Era fine maggio del 2021 l’ultima volta che usciva questo mensile. Alla domanda cosa avete fatto in questi due anni si deve combattere una tendenza spontanea a non mettersi troppo in discussione. Per questo la cosa più corretta è dirlo subito: il numero che avete tra le mani è, più di ogni altra cosa, la risposta a una crisi.
Nel rilanciare un progetto di crescita proiettato al futuro si rischia di scordarsi il valore di quei momenti strutturali di dubbio, esitazione, paura che determinano le vite di tutti noi, e forse ancora di più, le vicende collettive.
Chi scrive ha fondato questo progetto da minorenne, quando serviva l’autorizzazione di un genitore per uscire da scuola e bisognava dichiarare il falso per accedere a un sito porno.
I cambiamenti sono troppi per elencarli qui e toccano molti ambiti delle nostre vite.
Riguardano le idee politiche, le proprie conoscenze, il modo di pensare se stessi e gli altri, le possibilità e gli orizzonti che un’esperienza come Scomodo ci ha aperto.
Ma sono anche cambiamenti personalissimi, che hanno a che fare con la propria storia individuale. Negare questo vuol dire essere poco sinceri con sé e con le persone che hanno creduto in noi in questi anni.
Il motivo che ci ha portato a fare Scomodo era una spinta personale di disagio, dato dal vivere un contesto che non ci apparteneva. Non ci ostacolava apertamente. Non ci ignorava del tutto. Non appariva come un nemico ostinato e non era facile da identificare. Un nemico che ti vergognavi un po’ a chiamare così, ma che aveva un peso enorme nella nostra vita e in quelle dei coetanei intorno. Rendeva impossibile uno spazio generazionale e delegittimava la voglia di autorappresentarsi.
Interveniva sulla narrazione di noi stessi, logorava la fiducia negli altri e le possibilità di costruire verso strade alternative o di decostruirne altre considerate inevitabili.
Nel nostro caso la vera scelta e opportunità è stata dare, con impegno e responsabilità, una risposta collettiva a una domanda che pensavamo personale e, nel corso degli anni, abbiamo scoperto essere condivisa da tante e tanti di noi.
Questo è il tema della nostra crisi. Trovare il senso di continuare a costruire attraverso esperienze di vita compromettenti. Vicende che non sono a margine della propria vita, che non sono hobby, ma che investono nel profondo tanti piani della propria esistenza. Farlo per noi è sempre stato un gesto politico. Non lasciare che il disagio resti un fastidio privato di sottofondo, renderlo una faccenda pubblica.
Parlare di crisi oltre che per parlare di noi stessi ci sembra il modo migliore per parlare della nostra generazione. Siamo figlie e figli di tante crisi. Siamo cresciuti con questa parola annunciata ai telegiornali e pronunciata di continuo nei discorsi a tavola, l’abbiamo assorbita e fatta nostra. Crediamo che la crisi abbia influenzato una parte importante della percezione di noi stessi, del rapporto con la propria vulnerabilità e delle modalità con cui desideriamo il cambiamento.
Alcuni tratti profondi di chi siamo sono condizionati da questo. Accettarlo ci sembra un passo per riconoscerci come comunità generazionale con delle caratteristiche tutte nostre.
La sfida è indirizzare verso proposte nuove e di cambiamento reale una nuova sensibilità politica e sociale che si sta delineando. Avere il coraggio di determinarsi come gruppo, come epoca. Siamo persone che vivono la più importante crisi climatica di sempre, l’evidenza del fallimento del sistema economico egemone, una percezione nuova della dimensione di individuo. Il peso di una realtà ultra-competitiva, il rafforzamento di mutamenti sociali profondi che accrescono il senso di solitudine e di distanza.
I dubbi degli ultimi due anni hanno riguardato lo scopo del nostro agire in un contesto così complesso e incerto. L’utilità concreta della nostra progettualità, il senso delle proprie idee, il rischio di fare le cose solo per paura di rimanere fermi o di non farle per paura di sbagliare, la coerenza verso di sé e la paura di compromettere il proprio futuro. Una cognizione diversa delle difficoltà che viviamo in questo tempo storico in cui ha contribuito in maniera determinante La Redazione di Roma (il nostro spazio aperto al pubblico nel 2020 e vissuto giorno dopo giorno da centinaia di ragazze e ragazzi) che ci ha messo in contatto quotidiano con disagi e sofferenze di migliaia di giovani nel post-pandemia.
Dobbiamo continuare a fare quello che facciamo? Non c’è stato un giorno in cui ci siamo detti di sì. Abbiamo continuato a farlo e dopo un po’ quel tempo trascorso ha avuto un valore affermativo.
Questo ha rappresentato un’evoluzione importante, una messa in discussione che ha portato a una nuova progettualità sul futuro, a un nuovo modello economico, allo sviluppo di idee, prospettive e visioni diverse. La possibilità che Scomodo diventasse un’opportunità di lavoro, di crescita professionale, che fosse sostenibile e in grado di durare nel tempo.
Questo percorso di evoluzione è stato possibile grazie alla fiducia diffusa di persone diverse legate alla storia di questo progetto, persone che si sono aggiunte lungo la strada e hanno scelto di sostenerci materialmente e umanamente senza pretendere o aspettarsi nulla in cambio.
In questo momento della nostra storia vogliamo diventare sempre di più un punto di riferimento per le nuove generazioni, per poter difendere, denunciare, concretizzare e innovare. Vogliamo essere in grado di incidere nella vita pubblica di questo Paese.
Un percorso di questo tipo deve, secondo noi, avere tre impegni principali verso gli altri.
Il primo è riconoscere che solo in una prospettiva di lungo termine, che ragiona in decenni e non in mesi, è possibile parlare con il dovuto rispetto di cambiamento. È doveroso quindi orientare il proprio agire attraverso questa consapevolezza.
Il secondo è operare in una dimensione collettiva. Il confronto con l’altro come esercizio costante è per noi l’unico modo di proporre un’azione politica capace di sostenersi nel tempo, di evolvere e di avere cura del mondo intorno.
L’ultimo impegno è di non utilizzare le battaglie generazionali come uno spazio di visibilità personale a cui ancorarsi. Per questo lavoriamo per progettare uno Scomodo in grado di sostituire noi gruppo di fondatori (chi scrive è classe ‘99, ma i ‘03 ci guardano come fossimo cinquantenni con il mutuo a tasso fisso) nel corso degli anni e rendere il progetto uno strumento a disposizione di un insieme complesso come quella delle «nuove generazioni» che cambia sistematicamente la propria comunità di riferimento, le proprie istanze e rivendicazioni.
Dopo sette anni la campagna di lancio di questa nuova fase è affidata a una copertina bianca e a un’idea: le pagine da scrivere servono ancora.
Viviamo in un’epoca storica di complessità enormi. Proprio per questo è centrale rafforzare la percezione generazionale che la storia non è finita e molto dipende da noi. Vivere nel 2023 ci impone di immaginare soluzioni nuove, costruire modelli di vita alternativi, coltivare con serietà la propria capacità di ascolto, mettere in discussione tanto di ciò che abbiamo ereditato.
Crediamo che il mondo di domani dipenda dalle scelte consapevoli di chi quel mondo lo abita, nella volontà di agire avendo delle idee e organizzandosi per difenderle. Di battersi per chi non ha il proprio stesso privilegio, qualunque esso sia.
Della necessità in questo presente di credere che la nostra non è una storia minore, che abbiamo una responsabilità politica rispetto al mondo che abiteremo. Responsabilità che ci impone di ripensare la nostra società, di riflettere sulle sofferenze, di farlo con coraggio nel rispetto delle diversità e delle condizioni di partenza. Di pensare che i geni non sono tutti morti. Non tutto quello che bisogna fare è stato fatto. Non tutto quello che c’è da dire è stato detto.
I cambiamenti, le lotte, le trasformazioni sono ancora possibili.
Per noi le pagine da scrivere servono ancora.