando dati riguardo la salute mentale pre e post-pandemia ha sottolineato come i disturbi depressivi e dell’ansia, già importanti quattro anni fa, si siano ulteriormente aggravati. Inoltre, se in un primo momento il lockdown e l’isolamento sociale hanno portato a un calo dell’uso di sostanze come alcool o tabacco, i valori sono tornati al livello originale e oltre in poco meno di un anno. Secondo la Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia, nel 2022 il 2% della popolazione studentesca tra i 15 e 19 anni riferisce l’utilizzo di cocaina, il 24% (580 mila) l’uso di cannabis, 1 milione e 900mila l’alcol (tra cui il 33% con un consumo elevato che ha portato a intossicazione alcolica). In aumento anche l’uso di psicofarmaci senza prescrizione (270mila) e di Nuove Sostanze Psicoattive (NPS) come cannabinoidi sintetici (4%), oppioidi sintetici (0,9%) e ketamina (0,7%). 

 

Ma come funziona la dipendenza? Alla base del meccanismo è il sistema dopaminergico del nostro cervello: la dopamina è uno dei più importanti neurotrasmettitori, coinvolta nei circuiti del piacere e della ricompensa, guidati spesso da un apprendimento associativo. Attraverso la ripetizione il circuito associa uno stimolo a una risposta e nel caso in cui quest’ultima sia positiva l’individuo sarà spinto alla ricerca dello stimolo. La dipendenza è una ricerca ossessiva dello stimolo, con un continuo rinforzo positivo del circuito ogni volta che si ottiene il risultato atteso. I motivi e gli eventi che portano alla compulsione sono sovrapposti e complessi, ma in un esperimento di Piazza e Le Moal è stato osservato che ripetute sconfitte sociali favoriscono l’auto somministrazione della droga in animali, così come l’isolamento e lo stress sociale. In un altro studio di Ramsay Jan e di Ree si è osservato come il disagio emotivo portasse i ratti ad attuare un comportamento di autosomministrazione di cocaina.  Sconfitte sociali, deprivazione affettiva, carenza di attenzioni, ipercriticità genitoriale, stress materno, sono tutti fattori che influiscono positivamente nel comportamento di dipendenza, mentre un fattore protettivo sarebbe il contorno socio-ambientale.

Partendo da questa descrizione della dipendenza è evidente come le nuove generazioni siano soggette ad una gamma molto più ampia, spesso non associate a sostanze ma a comportamenti. Non a caso il Consiglio Superiore di Sanità ha inserito un nuovo “concetto di dipendenza”:

Condizione psichica, talvolta anche fisica, derivante dall’interazione tra un organismo, una sostanza e/o uno specifico comportamento, caratterizzata da risposte psicofisiche che comprendono un bisogno compulsivo di assumere la sostanza e/o di mettere in atto un determinato comportamento disfunzionale in modo continuativo o periodico, allo scopo di provare i suoi effetti psichici e di evitare il malessere della sua privazione

In questa definizione rientrano ulteriori comportamenti a rischio e potenzialmente additivi, spesso legati a Internet e alle nuove tecnologie. Il più diffuso è il gioco d’azzardo che nel 2022 ha interessato circa la metà degli studenti 15-19enni, ma anche il ritiro sociale volontario che avrebbe interessato 55mila studenti rimasti isolati per oltre 6 mesi. 

In generale quindi si osserva una tendenza in crescita all’abuso e al rifugio in comportamenti disfunzionali tra i più giovani, sicuramente condizionati da un’estrema accessibilità ma anche da un malessere diffuso che ha radici molto più profonde della pandemia o della classica crisi adolescenziale. I giovani sanno di stare male, cosa che sfocia spesso anche in modelli tossici o di auto-celebrazione che raccontano di una crepa generazionale: «Top weed mi fa stare up/Top b**ch vuole solo white[..,]/Top lean mi fa stare in down (bang bang» (FSK, “Fragola eroina”) o «ora sono il boss dei farmaci/ho preso una pastiglia senza prescrizione/per me non c’è cura sono il mio dottore» (La Sad, “La Sad Italiana”).

Per quanto il fenomeno sia relativamente recente e intimamente interconnesso con una transizione sociale e tecnologica ancora agli inizi, l’attenzione dei ragazzi e delle ragazze ai temi di salute mentale fa sperare in un futuro prossimo in cui dalla parola si passi alla reazione. Che questa consapevolezza sia quindi il punto di partenza di una lunga decostruzione e l’inizio di una nuova cultura all’educazione.



La retorica sui giovani che vuole continuare a sminuire e colpevolizzare i loro atteggiamenti e comportamenti, quando l’attuale panorama socio-economico non fa altro che alimentare un ampio disagio, ha fatto il suo tempo: i soggetti giovani, nello specifico quelli italiani, in base a quanto riporta il “Mind Health Report 2023” condotto da Ipsos, sono tra i fanalini di coda in termini di benessere fisico e mentale: la sfiducia negli anni a venire, le tristi possibilità lavorative, ansia, stress e depressione stanno conducendo la vita delle nuove generazioni verso il baratro. Eppure, sta crescendo la consapevolezza circa tutto quello che comportano i disagi psichici grazie ad un intervento culturale che nasce proprio dalle giovani generazioni: ad esempio, il cinema o le serie tv come strumento di realizzazione e catarsi o i social gestiti in maniera virtuosa. Quest’ultimi in particolare presentano ancora grandi possibilità di sviluppo, nell’istituzione di relazioni che muovano verso la costruzione di un equilibrio sociale, nei rapporti tra vita fisica e digitale. Ma non basta, poiché è necessaria anche l’opera determinante delle istituzioni, finora disinteressate o senza il coraggio e la voglia di mettere le mani nella pasta del tema. In questo senso, occorre la profilazione di nuove politiche, a partire da un piano nazionale per salute mentale quanto mai necessario anche per dare un orizzonte concreto di futuro  a questi giovani.

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