Integrarsi in una società è un processo che passa inevitabilmente attraverso il lavoro. Una delle principali motivazioni per spostarsi è quello di ricercare migliori condizioni di vita – e quindi anche economiche e lavorative. All’interno del mercato dei lavori in Italia, chi proviene da Paesi non europei (o più precisamente, non occidentali) si trova generalmente in una posizione molto svantaggiata rispetto alla popolazione italiana. E se in parte le ragioni di tutto questo riguardano una serie di condizioni macroeconomiche di fondo – come tali dipendenti da una miriade di fattori su cui non è sempre possibile intervenire – dall’altro lato ci sono anche alcuni elementi che ricollegano la situazione attuale a precise scelte politiche. 

L’elemento principale del mercato del lavoro italiano in relazione a chi proviene da altri Paesi viene riassunto magistralmente in un passaggio del report del 2015 Il contributo economico dei migranti che lavorano “in nero”, curato dal Centro Studi di Politica Internazionale (CESPI): una forte domanda di lavoro non qualificato, il cui risultato è quello di “penalizzare i migranti in modo ancor più evidente a parità di condizioni, ovvero ove si confronti la situazione lavorativa della popolazione nativa della stessa età, con la stessa situazione familiare e con lo stesso livello di istruzione dei migranti impiegati”. 

Si può ,infatti facilmente prendere atto della condizione di svantaggio occupazionale di chi è originario da Paesi non europei in Italia osservando le cifre sulla povertà fornite dal decimo rapporto annuale Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia, a cura del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Sulla base di dati Istat del 2019, il rapporto spiega che il 26,9% degli individui non italiani si trova in condizione di povertà assoluta. Per quanto riguarda gli italiani, il dato precipita al 5,9%, più del 20% in meno. E’ proprio in questo frangente che è importante notare che la condizione di povertà assoluta non dipende direttamente solo dall’assenza di occupazione. A volte può dipendere anche dal livello di retribuzione o dalla tipologia dell’impiego, tant’è vero che anche tra gli occupati esiste una percentuale di famiglie (in questo caso i dati Istat prendono come riferimento le famiglie, non gli individui) in condizione di povertà assoluta. E anche in questa categoria il non essere italiano risulta un fattore decisivo: tra le famiglie composte da soli italiani e con persona di riferimento occupata solo il 3,1% si trova in una situazione di povertà assoluta. Per le famiglie composte solo da membri originari di altri Paesi e con persona di riferimento occupata, il valore è quadruplicato, arrivando al 12,9%. Ciò non sorprende nel momento in cui si osserva il divario retributivo tra dipendenti di altre nazionalità e dipendenti italiani. Secondo i dati del Dossier Statistico sull’Immigrazione 2019, curato dal Centro Studi e Ricerche IDOS, nel 2018 la retribuzione netta media dei dipendenti italiani era di 1392. Quella dei non italiani raggiungeva invece una cifra del 24% inferiore: solamente di 1060. 

Doppia causa

Le ragioni di un tale gap sono numerose ma due in particolare fra queste assumono una particolare rilevanza. La prima è il fenomeno della sovraistruzione, l’altra è la cosiddetta “specializzazione etnica”, cioè la tendenza per cui una fetta del mercato del lavoro viene occupata principalmente da una particolare nazionalità.

Per quanto riguarda il primo elemento analizzato, nel già citato Dossier Statistico sull’immigrazione 2019 spiccano alcune cifre che confermano la disparità nel livello di sovraistruzione tra cittadini italiani e non. Circa il 34,4% degli individui occupati provenienti altri Paesi risulta sovraistruito a fronte del 23,5% degli occupati italiani: un distacco di più di 10 punti che cresce, ovviamente, man mano che aumenta il livello di istruzione. Tra gli occupati laureati, infatti, il divario arriva a superare i 35 punti, con il 67,6% degli individui non italiani sovraistruiti rispetto a un 31,4% degli italiani. È impressionante, inoltre, notare la diversità delle due tendenze tra occupati italiani e non in relazione al titolo di studio: per gli italiani il fenomeno della sovraistruzione tra i laureati è inferiore, seppur di poco, alla statistica riguardante gli occupati italiani in generale; al contrario, la percentuale dei sovraistruiti tra i laureati provenienti da altri Paesi arriva quasi a triplicare il dato generale. 

Passando, invece, alla seconda ragione, bisogna prima spiegare alcuni punti. Da un lato questi sono indice della presenza di una rete informale molto forte di persone e famiglie di una determinata origine: rete che si basa su rapporti amicali e parentali e che in alcuni casi può aiutare l’inserimento di un neo-arrivato all’interno della comunità fornendo aiuti economici, opportunità lavorative e canali di informazione. Dall’altro lato però, la presenza di tali reti può portare facilmente a fenomeni di “segregazione occupazionale”, cioè una presenza molto maggiore di alcune nazionalità rispetto a determinate nicchie del mercato del lavoro. I dati più evidenti si possono riscontrare nei Rapporti annuali sulla presenza dei migranti, curati anch’essi dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Ad esempio si nota come, nel caso dei lavoratori provenienti dall’Ucraina e dalle Filippine, quasi il 60% è impiegato nel settore degli “Altri servizi pubblici, sociali e alle persone”, a fronte di una media tra tutti gli individui non-comunitari del 27,6%. Oppure nel caso della comunità cinese in Italia, di cui circa il 62% è impiegato nel settore del commercio e ristorazione, mentre la media – anche questa limitata a chi proviene da Paesi non UE – è del 24%. Nella maggior parte dei casi, il fenomeno di “segregazione occupazionale” relega le persone di una certa nazionalità allo svolgimento di determinate mansioni che generalmente richiedono un basso livello di istruzione e che si trovano più in basso nella scala sociale. È chiaro che ci possono essere esempi contrari – un ristoratore cinese di successo o via dicendo – ma si tratta di casi a carattere episodico: le statistiche sopra fornite mostrano invece le tendenze generali. Cioè che la gran parte dei lavoratori non italiani guadagna molto meno dei propri corrispettivi italiani, anche a causa della “segregazione occupazionale”.

Le responsabilità politiche

Tutti questi dati mostrano forti squilibri nella condizione occupazionale di chi non è italiano rispetto a quella dei nativi. Ciò che però è importante comprendere, è che in questo caso non è tutto frutto di congiunture macroeconomiche mondiali ma anche di precise scelte politiche. In un passaggio del suo best-seller Il capitale nel XXI secolo, l’economista francese Thomas Piketty spiega che il mercato del lavoro non è un’entità governata da forze ineluttabili e immutabili. Si tratta piuttosto di “una costruzione sociale, fatta di compromessi specifici”, le cui regole “dipendono soprattutto dalle percezioni e dalle norme di giustizia sociale vigenti nella società”. Nel caso del mercato del lavoro in relazione a chi non è nato in Italia, l’elemento puramente politico risulta evidente. 

Osservando, infatti, i requisiti per ottenere un permesso di soggiorno, si nota che la stragrande maggioranza ha come requisito la percezione di un reddito minimo di qualche tipo, quindi l’obbligo di avere un lavoro (o, in alternativa, la disponibilità economica per mantenersi senza lavorare). Delle dodici tipologie di permessi di soggiorno descritti sul portale Inps, solo 4 sono scollegati dalla condizione occupazionale – in realtà, due di questi riguardano comunque motivi di studio o percorsi di tirocinio formativi, elementi che potrebbero essere considerati ugualmente una forma di condizione occupazionale. Le uniche tipologie che non dipendono in alcun modo da un reddito sono i permessi per asilo politico e protezione sussidiaria. Tutto questo trova la sua matrice politica nella legge “Bossi-Fini” del 2002, che modificò le disposizioni approvate nell’estate del 1998 presenti nel Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, imponendo – tra una serie di altre cose – la presenza di un contratto di lavoro come condizione di ingresso in Italia.  

Nel caso in cui, quindi, una persona non Italiana e regolarmente residente in Italia perda il lavoro, questa è tenuta a iscriversi entro 40 giorni all’elenco anagrafico del “Centro per l’impiego” della provincia di residenza. Così può accedere al “Permesso di soggiorno per attesa occupazione”, che ha una durata minima di 12 mesi – o pari alla durata del permesso di soggiorno legato all’occupazione precedente, nel caso questo abbia una validità rimanente di oltre un anno. Quando questa tipologia di permesso scade la persona ha due possibilità: dimostrare di avere un reddito pari a un certo livello (quindi di aver trovato un lavoro), o andarsene dall’Italia. Ciò aggiunge chiaramente una forte motivazione per chi non è italiano ad accettare lavori con salari bassi e non in linea con il proprio livello di istruzione. Seppur in maniera piuttosto timida, tale situazione viene riportata anche dall’Istat: in un report intitolato Vita e percorsi di integrazione degli immigrati in Italia, si afferma in modo esplicito che “È ipotizzabile dunque l’esistenza di un trade-off tra durata della ricerca e qualità del lavoro trovato”. Visti i dati forniti finora, è chiaro quale sia tra i due (durata della ricerca e qualità del lavoro) il fattore che assume una maggiore importanza. E considerando le condizioni necessarie per l’ottenimento dei permessi di soggiorno, sembra difficile non riconoscere alla base della svantaggiata condizione occupazionale dei lavoratori privi di cittadinanza italiana una forte responsabilità politica e una forma di razzismo istituzionale piuttosto evidente.

Tutto ciò, inoltre, sarà ancora più grave con la crisi dovuta alla pandemia. Con un aumento dei licenziamenti, diversi esponenti sindacali hanno messo in luce il rischio di una crescita del numero dei permessi di soggiorno non rinnovati e, di conseguenza, un’inevitabile impennata del numero di individui clandestini in Italia. 

 

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