L’IMPRONTA DEI TRASPORTI

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Il punto di partenza del focus è questo: che spostarsi  a meno di farlo con le proprie gambe  implichi un
irrinunciabile inquinamento,derivato dall’alimentazione del mezzo utilizzato e dall’installazione dell’infrastruttura necessaria al suo transito. In tal modo, l’unico orizzonte di senso all’interno del quale la questione dell’inquinamento trasportistico possa essere formulata è quello dell’ottimalità,alla ricerca delle modalità dispostamento caratterizzate dalla massima efficienza.

È un discorso non semplice, influenzato dalla mole delle persone che si spostano,dalle modalità di trasporto disponibili, dalla loro efficienza e dalle distanze e dalle tempistiche in gioco: per consistenti che possano essere, discutere delle emissioni derivate dai voli transoceanici (almeno per quanto attiene il trasporto passeggeri) non è significativo data la mancanza di alternative. Di contro è estremamente indicativo ragionare sulla necessità di realtà come quelle degli spostamenti aerei su distanze a corto raggio

o dei voli merci laddove, per lunghezze e tempistiche di trasporto, esistono sulla carta soluzioni ugualmente efficaci. È oggettivo che il trasporto pubblico sia la scelta più sostenibile, ma non per questo la più gettonata o percorribile: i problemi logistici e funzionali che ledono la mobilità pubblica (esempio più lampante di un sistema trasportistico segnato in senso lato da una inefficienza colpevole), come si vedrà, sono il reale deterrente che scoraggia chi dovrebbe preferire il trasporto pubblico a quello privato.

AREE URBANE

L’impatto ambientale della mobilità

L’Italia è il paese europeo con la più alta densità di automobili: si contano 39 milioni di auto, pari a circa il 17% dell’intero parco veicolare europeo. L’altissimo tasso di motorizzazione riflette un dato caratterizzante della mobilità nazionale, cioè che la grande maggioranza degli spostamenti avviene con l’impiego di mezzi privati e non pubblici.

La situazione della capitale in questo senso è emblematica: con 62 auto ogni 100 abitanti Roma è la peggiore tra le capitali europee. Questa realtà ha immediate ripercussioni sull’inquinamento ambientale; si stima infatti che il 50-60% dell’inquinamento nelle aree urbane sia determinato dal traffico veicolare (Di Lella et al.,2005). Tra tutti gli inquinanti prodotti quello che suscita maggiore preoccupazione è il particolato, detto PM10, che in molte città italiane continua a superare le soglie di concentrazione previste. Infatti, come dimostra il Rapporto Annuale sull’inquinamento atmosferico nelle città italiane pubblicato nel 2019 da Legambiente, nel 2018 sono stati 55 i capoluoghi di provincia che hanno superato i limiti giornalieri per le polveri sottili o per l’ozono (o entrambi) previsti dalla normativa. Alla base di questa situazione di emergenza vi è sicuramente l’assenza di piani organici di mobilità urbana che solo negli ultimi anni, e in alcuni territori, si sono mostrati attenti alla sostenibilità ambientale. Difatti l’attuale stato di congestione veicolare è il risultato di una pluriennale miopia delle ammini strazioni comunali che non hanno saputo sviluppare politiche infrastrutturali di sviluppo del TPL (Trasporto Pubblico Locale) e della cosiddetta mobilità attiva (pedonale e ciclistica).

Per scoraggiare l’uso delle auto per gli spostamenti urbani e pendolari è indispensabile, infatti, offrire alternative sicure e affidabili.Milano ad esempio dimostra come un efficiente TPL con 4 linee metropolitane all’attivo (e una in costruzione), rete tranviaria, di autobus e servizi di car e bike sharing sia determinante a segnare una contro tendenza di stabilità del tasso di motorizzazione rispetto ai dati registrati nel report Autoritratto 2018 dall’ACI che evidenzia un trend in crescita in quasi tutti i grandi comuni. Nonostante questi traguardi il capoluogo lombardo rimane comunque molto indietro rispetto ai risultati delle altre grandi città europee. Ma il punto non è solo questo: il fatto che le grandi città, fortemente congestionate dal traffico e inquinate, siano anche le realtà che offrono politiche di mobilità sostenibile più articolate dimostra come la risposta finora delineata al problema dell’inquinamento urbano si muova in un’ottica emergenziale e non di prevenzione. In altre parole, nella maggior parte dei centri medio-piccoli dove il problema dell’inquinamento veicolare urbano non si è manifestato in tutta la sua gravità continua a salire il tasso di motorizzazione rispetto ai centri maggiori.Difatti il numero più alto di autovetture in rapporto alla popolazione si registra in alcune medie realtà urbane come Frosinone, L’Aquila, Potenza, Isernia, Perugia, Cuneo (da 74 a 77 auto per 100 abitanti). Questo dimostra come ancora oggi i piani di mobilità sostenibile non siano avvertiti come un’esigenza di ripensamento globale del tessuto urbano, in termini cioè di strategia che investa tutto il territorio nazionale e non solo i grandi centri affollati. In questa direzione dovrebbero andare i nuovi PUMS, ovvero i Piani Urbani della Mobilità Sostenibile in ottemperanza delle normative europee.

Si tratta di piani che nella maggior parte dei casi sono fermi allo stato di progetto, fatta eccezione per la città di Bologna che già nell’agosto del 2017 elaborava il suo percorso. Uno dei punti più importanti di questi piani è la creazione di piste ciclabili con l’obiettivo di aumentare la ciclabilità urbana a impatto ambientale zero. Dal rapporto dell’Osservatorio nazionale Focus 2R presentato da ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani), Legambiente e Confindustria Ancma le piste ciclabili sono aumentate del 50% dal 2008 al 2015; nonostante questo non è aumentata la ciclabilità. La percentuale del 3,6% registrata nel 2008 nel 2015 era immutata. Perché quindi gli italiani non vanno in bicicletta?

Da uno studio condotto da Lonen Consulting emerge che il 43% degli intervistati userebbe la bicicletta se vi fossero infrastrutture ciclabili più sicure. Il problema è quindi infrastrutturale. Per aumentare la ciclabilità degli italiani infatti non è sufficiente realizzare piste ciclabili se queste non sono inserite in un contesto urbano che le renda realmente fruibili. Per essere funzionali le piste ciclabili devono essere continue, collegate, affiancate dalle zone a velocità limitata (20-30 km/h) e le ZTL, insomma devono essere inserite in un contesto urbano a misura di bicicletta che permetta ai ciclisti di guidare in sicurezza, senza entrare in conflitto con gli altri utenti della strada. Attualmente in Italia attraverso il progetto Comuni Ciclabili la FIAB ha identificato per ogni regione solo pochi comuni cosiddetti ciclabili evidenziando come sia essenziale la presenza sul territorio urbano di una serie di elementi non riducibili al numero dei km di pista.

L'impronta dei trasporti

OLTRE LE CITTÀ

Come si muovono le merci

I trasporti e la loro gestione rappresentano per l’Europa un impatto economico ed ambientale dal peso specifico enorme ed abbastanza trascurato: negli ultimi anni secondo la Corte dei conti europea, il volume di trasporto merci nella UE (su strada, rotaia e per vie navigabili interne) si è stabilizzato attorno ai 2300miliardi di tonnellate-km all’anno, causa di circa un terzo del consumo energetico e delle emissioni totali di anidride carbonica nell’UE (a titolo di paragone, nel 2012 le emissioni di CO2 su base industriale
si attestavano al 25,6% del totale europeo). Il dato è estremamente significativo, specie rapportato all’analisi specifica delle modalità di trasporto disponibili e delle relative emissioni. Al 2012 l’insieme delle statistiche in merito traccia un quadro sbilanciato in maniera preoccupante nella direzione del trasporto su strada. Se da una parte l’Agenzia Europea dell’Ambiente, certifica emissioni di CO2 provenienti dal trasporto ferroviario 3,5 volte inferiori, per tonnellata-km, a quelle prodotte dal trasporto su gomma, dall’altra la quota percentuale dei volumi fattualmente veicolati in Europa per via stradale si continua ad attestare al 75,4% del totale spostato contro il 17,8% di quello ferroviario.
Quella della riduzione delle emissioni inquinanti attraverso la promozione di modalità di trasporto alternative è una tematica di lungo corso in Europa, segnata dal divario di performance rispetto ad altre parti del mondo dove il trasporto ferroviario rappresenta spesso la modalità di trasporto predominante: con quote di mercato superiori al 40 % negli Stati Uniti, in Australia, in Cina, in India e in Sudafrica, già nel 1992 la Commissione Europea annoverava il riequilibrio tra diverse modalità di trasporto fra i suoi obiettivi principali.

Ad oggi malgrado i consistenti fondi stanziati il problema rimane attuale. Il generale ritardo nella costituzione di un sistema efficiente conta della sovrapposizione di due cause significative. Una di carattere strutturale (la frammentazione del mercato ferroviario europeo in un mosaico di reti ferro viarie nazionali a limitato tasso di interoperabilità) e una di carattere locale: la scarsa competitività nel mercato e la presenza di infrastrutture obsolete tra scurate per anni a beneficio del trasporto su strada. Lasciando da parte il primo fattore – il 90% circa dell’attività di trasporto pesante dei trasportatori italiani ha luogo all’interno dei confini nazionali, il secondo rimane paradigmatico di un grado di pianificazione trasportistico elaborato spesso senza lungimiranza o criterio di sorta ed influenzato da un variegato sistema di mancati incentivi e di ostacoli normativi, pratici ed economici. Scrive la Corte dei conti europea: “la liberalizzazione del mercato ferroviario non ha raggiunto lo stesso livello in tutti gli Stati membri. In Slovenia e in Slovacchia (al 2016,ndr) la quota di mercato dell’operatore storico per il trasporto era ancora del 90% circa, mentre in altri sei Stati membri (Grecia,Finlandia, Croazia, Irlan da, Lituania e Lussemburgo) il mercato del trasporto merci resta praticamente chiuso alla concorrenza,poiché l’operatore storico detiene il 100% di tale quota di mercato”. L’infrastruttura del trasporto merci italiano si inquadra in questo contesto: la percentuale del traffico merci veicolato su gomma si attesta all’85,5%, quello su rotaia al 13,5%, e le vie d’acqua interne sono tendenzialmente poco utilizzate in luogo della mancanza di infrastrutture adeguate.

Al 2018, tra le 30 imprese di trasporti con sede in Italia e fatturato maggiore a 5 milioni di euro, 20 erano basate su modalità di trasporto autostradale (di cui cinque fisse ai vertici della classifica dei guadagni annui, con introiti per oltre un miliardo e mezzo di euro l’anno), e solo 3 su base ferroviaria (in 25°,26° e 27° posizione nella graduatoria dei guadagni). Un prospetto paradossale per un paese in testa alla classifica europea per le morti dovute al particolato sottile. Il quadro delle responsabilità non è univoco. Aspettarsi una conversione delle grandi aziende di trasporti al trasporto su rotaia, stante la mancanza di un corpus di disincentivi alla modalità stradale e di incentivi a quella ferroviaria (la Svizzera è riuscita così ad innalzare la quota parte del trasporto ferroviario al 40% del totale) è altamente improbabile. Ed anche se queste misure dovessero essere adottate, la questione sarebbe lontana dalla risoluzione. L’attitudine dell’ecosistema ferroviario al trasporto modale secondo la Corte dei conti sconta ancora problematiche come il numero limitato di imprese disponibili, canoni di accesso non incoraggianti (al 2013 in Italia si attestavano a circa 2 euro/km) e canali non prioritari per il trasporto “persino nel quadro dei corridoi merci ferroviari”. Globalmente, si paga il prezzo di infrastruttura (in mano per l’85% delle sue parti a Rete Ferroviaria Italiana) attualmente incapace di accogliere una consistente percentuale del traffico veicolato su strada a meno di altrettanto consistenti investimenti infrastrutturali, limitati ad oggi ai 5,4 miliardi che il piano industriale 2019-2023 di RFI destina solamente “allo sviluppo dei corridoi europei TEN-T che attraversano l’Italia”.

Come si muovono le persone

Nel 2014 l’AEA (AgenziaEuropea dell’Ambiente) ha pubblicato una ricerca sull’impatto ambientale dei diversi mezzi di trasporto nei lunghi tragitti. L’aereo è risultato nettamente il mezzo più inquinante, con 285 grammi di CO2 per passeggero al chilometro. Seguono, nettamente distanziati, il motorino (72 g/km), l’autobus (68), l’auto (42) e infine il treno (14). Eppure, in Italia l’81% di emissioni di gas serra del settore dei trasporti arrivano dal trasporto su strada, e solo il 9,6% dall’aviazione civile (di cui il 7,7% dai voli internazionali e solo l’1,8% da quelli interni). Come si spiega questo squilibrio? Ecco che quindi altri numeri ci vengono incontro. Secondo i dati ENAC (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) del 2018, la rotta aerea più trafficata in Italia è la Roma Fiumicino – Catania, con quasi due milioni di passeggeri. Segue la Roma Fiumicino – Palermo ferma ad un milione e mezzo, e solo al terzo posto arriva la più tradizionale Roma Fiumicino – Milano Linate con un milione e 300 mila passeggeri. A questo punto, è possibile iniziare a tracciare un quadro generale della situazione. Tra Roma e Milano esistono 139 collegamenti ferroviari ogni giorno, la maggior parte di questi tramite treni ad alta velocità. Il risultato è che, nel 2017, 7 passeggeri su 10 sceglievano il treno per percorrere questo tragitto, mentre il 20% ripiegava sull’aereo e il 10% sulla strada (macchina o bus). Nel 2008, prima dell’alta velocità, la soluzione per il 50% dei viaggiatori era l’aereo, e solo il 36% sceglieva il treno. In presenza di alternative valide via terra, il trasporto aereo è disincentivato per quanto riguarda voli interni o comunque di corto raggio, soprattutto in una fascia di mercato che si sovrappone molto con quella del trasporto ferroviario: le grandi città, quellepiù spesso fornite di aeroporti, sono anche quelle collegate da un’offerta via rotaia più ampia e articolata.

Dove invece un’offerta di questo tipo non è presente, per motivi geografici o, spesso, per mancanza di investimenti (i collegamenti diretti tra Roma e Catania sono tre al giorno, idem per Palermo), ritorna pre-
potentemente in ballo l’ipotesi del trasporto aereocon tutto ciò che comporta a livello di emissioni. Se, quindi, a livello nazionale non è l’aereo il pericolo numero uno, diverso è il discorso per quanto riguarda il trasporto stradale. Se tra i 480 e gli 800 chilometri un viaggio in automobile ha un impatto ambientale minore rispetto all’aereo(dati dell’Università del Michigan, 2015), sotto i 480chilometri l’utilizzo di strade non a scorrimento veloce fa lievitare notevolmente l’impronta ecologica delle auto. Inoltre, i 51 milioni di veicoli (dei quali 39 sono autovetture) che compongono il parco auto italiano trovano il proprio spazio di mercato in quelle nicchie che non riescono ad essere coperte dal trasporto ferroviario. Emblematico è il caso del Sud Italia. Come in un inquietante sequel dim“Cristo si è fermato a Eboli”, anche l’alta velocità inItalia si ferma non moltomlontana da quelle zone, più precisamente a Salerno. In programma ci sono la realizzazione della trattaNapoli-Bari e il prolungamento verso la Sicilia, ma per entrambe le opere bisognerà attendere ancora diversi anni (ultimazione prevista tra il 2023 e il 2028). Risalendo al Piano
Industriale 2011-2015 di Ferrovie dello Stato è possibile trovare i progetti di quelle che avrebbero dovuto essere le “Porte del Sud”, entrambe nel napoletano: la stazione di Afragola e quella di “Vesuvio Est”. La stazione di Afragola è stata inaugurata nel 2017, con un costo stimato intorno agli 80 milioni, ma senza lo sbocco sulla Napoli-Bari si trova in condizioni di netto sottoutilizzo (61 treni al giorno contro i circa 500 di Napoli Centrale) ed è praticamente priva di collegamenti con il capoluogo partenopeo e con le vicine province di Caserta e Benevento. Più complessa la situazione della Vesuvio Est, che avrebbe dovuto rappresentare lo scalo verso la Calabria: il progetto è stato assegnato al gruppo belga Samyn and Partners per una cifra intorno ai 32 milioni di euro, che però non è mai stata stanziata. Addirittura, nel 2017 il presidente di RFI (Rete Ferroviaria Italiana) Maurizio Gentile dichiarava che l’utilità dell’opera era in fase di rivalutazione, data la presenza di tre hub dell’alta velocità nella zona (Napoli,Afragola, Salerno). Strutture, però, già preesistenti o comunque in programma al momento dell’approvazione del progetto. Ma non sono solo le aree interne del Sud a soffrire, e né modelli diversi di gestione sembrano dare frutti migliori. Ne è un esempio Trenord, società controllata per metà da Ferrovie dello Stato e per l’altra metà da FNM (gruppo di cui Regione Lombardia è azionista di maggioranza con un 25% in mano a privati). Alcuni dati bastano per descrivere le condizioni in cui versano le ferrovie lombarde: nel 2018 sono stati soppressi circa 40.000 treni (il 5,1% del totale), mentre il 21% ha subito un ritardo superiore ai 5 minuti. Senza investimenti massicci e soprattutto capillari nella mobilità pubblica, tutti questi fattori contribuiranno sempre più a indirizzare questi spostamenti periferici verso l’utilizzo del trasporto privato e delle automobili. A perderci, però, sarà tutto il pianeta.

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