I segnali sono chiari: le temperature si alzano, le piogge diminuiscono, e i fenomeni naturali estremi sono sempre più frequenti. Tutto questo ci obbliga a una maggiore responsabilità e ci chiama a introdurre nel nostro stile di vita scelte sempre più sostenibili, anche quando si tratta di vestiti.
L’esplosione del mercato vintage e dei business handmade sembra aver apportato una netta inversione di tendenza nel modo di vestire delle nuove generazioni. Negli anni passati si è assistito allo spopolare dei brand di fast fashion, catene che consentivano di vestire alla moda spendendo poco. Vista la grande richiesta, si è a lungo incoraggiato un sistema di produzione dai ritmi folli, basato sullo sfruttamento lavorativo e ambientale privo di alcuna regolamentazione. Ora che le problematiche legate a questo tipo di produzione, e ai rischi che esso comporta, sono chiare e sotto gli occhi di tutti, non si può più trascurarle. Così le grandi maison remano verso metodi produttivi più eco-friendly, rimanendo però inaccessibili per le tasche dei più. Un’alternativa che possa permettere di acquistare capi sostenibili dai prezzi abbordabili senza rinunciare alla qualità è quella rappresentata dal mondo dell’usato e dell’handmade.
Quando si parla di “second hand” ci si riferisce ad abiti usati che vengono messi in vendita poiché ancora in ottime condizioni. Il termine “vintage” restringe il cerchio, etichettando come tali solo capi che hanno più di 20 anni. I vantaggi che queste due tipologie di acquisto consentono sono molteplici, il primo è il poter comprare a poco vestiti dalla qualità nettamente superiore rispetto quelli proposti dalle industrie di fast fashion. I maggiori consumatori del settore sono GEN Z e Millennial, ed è proprio tra queste ultime generazioni che l’acquisto di capi usati è diventato una vera e propria moda. Secondo i dati emersi dall’Osservatorio Second Hand di Doxa, la continua crescita in Italia del mercato dell’usato in generale ha raggiunto nel 2021 un valore economico di 24 miliardi di euro, pari all’1,4 % del PIL nazionale. Dalla ricerca emerge che centrale per la crescita di questo settore è stato l’online, che nel 2021 ha costituito quasi il 50% del volume d’affari totale per un valore di 11 miliardi di euro, il doppio rispetto al 2014.
Internet ha contribuito in maniera fondamentale anche alla nascita di nuovi small business di prodotti fatti a mano. Grazie alla visibilità che offre, ha consentito di trasformare quelli che sembravano essere hobby in veri e propri brand, offrendo ai nuovi artigiani un’importante vetrina in cui mostrare le proprie creazioni.
Perché il vintage?
Diverse ricerche provano a spiegare le ragioni per il crescente interesse verso l’abbigliamento vintage.
Secondo uno studio (Cervellon, 2012), che esamina l’acquisto di capi vintage da parte delle donne, le motivazioni principali che spingono a questa scelta sono in primis una passione per la moda e una tendenza alla nostalgia, ma anche il bisogno di distinguersi. Vi è, inoltre, il bisogno di quella unicità che caratterizza il capo d’abbigliamento e che si coniuga all’interesse per la caccia a prezzi vantaggiosi. Ciò si ricollega anche al bisogno di frugalità ed “eco-coscienza” che sono percepite a prescindere dall’età, la quale non risulta un fattore determinante sull’acquisto di capi vintage. Lo studio del 2012 rivela che i consumatori vintage possiedono in media un livello più elevato di istruzione e redditi più elevati rispetto a chi acquista abiti nuovi. La nostalgia, secondo i ricercatori Bambauer-Sachse e Gierl (2009), porta i consumatori a tentare di ricreare alcuni aspetti della vita passata tramite oggetti che rievocano loro quei momenti. Ricercare i trend della moda del passato potrebbe portare chi acquista vintage a sentirsi più vicino a tempi percepiti prevalentemente come idilliaci. È stato anche empiricamente dimostrato che le campagne di marketing basate sulle emozioni nostalgiche hanno più possibilità di spingere una persona all’acquisto. Per questo motivo, nel mondo della moda si assiste ai revival di capi che hanno avuto successo nel passato. Un oggetto che ricorda l’infanzia o un’epoca vissuta porta a proiettare la persona in quel periodo. I capi vintage trasmettono sicurezza in un mondo di incertezze dove le innovazioni si susseguono e i fenomeni che cambiano la realtà sono molteplici. In un mondo che appare inautentico, sempre gli stessi ricercatori, hanno scoperto che i consumatori preferiscono i capi vintage per il loro senso di familiarità, appartenenza o voglia di appartenere a un determinato gruppo culturale. I capi vintage sono stati realizzati nel passato, con materiali tradizionali, in modo artigianale e in contrapposizione alla serialità del fast-fashion. Sono “autentici” perché sono stati “lanciati prima” nel mercato rispetto ai vestiti del presente, quindi vengono percepiti come genuini. In più, incarnano i valori dell’epoca e della cultura a cui appartengono, più comprensibile e meno commerciale del presente. A questo discorso è collegata anche la ricerca della qualità da parte dei consumatori, che si riscontra sia nei materiali sia nelle tecniche di produzione.
Per quanto riguarda l’unicità dei capi di abbigliamento invece, i ricercatori Chandon, Laurent & Valette-Florence (2016) hanno notato che chi acquista vintage di lusso può essere spinto dalla motivazione di distinguersi e mostrare un certo status sociale. Il vintage è considerato un modo per esprimere la propria identità e personalità. Vestire vintage significa, inoltre, rappresentare un’ideologia. La contrarietà al fast-fashion, alla produzione non sostenibile, ma anche la voglia di contrapporsi ai vestiti indossati dalla massa permette a chi acquista di cercare una soluzione alternativa. Un capo vintage ha un significato storico e particolare e non solo: il comportamento d’acquisto delle generazioni più giovani è caratterizzato anche dalla sensibilizzazione della produzione sostenibile, che interviene al momento di fare un acquisto selezionato e poco impattante sull’ambiente. In uno studio condotto su negozi di abbigliamento vintage in Cina si legge che il 96% dei consumatori intervistati è giovane (nato tra il 1990 e il 2000) ed è guidato in primis dal motivo del “divertimento della caccia al tesoro”. La motivazione economica, intesa come desiderio di risparmiare rispetto a un capo nuovo, non è scontata. Gli abiti vintage, infatti, non sono necessariamente usati. Un capo vintage può (o meno) essere usato, così come un usato può (o meno) essere vintage. Ciò che è vintage può essere stato semplicemente replicato oppure essere durato nel tempo.
Il lavoro di un seller vintage
Si può comprare vintage affidandosi ormai a molte realtà diverse. Esistono differenti negozi che trattano esclusivamente capi vintage: tra di essi troviamo anche delle catene, come ad esempio Humana Vintage, i cui punti vendita si trovano in più di una città italiana. Affianco a queste grandi realtà, troviamo anche la più importante piattaforma digitale dove i singoli possono vendere i propri capi che non indossano più: Vinted. Sebbene non sia l’unica applicazione per la vendita di vestiti e oggetti che non usiamo più – oltre ad essa esiste, ad esempio, Depop – è sicuramente quella con la maggiore diffusione.
A queste grandi realtà fanno da contraltare piccoli negozi di quartiere o addirittura singoli individui che non hanno un negozio fisico, ma vendono tramite il proprio sito internet o tramite i propri canali social. Si ha a che fare, in questi casi, con veri e propri “artigiani del vintage”, persone che si prendono cura dei prodotti che vendono capo per capo. Per essi la sfida è accaparrarsi quelli che loro ritengono dei veri e propri gioielli, capi unici di cui prendersi cura come dei restauratori, per poi rimetterli sul mercato per donare loro una nuova vita. Chi sta dietro a questo tipo di lavoro coniuga sicuramente una sensibilità alle tematiche ambientali e di sfruttamento del lavoro legate all’industria fast fashion con una grande passione per l’industria della moda e la sua storia. In Italia, paese in cui questa industria ha un peso piuttosto importante, sia a livello economico che soprattutto culturale, questo fenomeno si è sviluppato quasi come tentativo di conservazione e divulgazione del passato del Made In Italy sartoriale. È quasi come se la tendenza tipicamente occidentale alla conservazione del bene culturale si sia trasposta, nell’ultimo decennio, anche su questa fetta di produzione, ovvero quella della moda. Ed è interessante che tutto questo si stia sviluppando a partire dal basso, partendo da singole persone che grazie a una loro passione e attraverso un percorso di sensibilizzazione collettiva al consumo consapevole anche dei capi di abbigliamento, si “prendono cura” degli abiti che successivamente venderanno. John Walsh scriveva, in un articolo per The Independent, “vintage is about looking forward through the window of the past” (Il vintage è guardare il futuro attraverso la finestra del passato) – proprio quello che fanno queste persone, prendendosi cura dei capi vintage e rimettendoli nel mercato: dare un occhio al futuro, utilizzando capi che non inquinano, attraverso la dimensione del passato. Un esempio di questo meccanismo di vendita può essere quello della seller vintage Sonia Brienza (@cosedisoso su instagram). Sonia è un perfetto esempio del fenomeno di accrescimento del mercato del vintage: se prima vendeva tramite dei drop sul suo profilo instagram, proprio di recente ha aperto un suo sito internet e spostando le vendite lì. Il suo lavoro è interessante perché, oltre a selezionare capo per capo quello che propone al suo pubblico, ad apporre dei piccoli aggiustamenti o fare qualche modifica quando possibile, si occupa anche di raccontare la storia dei brand che tratta, coniugando quindi la vendita con un lavoro di divulgazione. Questo modo di operare è profondamente artigianale: la cura e l’attenzione per i capi sono coniugati con l’amore per la moda e la sua storia.
Una nuova realtà: Small Businesses
Un altro tipo di mercato di vestiario alternativo al fast fashion è quello costituito dagli small businesses che producono capi fatti a mano. Uncinetto, ferri, sartoria, orecchini, collane e chi più ne ha più ne metta: se si cerca bene e a fondo su Instagram è possibile trovare una quantità notevole di pagine in cui ragazzi e ragazze mettono in vendita le loro creazioni. Un fenomeno che ha avuto una crescita esponenziale nel periodo successivo alla prima ondata della pandemia Covid-19, in quanto nel periodo di lockdown molti giovani trovandosi a casa senza molto da fare hanno iniziato a sperimentare creando i loro capi. Un po’ per noia, un po’ per creare un’alternativa al fast fashion – molti di questi business hanno alla loro base la voglia di creare qualcosa di alternativo al consumo compulsivo di capi e di sostenibile a livello di impatto ambientale – si è verificato una vera e propria proliferazione di questo tipo di progetti. Il fenomeno è fortemente connotato a livello generazionale: sono i ventenni che producono questi oggetti e sono i ventenni che li comprano, utilizzando come tramite la vetrina di instagram. Tutto questo si basa molto sul passaparola e sullo scambio di pubblicità tra le varie realtà, che finisce inevitabilmente per andare a creare una vera e propria community, virtuale e non, che raccoglie diversi i small businesses. Su Milano, come raccontatoci da @due.cinetti si è creata una vera e propria community che è sfociata poi nella realizzazione di mercatini autonomi dove tutte queste piccole realtà potevano farsi conoscere nei quartieri andando a intercettare anche una clientela al di fuori dei social e quindi allargare la propria clientela. Tutto questo è stato possibile grazie anche alla collaborazione del consigliere del Municipio 6 di Milano, Nicola Orlando, e ad altre realtà locali di quartiere, che hanno offerto i loro spazi per organizzare questi mercatini.
Molti di questi small businesses nascono con la consapevolezza che ciò che viene prodotto è alternativo al fast fashion. La volontà di chi produce questi capi è di opporsi alle logiche di sfruttamento del lavoro puntando a un prodotto che richiede tempi lunghi di progettazione e realizzazione. Molto spesso i capi sono prodotti non in serie ma su misura per chi compra. Questa modalità di lavoro porta necessariamente ad un prezzo meno contenuto rispetto a un capo fast fashion. Per questo – racconta Kristali di @due.cinetti – secondo lei la maggior parte dei giovani che compra vintage, second hand o handmade è perfettamente consapevole delle problematiche ambientali e di sfruttamento del lavoro che stanno dietro all’industria fast fashion. Ad oggi non esistono macchinari in grado di replicare il lavoro all’uncinetto o ai ferri, per questo tutti i capi di questo genere sono necessariamente fatti a mano: “È impossibile che dietro a un lavoro fatto all’uncinetto e venduto a 10 euro su SheIn non ci sia sfruttamento, una persona sottopagata e che lavora in condizioni disumane”. Le persone che acquistano questo tipo di prodotti, accettano di pagare un prezzo maggiore per ragioni di tipo etico.
Decidere di ignorare gli orrori che si celano dietro un top in vendita a pochi euro ci rende complici di un sistema malato e autodistruttivo. La causa retrostante le numerose compere di capi fast fashion è sempre legata a una questione di abbordabilità del prodotto. Il mondo dell’ handmade e dell’usato, rappresenta un’alternativa valida per soddisfare i nostri desideri d’acquisto in maniera consapevole e sostenibile. Queste realtà e iniziative ribaltano le logiche del fast fashion, invitando a riscoprire vecchi capi piuttosto che comprarne di nuovi o a favorire piccole realtà piuttosto che la grande distribuzione. L’organizzazione di eventi che portino all’esposizione delle opere di piccoli brand online in luoghi fisici o di stand vintage è un’occasione per mostrare agli occhi di tutti che una scelta consapevole e sostenibile è sempre possibile.