- Introduzione
- Parte I
- Parte II
- Novembre 19, 2018
Dal fallimento della war on drugs verso la depenalizzazione di tutte le droghe
La tesi dalla quale muoveremo per lo sviluppo di questo focus, abusatissima dagli habitué della discussione, che ne hanno fatto a ragione o a torto il leitmotiv della loro trattazione, è che il proibizionismo, nella sua forma più generale, abbia mancato di raggiungere l’obiettivo che aveva portato alla sua nascita: quello di proteggere la popolazione dalla diffusione degli effetti nefasti del consumo droga.
Non siamo noi ad attestarlo. Sono le parole e le statistiche annuali dell’Ufficio delle Nazioni Unite sulle Droghe ed il Crimine che avete trovato nell’infografica d’apertura, e che certificano dal 2006 ad oggi un incremento mondiale di consumatori di droga pari a 67 milioni di unità.
Sono le dichiarazioni della Global Commission on Drug Policy, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, tutte convergenti nel voler porre fine alla criminalizzazione dei consumatori di droga; sono gli articoli e gli studi pubblicati da fonti scientifiche come il British Medical Journal e le voci di intellettuali come Richard Horton, Fiona Godlee e Alexander Shulgin; economisti e premi nobel come Paul Krugman, Milton Friedman e Gary Becker; politici come Kofi Anan, Barack Obama, Jimmy Carter, José Mujica e Louise Arbor. Sono, addirittura, le parole con cui l’ex senatore John McCain ammise che “forse dovremmo legalizzare, stiamo certamente andando in quella direzione per quanto riguarda la marijuana (…)”.
In ultima istanza, sono anche le manifestazioni più o meno quotidiane che segnano il rapporto dell’opinione pubblica con la droga, monopolizzata, nelle ultime settimane, dalla morte di Desirèe Mariottini, la sedicenne deceduta il 18 Ottobre nello stabile occupato di Via dei Lucani 22, a San Lorenzo, dopo essere stata violentata e drogata.
Qui, prima di procedere, a causa della delicatezza del tema e della già ingente campagna di sciacallaggio -mediatico e non- seguito alla vicenda, metteremo le mani avanti: questo non è un manifesto politico, non è una proposta di legge né un editoriale. E’ una riflessione che parte, tra le altre cose, anche da questa vicenda.
Perché la tragica fine di Desirèe è innegabilmente legata all’ecosistema della droga e della lotta a quest’ultima. Se ne traggano le conclusioni che più si credono giuste, ma va preso atto di questo: lo stabile di Via dei Lucani è stato non solo il teatro della tragedia, ma anche in parte la causa di quanto è accaduto.
Luoghi di questo tipo sono la culla di gran parte degli illeciti che riempiono le pagine di cronaca, perché fungono da valvole di sfogo per un variegatissimo sistema di illegalità di cui lo spaccio ed il consumo di droga sono solo la punta dell’iceberg. Illegalità non meglio specificata a cui, per forza di cose, il consumatore si trova ancorato.
La risposta delle istituzioni in merito è stata chiara: fare tabula rasa di luoghi come questi. Eppure gli anni hanno dimostrato l’inutilità del distruggere solamente la manifestazione sintomatica di un problema sociale, senza sfiorare il problema alla radice: una palla da demolizione può far crollare i muri dello stabile a San Lorenzo, ma non la dipendenza dall’eroina da cui sempre più giovani continueranno ad essere affetti.
Il primo tipo di operazione non può non essere accompagnata da una gestione del fenomeno che ne è causa. E ora che San Lorenzo ha una piazza di spaccio in meno a Via dei Lucani, è questione di giorni che ne crei una nuova in qualche via vicina. Esattamente come l’alimentari che si trasferisce dall’altra parte della strada ed avvisa i clienti con un cartello in vetrina.
Questo avvenimento, lo si è detto, è però solo la manifestazione particolare di un sistema in stato di collasso strutturale. Un altro esempio notabile, utile per guardare la faccenda a più ad ampio spettro, è rappresentato dalla situazione statunitense.
Negli USA, da quando nel 1971 Richard Nixon dichiarò l’abuso di sostanze stupefacenti il “nemico pubblico numero 1” del paese, ogni anno si spendono circa 51 miliardi di dollari nella famosa “War on Drugs”, nonostante gli effetti siano stati tutt’altro che positivi: dagli anni 70 ad oggi, sempre in America, ogni anno mezzo milione di possessori o spacciatori finiscono in galera, e la stessa DEA, il corpo di polizia che deve combattere la guerra alla droga ha ammesso che di tutte le sostanze illegali che circolano negli Stati Uniti solo il 10 % viene confiscato. Al punto che ad oggi l’America del Nord detiene il record mondiale nella percentuale di utilizzatori di cocaina nella fascia di età compresa tra i 15 ed i 64 anni (il 2% della popolazione americana in questa fascia d’età).
Le politiche nixoniane non hanno portato ad altro che ad un aumento del prezzo, inflazionato dal rischio che uno spacciatore si assume nel tenere la droga in casa, e ha spinto chi ne è dipendente a spendere sempre di più per ottenere la propria dose e a commettere crimini quando i soldi finiscono e non ci si può permettere di rifornirsi. Per ogni cartello individuato e smantellato, prima che lo spacciatore arrestato possa anche solo iniziare ad abituarsi alla sua cella, un nuovo cartello prende il posto del vecchio.
Dall’analisi di molti assetti normativi come questo emerge come a essere combattuti siano, in primo luogo, i consumatori delle sostanze. Di grande importanza, in tal senso, è il caso delle Filippine di Duterte, dove ha luogo una persecuzione diretta non solo verso gli spacciatori ma anche e soprattutto verso i consumatori, con effetti disastrosi, dimostrando la totale assenza di chiarezza attorno a chi sia il nemico contro il quale intraprendere la guerra.
Nemico che, come sempre più esperti evidenziano, andrebbe ricercato nella dipendenza e nei danni derivati dal consumo di droga, oltre che nel mercato nero, in cui rientra massicciamente il contrabbando di sostanze stupefacenti.
Tutto ciò, connesso alla consistente mancanza di informazione e preparazione in tema (frutto della tendenza statale, giuridica e giornalistica del racchiudere nella categoria della droga centinaia di famiglie di molecole differenti) produce contraddizioni e tensioni strutturali che si manifestano ciclicamente e con prepotenza.
Sono queste le ragioni per cui, proprio in questo momento, ci sembra necessario speculare sull’esistenza di sistemi alternativi al proibizionismo.
L’aspirazione, passando per l’analisi di proposte poco discusse in Italia e molto di più all’estero, grazie a dialoghi con studiosi ed esperti in merito, è quello di tracciare (tra gli opposti estremi del proibizionismo e della legalizzazione, passando per le misure di depenalizzazione) gli ipotetici futuri sviluppi della politiche in materia di droga.
Tra tutti gli ordinamenti legislativi che prevedano un cambio di rotta dalle misure proibizionistiche, per motivi di carattere storico e culturale, il modello impossibile da dimenticare è quello portoghese.
Da qui parte la nostra analisi.
La strategia portoghese, quando prevenire non è meglio che curare

Il primo luglio 2001, il governo portoghese – guidato dal primo ministro Antonio Gutiérres – decide di depenalizzare il consumo di tutte le droghe. Chiunque venga sorpreso in possesso di un quantitativo non superiore ai limiti di legge (un grammo per eroina, ecstasy e anfetamina, 2 per la cocaina e 25 per la cannabis) non è più perseguibile penalmente, ma compie un semplice illecito amministrativo, ricevendo un mandato di comparizione davanti ad un comitato di dissuasione. Qui, davanti ad una commissione composta da un esperto giuridico, un medico ed un assistente sociale, il soggetto affronta un colloquio, durante il quale gli viene chiesto di prendere parte a dei programmi di recupero, solo raramente viene inflitta una sanzione, considerando inoltre che circa l’80/85% dei casi vengono archiviati. La maggior parte di coloro che si presentano sono infatti alle prese con il loro primo illecito, quasi sempre legato a sostanze come hashish o marijuana. Nel caso di condotta illecita ripetuta da parte del soggetto e nel caso questo rifiuti di presentarsi di fronte ai comitati, la prassi è quella di rivolgersi alle forze dell’ordine, che personalmente e periodicamente consegnano all’individuo una notifica, con la quale lo invitano nuovamente a comparire di fronte agli operatori, così da non perdere il contatto con il mondo istituzionale e sanitario, aumentando le possibilità di coinvolgerlo in programmi di riabilitazione. Solamente in caso di continuo rifiuto o di ripetute infrazioni, come il possesso di sostanze oltre i limiti quantitativi di legge, viene applicata una sanzione, pari circa ai costi delle misure prese dal sistema statale per l’individuo stesso. L’unico comun denominatore di tutti i casi rimane comunque la necessità della sussistenza di una base volontaria da parte dell’individuo a prendere parte ai programmi di riabilitazione, senza la quale lo Stato non può intervenire.
Il punto di partenza: la base ideologica ed il contesto culturale
L’idea che sta alla base del sistema adottato dal Portogallo è quella del tossicodipendente-paziente. Invece di criminalizzare chi fa uso di droga, si pone in primo piano la sua malattia e la sua conseguente dipendenza da sostanze, con l’obiettivo di recuperarlo e reinserirlo nella società. Questa nuova concezione giuridica e istituzionale ha portato a grandi cambiamenti nella mentalità della società, abituata a considerare i tossicomani come bestie, liberandola di un’idea tanto dannosa per gli ultimi quanto per sé stessa.
Negli anni ’80, con l’inizio dell’era liberista, scoppiò a partire dal Sud del paese la piaga sociale del consumo di droga. Il Portogallo, imprigionato dal contesto culturale post-dittatoriale di Salazar e rimasto come la Spagna del dittatore Franco in una bolla rispetto al resto del mondo, risentì in maniera impressionante del ritardo storico: nel 1983 si contarono più di 18mila infezioni da HIV, e i dipendenti da eroina negli anni ’90 erano ormai 100mila. L’1% della popolazione si ritrovò nella condizione di non avere alcuna alternativa al carcere: nel 2001 (anno in cui la riforma venne inaugurata) il 41% della popolazione carceraria era composta da detenuti colpevoli di reati legati alla droga, un dato che peraltro fa riflettere se confrontato con l’attuale record europeo, quello Italiano, con il 31%. Il numero di morti per overdose era altissimo e pur non esistendo statistiche in merito, le testimonianze ci raccontano un Portogallo nel panico, con gente continuativamente alle prese con l’eroina e alti tassi di criminalità connessi alla smania di riuscire a comprare la dose quotidiana.
La svolta
Con l’inizio del nuovo millennio l’evidenza del fallimento di tutte le politiche proibizioniste di guerra alla droga si era fatta lampante. Le campagne governative per scoraggiare il consumo non ebbero altro effetto se non quello di peggiorare lo stato di emarginazione sociale degli individui affetti da tossicodipendenza, alimentando nella collettività l’immagine di questi come di individui degenerati. Era necessario un cambio di strategia, e dopo numerose lotte e grazie al lavoro del dottor Joao Goulao, riconosciuto come l’architetto del cambiamento, venne resa effettiva la legge sulle depenalizzazioni.
Il paese non fu esente da critiche per questa sua scelta atipica, la paura era ovviamente quella di un aumento dei consumi. Bisogna considerare che, pochi anni prima, nel 1998, si era conclusa un’assemblea generale dell’Onu con la quale tutti i membri si proponevano l’ambizioso quanto irrealizzabile obiettivo di cancellare la droga ed i suoi effetti nefasti dalla faccia della terra.
In mezzo a questo contesto politico internazionale, il governo socialista in carica in quel momento faceva una scelta coraggiosa e controcorrente, scegliendo l’opzione della “riduzione del danno”.
Con il benestare del primo ministro Antònio Gutiérres, iniziò il cambiamento.
I risultati
Ad oggi l’ONU considera quello portoghese come un modello di riferimento. In seguito all’entrata in vigore delle nuove leggi, le aspettative del governo sono state ampiamente superate.
Contro una media Europea di 17,3 morti collegate alla droga ogni milione di abitanti, il paese ne vanta una di 3 morti ogni milione. Nel 2013 sono morte di overdose 1000 persone in Germania, 2000 nel Regno Unito, 344 in Italia e solamente 22 in Portogallo.
Ma è soprattutto nel campo dei decessi e contagi di malattie legate all’uso di aghi infetti che si hanno i risultati migliori, grazie anche ai numerosi gruppi senza scopo di lucro che si sono venuti a creare e che distribuiscono siringhe, pipette e avvicinano i malati al mondo terapeutico, supportando gli sforzi governativi.
Tenendo conto unicamente dei casi legati all’uso di droga, si è passati dalle 406 nuove diagnosi di HIV del 2007 alle 30 del 2016. A differenza di molte altre nazioni europee il Portogallo mostra un trend calante, spingendo al ribasso quel preoccupante andamento in ascesa del numero di diagnosi in Europa segnalato dall’OMS. Grazie alla nuova riforma completa del sistema sanitario, il Portogallo è riuscito in nove anni a dimezzare il numero generale dei nuovi casi per anno (tenendo conto anche delle trasmissioni per rapporti sessuali non protetti). Si parla di 1433 nuovi casi nel 2007 e di 734 nel 2016, contro i 3668 nel 2007 della Francia e i 3456 del 2016 nella stessa nazione.
Contesto e recupero
Per quanto riguarda la riabilitazione, mentre tutta l’Europa fatica ad indurre al trattamento, in Portogallo il numero delle persone che seguono una terapia sostitutiva è raddoppiato rispetto al passato. Nel 2016, in Inghilterra la Royal Society for Public Health riportava che di fronte all’eventualità di affrontare un problema di dipendenza da sostanze illegali solo un ragazzo su dieci dichiarava di aver fiducia nell’affidarsi ai trattamenti dei centri di recupero.
Uno dei principali deterrenti all’intrapresa di un percorso riabilitativo è il timore di eventuali ripercussioni legali e stigmatizzazioni morali. Chiunque, in un paese proibizionista, non si sentirebbe accolto da uno Stato che criminalizza i suoi disturbi da dipendenza.
In Portogallo il percorso si compie attraverso i vari centri CAT (strutture per il trattamento delle tossicodipendenze) dislocati in tutto il paese, all’interno dei quali, oltre a ricevere una dose di metadone, i tossicodipendenti passano il tempo socializzando con altre persone nella loro stessa condizione e con il personale socio-sanitario, ricostruendo insieme un ambiente di inclusione.
Qualcosa di veramente diverso da un carcere. Questo sistema d’accoglienza ha dato i suoi frutti, oggi 50000 individui seguono una terapia alternativa in centri di recupero (il doppio rispetto al passato), e ancor di più sono quelli che si rivolgono a volontari per analisi del sangue come verifica della presenza o meno di infezioni da malattie come l’epatite o l’HIV, migliorando così la prevenzione attraverso la consapevolezza.
Il contesto culturale è tutto e può salvare moltissime vite, famiglie e posizioni lavorative.
Lo spettro della rivoluzione
A metà tra le posizioni dei sostenitori della fallita guerra alla droga e quelle dei liberali che vorrebbero una liberalizzazione vera e propria del commercio, si trova quindi la strategia Portoghese, con tutte le possibili incongruenze del caso.
Su tutte, la contraddizione più notabile è quella per la quale ad essere depenalizzato è esclusivamente il consumo di droga, mentre non viene in alcun modo normata la modalità di acquisizione delle sostanze, facendo sì che la grande parte della popolazione possa rivolgersi al mercato illegale, con tutte le complicazioni annesse al caso.
In tal senso il SICAD ha dichiarato che la nazione vuole prendersi tutto il tempo necessario per valutare un’opzione di legalizzazione vera e propria, attendendo dati statistici in merito e altri studi che ne possano supportare la validità della misura.
Ad ogni modo il modello del Portogallo ha significato un vero punto di svolta in merito alla questione della tossicodipendenza, al punto che sempre più istituzioni stanno prendendo provvedimenti nella stessa direzione dell’ex governo portoghese. Tra queste vi è la Norvegia, mossa dal suo grande fardello di morti per droga, che a febbraio dello scorso anno ha inviato in Portogallo dei membri della Commissione Salute del Parlamento per osservare da vicino l’applicazione della legge 30/2000 con l’idea di trapiantarla in patria.
La strada, da qui in futuro, è tutta da disegnare.
O tempora

Le opportunità, le sfide e le contraddizioni del cambiamento tra medicina, scienza e politica
A distanza di quasi vent’anni dal suo avvento, la statistica cardine attraverso la quale è più utile leggere gli effetti della riforma portoghese, è, prim’ancora che di natura giuridica o economica, di natura medica. Rispetto alla condizione lusitana di allora, e soprattutto all’attuale condizione della media europea, i dati medici sul presente del Portogallo verificano un dato che ha cominciato a rivoluzionare l’approccio della politica globale in materia: la depenalizzazione del consumo non violento di droga riduce il danno medico-sociale derivato dal suo utilizzo.
Così, nel giugno del 2011, un gruppo transnazionale di politici ed intellettuali, riuniti nella Global Commission on Drug Policy, pubblica un rapporto sullo stato e l’efficacia delle misure inaugurate nel 1961 dalla Single Convention on Narcotic Drugs, evidenziando come “l’investimento economico nella criminalizzazione e nelle misure repressive dirette nei confronti dei produttori, dei trafficanti e dei consumatori di sostanze illecite abbia fallito nell’obiettivo di diminuire la domanda ed il danno derivato il consumo di droga”. La commissione raccomandava, altresì, di “porre fine alla criminalizzazione e alla stigmatizzazione delle persone che consumano droga senza arrecare danni a soggetti terzi”, incoraggiando l’adozione di misure alternative al proibizionismo.
L’anno precedente le stesse posizioni erano state condivise dal relatore speciale per il diritto alla salute delle Nazioni Unite, Anand Grover, e da Fiona Godlee, attuale caporedattore del British Medical Journal. Queste pubblicazioni segnano un punto di svolta nella trattazione del problema sulle droghe, specializzando la discussione verso orizzonti diversi da quelli considerati a partire dagli anni ’60 del Novecento. Mosse dalla constatazione degli effetti avversi prodotti dalle leggi esistenti in materia, e supportate dalla presenza di statistiche incoraggianti rispetto l’esistenza di modelli alternativi, sempre più istituzioni scientifiche cominciano a produrre studi e ricerche in merito: il mondo medico si ritrova ad incarnare, in questi anni, il più consistente contributo all’avanzamento del dibattito istituzionale in merito alle politiche sulla droga.
Nel 2012 esce allo scoperto Richard Horton, editore del Lancet, ammettendo che “finché continueremo a vedere il consumo di droga come una questione criminale e non sociale, continueremo a peggiorare la vita di coloro vengono a contatto con la droga, anziché migliorarla”. Gli fanno seguito nel 2014 le parole dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità, e nel giugno 2015 quelle dell’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che statuisce la necessità di considerare alternative alla criminalizzazione e all’incarcerazione dei consumatori di droga. Nel 2016, la Royal Society for Public Health divulga il rapporto “Taking a new line on drugs”.
La prefazione, a cura della dottoressa Fiona Sim OBE – ex direttore della RSPH – e del professor John Middleton – presidente della Faculty for Public Health – riprende le posizioni di Richard Horton, mettendo in luce come durante il ventesimo secolo il discorso sugli stupefacenti sia stato dominato “dal mantra che l’utilizzo di droga costituisse, anziché una questione di medica, un’attività criminale”, amplificando il danno derivatone. A conti fatti, il meccanismo del danno si innesterebbe “attraverso un gradiente etnico e socio-economico”, facendo in modo che l’uso di sostanze illecite “peggiori le disuguaglianze sanitarie, alimentando lo stigma del casellario giudiziario, la violenza e la disgregazione sociale”. Nel 2018, in una dichiarazione rilasciata al British Medical Journal, segue l’endorsement del Royal College of Physicians, uno dei maggiori e più influenti enti medici del Regno Unito.
Ma lo stesso anno il BMJ, in un editoriale a firma della medesima Fiona Godlee incontrata poco sopra, si spinge oltre.
Strade differenti
Il contenuto dell’articolo del BMJ eccede di gran lunga il concetto di depenalizzazione.
La teoria, riassunta dal titolo dell’editoriale, è che le droghe, tutte, vadano “legalizzate, tassate e regolate”.
Il concetto, ad ogni modo, non è nuovo. La sesta edizione del rapporto annuale della GCDP, edita nel 2016, dedica un capitolo – seppur di sole due pagine – alla materia in questione. Anche in questo caso la titolistica (“Regulating drugs market: the logical next step”) è riassuntiva del contenuto.
La tesi della GCDP raccoglie le problematicità e le incertezze metodologiche evidenziate nell’analisi del modello portoghese, sostenendo che seppur conveniente rispetto alle attuali misure in materia di droga, “nell’ambito di un sistema di decriminalizzazione, la società è ancora vulnerabile agli effetti negativi del commercio illegale ed i consumatori di stupefacenti sono sottoposti ad un importante fattore di rischio, dovendo navigare nelle incertezze di un mercato illecito e non regolato”.
Il BMJ, per mezzo delle parole del suo esperto in materia, Richard Hurley, ci ha sottolineato l’importanza di questo tema. Partendo dalle dichiarazioni del direttore dell’International Narcotics Control Board delle Nazioni Unite, secondo il quale la depenalizzazione dell’uso di droga, come ha fatto il Portogallo nel 2001, rappresenta la “migliore pratica” considerando che l’uso di droghe non sembra aumentare in modo sostanziale con questo cambiamento di politica, il dottor Hurley ci ha spiegato come il BMJ “concordi sul fatto che la depenalizzazione dell’utilizzo di droga sia essenziale, ma senza mercati di approvvigionamento regolamentati, i consumatori comprerebbero ancora droghe non regolamentate di contenuto e purezza sconosciute da reti criminali violente (…). Passare a mercati controllati legalmente è più controverso, ma soprattutto per la cannabis ci sono state alcune richieste di alto profilo. Altre giurisdizioni hanno mercati legali della cannabis, incluso il Canada dalla scorsa estate, e dovremmo valutare l’impatto di questa riforma sul danno”.
D’altra parte “è importante notare che queste riforme non saranno sufficienti da sole; sono semplicemente stimolanti: anche l’investimento in sufficienti servizi pubblici di istruzione e trattamento è necessario”.
L’idea, della legalizzazione, considerando queste opinioni, è tra le più intriganti. Sulla carta, le ipotetiche conseguenze della sua applicazione – non diverse da quelle solitamente citate nell’ambito delle proposte di legalizzazione della cannabis, unica sostanza per la quale il discorso qui in atto è stato completamente sdoganato – potrebbero offrire soluzione ad una variegatissima moltitudine di problematiche legate da decadi al consumo di droga.
Esse potrebbero – a grandi linee e con la dovuta precisazione delle limitatezza di questa suddivisione – essere riassunte in due categorie: quella comprendente i benefici di natura medico-sociale, e quella raggruppante i vantaggi di natura politica e giuridica.
Da un lato si fa ritorno al discorso col quale si è aperta questa sezione, con la possibilità di controllare le sostanze messe in commercio e diminuendo il danno derivato da procedimenti produttivi controllati ad oggi dalla malavita e finalizzati in unica istanza a massimizzare il profitto derivato dal mercato illegale. Questo, assieme alla cessazione del procedimento iconografico che ha legato la figura dell’utilizzatore di droga a quella del criminale (con tutti i suoi annessi aspetti di natura penale, ivi compreso il rischio di incarcerazione) faciliterebbe l’avvicinamento del soggetto ad un percorso di recupero, minimizzando l’impatto sociale ed economico della questione del consumo di droga.
Le conseguenze giuridiche e politiche affetterebbero due direzioni, quella della lotta alla criminalità e quella riguardante la situazione processuale e carceraria (la legalizzazione contribuirebbe a snellire la popolazione carceraria ed i tempi e le spese legate ai processi giuridici per uso e spaccio di droga).
Il primo punto contiene due riflessioni. Senza dubbio, la più considerata è quella per la quale grande parte dell’importo globale derivato dal commercio illegale di droga (234 miliardi di sterline al 2018) affluirebbe dai forzieri della criminalità organizzata nelle singole casse demaniali, con la conseguenza di diminuire ricchezza e potere economico delle organizzazioni criminali e la pericolosità derivata dal loro operato (solo in Messico le morti dovute al narcotraffico si attestano sopra le 8000 annue dal 2009, con picchi superiori alle 12000 nel triennio 2010-2012).
La seconda riflessione riguarda la possibilità di spezzare il già citato connubio che ad oggi lega il consumatore di droga ad un ecosistema di diffusa illegalità (segnato, per fare due esempi, dalla necessità di delinquere per permettersi le sostanze e da quella di consumare queste ultime in luoghi privi di qualsivoglia sicurezza come lo stabile abbandonato nel quale è deceduta Desirèe Mariottini).
Questo, almeno idealmente. Nella realtà, in cosa si tradurrebbe concretamente questa riforma?
Tradurre la teoria
Storicamente, procedendo nuovamente in maniera dialettica ed eludendo la questione etico-morale, le obiezioni alla legalizzazione delle droghe sono state di due ordini: la convinzione della assoluta incompatibilità economica dello stato rispetto alla criminalità organizzata nell’ambito della prezzatura delle sostanze in vendita, e la difficoltà nell’elaborare una effettiva metodologia pratica di messa in vendita delle sostanze.
La questione dell’elaborare una modalità con la quale il mercato di droga possa essere aperto alla comunità non è affatto banale, al punto che dal BMJ, alla domanda su come debbano strutturarsi i posti deputati alla vendita delle sostanze e le loro modalità di acquisizione, il dottor Hurley ci fa notare l’impossibilità di “immaginare una soluzione unica ai problemi complessi rappresentati dalle singole droghe”. Ancora una volta, il criterio decisionale è quello della minimizzazione del danno e la politica operativa dovrebbe “dipendere dalla singola sostanza”.
“Dovremmo considerare”, ci dichiara Hurley, “le prove derivate dai vari modelli di regolare le droghe ad oggi legali come tabacco, alcol e caffeina”, di fondo, per ognuna di queste molecole psicoattive, la giurisdizione è diversa: “al momento nel Regno Unito i maggiorenni possono acquistare l’alcol nei negozi e questo è tassato, ma alcuni farmaci sono disponibili solamente con l’approvazione di un dottore (…). Esistono esempi internazionali di rivendite di cannabis e di dottori che prescrivono eroina a scopo medico (riferimento alla terapia svizzera XXX – NdR)” .
Simili considerazioni seguono sulla possibilità di registrare gli acquirenti o di restringere l’accesso al mercato a parte della popolazione in funzione dell’età e della condizione fisica: ugualmente, questa possibilità dovrebbe dipendere dalla sostanza, anche se la vendita di alcune “potrebbe essere disponibile solamente per mezzo di una prescrizione medica” mentre “l’accesso al mercato dovrebbe certamente essere vietato ai bambini e la pubblicizzazione del consumo non dovrebbe essere consentita”.
Di fronte alla questione sull’appropriatezza medica di limitare la vendita di specifiche categorie di sostanze capaci di sortire effetti collaterali al di fuori della loro emivita a specifiche categorie di lavoratori come medici o piloti, dal BMJ ci evidenziano come il problema non debba nemmeno potersi porre. Stante l’effettiva possibilità di sviluppare sindromi psicotiche e disturbi persistenti da allucinogeni, “attualmente alcuni lavoratori come medici e piloti sono già soggetti a regole stringenti in merito all’assunzione di droghe (compreso l’alcol), a controlli medici e a test antidroga regolari e casuali. Questo non ha nulla a che fare con il fatto che il rifornimento di droga sia regolato o meno e non è necessario mutare questo sistema di controllo (…)”.
D’altronde, fa eco il radicale Marco Perduca su questo tema, “sappiamo che tanta gente che lavora in borsa fa uso di cocaina, qualcuno ha mai fatto uno studio su quanto guadagna un trader per sé stesso e per i suoi cliente se fa o non fa uso di cocaina? Ci sono delle leggi che proibiscono la guida in stato di ebbrezza, è chiaro che queste leggi rimarranno (…). Andranno regolamentate ulteriormente le situazioni di possibile rischio per chi assume queste sostanze e per le persone con cui sono costretti ad interagire per motivi professionali (…). Saranno inseriti dei meccanismi onde evitare il pericolo per gli altri a seguito di una libera scelta”.
La questione di ordine economico può essere affrontata a partire dalle parole del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri – pronunciate all’indomani dell’endorsement a favore della legalizzazione della cannabis di un altro magistrato, l’allora procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco de Roberti -, che in un’intervista a Repubblica, mise in risalto che “le mafie per coltivare canapa o importarla dall’estero non pagano luce, acqua e personale, se lo Stato legalizzasse invece dovrebbe assumere operai, pagare acqua, luce, il confezionamento, il trasporto. (…) Solo in pochi si rivolgerebbero al mercato ufficiale, altri preferirebbero il mercato nero.”
La preoccupazione è che nell’ambito di un sistema che veda legalizzate tutte le sostanze lo stesso problema possa ripresentarsi, acuendosi. Difatti, specie considerando sostanze quali le droghe sintetiche ed i derivati di cocaina ed eroina, ai costi elencati pochi attimi fa si dovrebbero sommare quelli derivati dalla produzione e dalla raffinazione della droga in ambiente sicuro e con l’utilizzo di sostanze e precursori non tossici. Voci di spesa che ad oggi la criminalità organizzata riesce a minimizzare proprio attraverso l’abuso di composti di raffinazione estremamente nocivi.
Da parte del dottor Hurley, però, la raccomandazione è quella di non accelerare troppo nel voler trarre delle conclusioni, e difatti la decisione sul come implementare un sistema di questo tipo nel miglior modo possibile “dovrebbe essere basata su delle prove (…). I prezzi e l’accesso alla vendita delle sostanze dovrebbero essere regolati in modo da causare meno danni al consumatore, in linea con le prove raccolte”. A conti fatti, le persone “non sceglierebbero di assumere sostanze impure e di scarsa qualità se informati della disponibilità di droghe di qualità e dosaggi certificati”, inoltre, come già sperimentato in Svizzera, “non è detto che debba esserci un costo per il consumatore, ad esempio, i pazienti con dipendenza da eroina potrebbero ottenere la droga dietro prescrizione medica, con la possibilità di ottenere consiglio medico e ricevere un trattamento”.
Ma Perduca aggiunge altro: “Ancora oggi c’è comunque un contrabbando di sigarette. Prendiamo ad esempio dei posti in cui la legalizzazione delle droghe leggere è avvenuta: Colorado e California. Nei quartieri poveri del Colorado, dove nessuno apriva negozi è rimasta una presenza di mercato nero. La gente non va in centro a comprare la roba ma dietro casa più meno allo stesso prezzo, magari con una qualità peggiore. Il modo con cui uno distribuisce i punti vendita ha una sua rilevanza (…). La California è andata oltre: ha provato a convincere chi già commerciava illegalmente a cominciare a farlo legalmente. Lo spacciatore, che ha una sua clientela ha delle facilitazioni per aprire un negozio nella sua zona e iniziare a commerciare cannabis legale. In maniera intelligente bisogna evitare che la gente che vive nella criminalità continui a farlo: non va opposta all’ideologia proibizionista l’ideologia antiproibizionista, perché sennò si passa dal monopolio della criminalità organizzata all’oligopolio dei grandi gruppi.”
La sensazione, data anche dalla novità assoluta della riforma proposta e dalla conseguente mancanza di dati effettivi attraverso i quali leggere gli scenari che potrebbero presentarsi, è quella di navigare a vista. Ovvero, che date tutte le necessarie riflessioni iniziali, la prova del nove possa essere costituita solo da una reale sperimentazione pratica, sulla base della quale, ancora secondo le parole del BMJ, “la situazione e le evidenze raccolte dall’operato dei vari mercati dovrebbero essere monitorate, spingendo la politica a cambiare laddove fosse necessario.”
Il futuro
Più di questo, ad oggi, non si può dire. Se però, sulla base delle idee costruite sino a questo punto e delle nostre – davvero povere – competenze, volessimo sbilanciarci nell’indicare una strada, lo faremo indicando l’ignoto.
Se è vero che non abbiamo dati sui possibili effetti di un’eventuale legalizzazione di tutte le sostanze ora catalogate come droga (e fermo restando la grande dipendenza dall’efficacia di una riforma del genere dalle sue effettive modalità di attuazione), è anche vero che esistono migliaia di dati sugli effetti del proibizionismo e della criminalizzazione dei consumatori di droga, e tutti evidenziano l’emergere di un quadro profondamente fallimentare. Giunti a questo segno non resta che cercare nuove strade.
Con i contributi di

B.C.
Redattore

Adriano Bordoni
Redattore

Simone Massari
Redattore

B.C.
Redattore
Hanno collaborato

Anna Laura Lozupone
Redattrice