- Introduzione
- Parte I
- Parte II
- Parte III
- Parte IV
- Parte V
- Marzo 12, 2019
Un'analisi pluridirezionale sul piano di riforma
Da più di vent’anni l’Europa ci chiede di introdurre un reddito minimo garantito per contrastare il dilagante fenomeno della povertà. Il movimento Cinque Stelle ha basato parte della sua ascesa politica sulla misura del reddito di cittadinanza, ma la filosofia iniziale del piano di riforma è cambiata diametralmente.
Calando la riforma nella realtà i punti critici che emergono non sono pochi e molto andrà cambiato in fase di conversione o con modifiche allo stesso decreto legge. Con l’idea di fare un’indagine pluridirezionale siamo partiti dalle origini storico-economiche per arrivare ad un’analisi del decreto con alcuni esperti tra cui Maurizio Del Conte, ex presidente di Anpal, e Il Professore Carlo Cottarelli direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’università Cattolica di Milano.
Una rivoluzione vecchia in partenza

Il 6 Marzo 2019 è una data che ha profondamente segnato la storia politica del nostro paese: dopo anni di tartassante propaganda ed una roboante vittoria alle elezioni dello scorso 4 Marzo 2018, Il Movimento 5 Stelle ha finalmente dato il via al Reddito di Cittadinanza, oramai divenuto nel tempo vero e proprio dogma ideologico e simbolo della politica pentastellata. Ad un solo anno di distanza da quel 33% che aveva segnato l’ascesa dei grillini ai vertici politici di questo paese, nel giro di una sola settimana sono state ricevute dagli uffici competenti ben 500.000 domande, che verranno ora valutate nel giro dei prossimi giorni: quella che agli occhi di molti appariva un’utopia inarrivabile, e per altri un incubo di lovecraftiana memoria, è invece divenuta realtà. Sul Reddito di Cittadinanza si sono già spesi fiumi di inchiostro fin da quando venne ideato durante i primi momenti di vita del Movimento, ma mai come oggi appare necessario portare avanti un lavoro programmatico che riesca a sviscerare ogni singolo punto di questa legge, che nel bene o nel male, è destinata a segnare la storia italiana. In questa sede abbiamo dunque deciso di analizzare ogni componente di questo disegno di legge, a partire dalla sua origine storico-economica fino alle profonde rivisitazioni che l’idea originale, portata avanti dai pentastellati, ha subìto nel tempo, arrivando infine ad analizzare le criticità dell’attuale modello.
Iniziamo ad analizzare la questione partendo proprio dalle sue origini economiche e storiche. Infatti è solo partendo da queste ultime che siamo capaci di smascherare uno dei falsi miti di più duraturo successo che la propaganda pentastellata è riuscita a creare intorno al Reddito: la sua unicità. Spacciare infatti questa riforma come un qualcosa di totalmente nuovo ed unico nel suo genere risulta essere una palese falsità, specialmente considerato il fatto che il RdC affonda le sue radici in un periodo remoto e lontano nel tempo ma che ha profondamente cambiato la storia economica del nostro mondo, ossia gli anni ‘80. Un decennio che ha visto un’intera generazione compromessa da una profonda crisi economica che persisteva oramai dal 1974, anno in cui l’OPEC, in risposta agli aiuti americani verso Israele durante l’offensiva dello Yom Kippur, decise di innalzare di 4 volte il prezzo del petrolio. Questa decisione, che comportò un forte aumento dei prezzi in tutto il globo, unita ad un diffuso problema di disoccupazione portò ad una crisi globale che ebbe degli effetti devastanti. Essa non era infatti catastrofica come quella del 1929, ma l’unione di inflazione e disoccupazione diede vita ad un fenomeno di stagflazione che le dottrine economiche keynesiane, le quali dominavano la scena della politica economica mondiale dai tempi del New Deal rooseveltiano, non erano assolutamente preparate ad affrontare. Keynes infatti aveva prodotto una dottrina capace di affrontare un singolo problema alla volta e non tutti e due contemporaneamente ed il fallimento del keynesismo gettò nel caos l’equilibrio politico del mondo, che era già stato scosso dallo scandalo Watergate e aveva portato alla prematura fine del governo Nixon. Per lungo tempo, nessun leader politico a livello globale fu capace di dare una risposta a questa emergenza, fino a quando sulla scena politica non comparve una signora inglese destinata a cambiare il futuro: Margareth Thatcher. Eletta nel 1979, Thatcher fu la madrina della svolta a livello economico che segna tutt’oggi il nostro presente, definita svolta neo liberista. Con questa nuova ideologia economica, perpetuata inizialmente dal Primo Ministro Britannico e poi ripresa dal Presidente americano Ronald Reagan, si procedette ad un massiccio attacco alle basi delle teorie keynesiane: l’interventismo statale e il welfare state, pilastri a lungo tempo delle economie occidentali. I due leader fomentarono una vera e propria rivolta popolare contro tassazioni ed assistenzialismo, indicate come la reali cause del malessere della popolazione e dell’incapacità dei governi di superare il difficile periodo di crisi. L’intera classe media rispose presente alla chiamata alle armi della nuova classe dirigente, portando avanti delle imponenti manifestazioni di dissenso nei confronti del sistema assistenzialistico, sia a livello istituzionale che meno. Nel nostro paese, la crescente pressione fiscale a Nord e l’insofferenza di una gran parte del popolo settentrionale, basata sull’opinione comune secondo cui i soldi devoluti in tasse fossero destinati a foraggiare quei “fannulloni” del Meridione, portarono all’elezione nel 1987 di un ancora sconosciuto Umberto Bossi, segretario della Lega Lombarda. Nel tempo, le nuove teorie neo-liberiste misero la popolazione contro il Welfare State, che nella sua forma originaria oramai non aveva più modo di esistere: si doveva trovare il modo di modificarne la struttura per poter far accettare alla nuova mentalità dominante l’idea che parte delle proprie tasse andassero ad aiutare la popolazione più in difficoltà. La chiave di volta per la risoluzione di un tale enigma venne trovata grazie l’introduzione di un parametro che avrebbe addolcito la pillola per la classe contribuente oramai totalmente asservita alla nuova ideologia economica, ossia il parametro del merito. L’idea che per guadagnarsi l’aiuto dello stato il cittadino avrebbe dovuto effettivamente meritarselo riscontrò molto successo per la sua vicinanza ai valori del decennio, e nel corso degli anni si andò a sostituire al concetto di welfare puro. La nuova formulazione del welfare venne definita Workfare State ed è proprio questa la base su cui si fonda il Reddito di Cittadinanza nella sua attuale formulazione, ovvero l’introduzione di parametri meritocratici per poter aver accesso ai sussidi statali (in questo caso la partecipazione obbligatoria a corsi di formazione lavorativa). Insomma, già solo osservando l’origine del RdC si può notare come il suo esser figlio della ideologia neoliberale faccia immediatamente crollare il castello di carta creato dalla propaganda pentastellata riguardo alla portata rivoluzionaria di questa riforma, che infatti non fa altro che nutrirsi di una ideologia economica che nel corso degli ultimi 30 anni ha ampiamente dimostrato i suoi limiti e le sue problematicità. Ma attenzione: per tutti coloro pronti a sbraitare contro l’autore di questo articolo perché criticando il Reddito è come se si stesse sputando in faccia alle milioni di persone in difficoltà economiche in Italia, qui non ci stiamo riferendo al puro concetto di RdC, ma a quello previsto dall’attuale versione proposta dal Movimento 5 Stelle. Il puro concetto di Reddito è quanto di più lontano esista dalla cultura economica neo-liberale, ma sono le sue declinazioni in ambiti workfaristici a renderlo una delle sue massime espressioni. L’elemento più comico è che a distruggere ogni elemento anti-liberale sia stato proprio quel partito che alle origini vedeva come proprio nemico più grande il pensiero economico sviluppatosi durante gli anni 80.
La filosofia che è cambiata
Sul sito di Radio Radicale, uno degli archivi più ricchi che esistono in Italia, se cercate “reddito di cittadinanza” e andate all’ultima pagina, vedrete che, prima di incorrere in qualcosa che coinvolga i cinquestelle, dovrete scorrere altri 13 documenti audio. Sono proposte di reddito di cittadinanza “ante Grillo” e, se vi concentrate sugli organizzatori dei dibattiti e delle proposte, potrete riconoscere una vasta serie di partiti “di sinistra”: Partito Socialista Italiano, nel 1992, Democratici di Sinistra e Sinistra Giovanile nel 2004, Federazione dei Verdi, sempre nel 2004, Federazione dei Giovani Socialisti di Milano, nel 2006, Sinistra, ecologia e libertà nel 2013 ed infine, Partito Democratico, 2012. Anche i relatori non sono sconosciuti: Piero Fassino, Luciano Violante, Susanna Camusso, Anna Finocchiaro, Marco Furfaro, persino un giovane Mario Adinolfi. Poi arriva il 2014 e cominciano a fiorire le proposte, i convegni e le conferenze in cui il Movimento 5 Stelle affronta l’argomento che, piano piano, diventa un po’ il cavallo di battaglia della “banda degli onesti”. Questo fattore ci potrebbe indurre a collocare il Movimento 5 Stelle nell’ala politica di destra, di centro o persino a considerarlo non schierato in nessun ramo, ma tuttavia essendo nato dal fecondo vivaio dell’antiberlusconismo, nel 2007, ed avendo scelto come battaglia simbolo quella del Reddito di cittadinanza che era tante volte stato proposto da partiti di sinistra, il Movimento ha origine proprio da quell’area e, se mi si concede un ragionamento all’antica, di Maio ha, in questi anni, guidato la transizione da una proposta di Reddito di sinistra ad uno di destra. E infatti, se si può contestare ai grillini il fatto che siano cambiate le cifre promesse, le modalità di erogazione, di uso del denaro ed il mancato rispetto delle tempistiche, ciò che è più incredibile è il completo cambio di filosofia economica e politica dietro questa proposta. Quando Grillo parlava del Reddito di Cittadinanza diceva che era indispensabile che ad erogarlo fosse una Banca centrale Statale, e oggi non è così. È chiaro che sono tante le differenze tecniche tra il Reddito proposto e quello che si sta per attuare. Ma, ripeto, prima del dicembre 2014, Grillo proponeva un reddito universale di cittadinanza, indiscriminato e che fosse letteralmente “di cittadinanza”. Un qualcosa da cui partire, con il sogno che anche l’italiano più povero avesse comunque i soldi per un tetto in affitto e la disponibilitá di qualche pacco di pasta a settimana. Il ragionamento di Grillo, però, investiva in maniera molto innovativa il mondo dell’economia e del mercato del lavoro. Per l’analisi che faceva il capo del Movimento prima della “transizione”, il lavoro salariato ormai non esiste più. Chiedeva provocatoriamente: “accettare qualsiasi impiego usurante è lavoro?”. E arrivava alla conclusione che gli italiani sono convinti di avere un posto di lavoro, quando hanno invece solamente un posto di reddito. Reddito che sta scendendo sempre di più. Il famoso tema della iniqua distribuzione delle ricchezze: i soldi vanno sempre più a concentrarsi nelle tasche dei pochi, che accumulano patrimonio e che non avranno tempo di spendere per almeno cinque generazioni, mentre si abbassano i salari dei tanti che lavorano. Questo perché la crescita, spiegava Grillo, non migliora le condizioni di lavoro a causa dell’utilizzo delle macchine. E tutto ciò che è manuale è tassato. Faceva questo esempio: “un frigo oggi costa tre volte meno di dieci anni fa, un parrucchiere tre volte di più”. Tutto ciò che è manuale è estremamente tassato, mentre la macchina lavora “in nero”, e quindi chi ha grandi capitali sceglierà sempre più spesso di investire sulla macchina. I salari si andranno ad abbassare e il mondo sarà diviso tra chi ha tutto e chi ha nulla. E allora, però, chi comprerebbe tutto ciò che è prodotto dalle macchine, se i lavoratori saranno sempre più impoveriti? Questa era la previsione dei prossimi cento anni fatta dal Fondatore del Movimento. La soluzione? il Reddito di Cittadinanza. Inteso in senso letterale, però. Questa era la proposta vera. Nel primo degli incontri che ho citato in cui si parlava di un Reddito di cittadinanza ante litteram, quello del 1992 organizzato dal Partito Socialista Italiano, il relatore Marianetti chiariva la differenza tra salario di cittadinanza e reddito di cittadinanza, chiedendo di fare attenzione a non confonderli e a non pensare che si stesse proponendo il primo. Un salario è qualcosa che consegue da una prestazione, un reddito è semplicemente un’entrata costante. Ed è ciò che i socialisti volevano garantire, con la discriminante fondamentale della cittadinanza. Così come Grillo non voleva che il Reddito fosse una conseguenza di ore di lavoro ma un qualcosa di automatico. Il lavoro, a quel punto, sarebbe diventato uno sforzo da fare con vera passione e con piacere, spiegava il fondatore del Movimento in un’intervista al Corriere della Sera: “Il rapporto deve cambiare: metti al centro l’individuo e non il mercato del lavoro. Io ho un reddito, decido io se lavorare, quanto lavorare, come lavorare. Magari non faccio niente, chi lo sa? Magari sono un creativo. Come si finanzia questa cosa qua? Sai qual è la reazione? Ti dicono che dai i soldi a chi non fa nulla mentre loro si fanno un culo così per la stessa cifra. Questo per l’invidia che c’è dentro di noi. Ma è l’unica soluzione. Come si finanzia? Detassando il lavoro e tassando il consumo. Han fatto un’indagine, l’80% di persone han detto io farei lo stesso lavoro perchè amo il mio lavoro, anche se avessi un reddito farei quel lavoro lì. Un altro 10% ha detto farei quel lavoro lì ma lavorerei meno e solo il restante 10% ha detto non farei niente. Ti scegli il lavoro, non sei scelto dal lavoro”. Ecco, in questo flusso di coscienza si cela la natura originaria del Reddito di cittadinanza. Tutte le contraddizioni sulle cifre e sulle tempistiche, per quanto mi riguarda, perdono completamente di importanza di fronte al divario immenso tra questa concezione del reddito e quella che si sta consolidando in questi mesi, che ha poco a che vedere dal punto di vista letterale con un reddito di cittadinanza, quanto più con un sussidio di disoccupazione come quelli che hanno in Francia e in Germania. “Ti pago se cerchi lavoro, così poi lo trovi e non ti devo più mantenere”. Non ha più nulla a che vedere con il “se ti va lavori”. E forse la contraddizione più forte tra i due Redditi che il Movimento ha proposto, ci aiuta a evidenziarla la frase con cui Grillo chiude quell’intervista: “E’ la tua vita! E’ la tua vita che metti al centro! Milioni di persone sono convinte di avere un posto di lavoro, hanno un posto di reddito. E fanno qualsiasi tipo di lavoro per sopravvivere. Ma non è vita!” Non è vita far qualsiasi posto di lavoro per sopravvivere. Forse è vero. E allora perché il Reddito di Cittadinanza oggi concede un massimo di tre proposte al disoccupato, lavori scelti da altri e che ti sono offerti, che non puoi rifiutare? E’ vita questa? Quando Grillo diceva “Scegli il lavoro, non sei scelto dal lavoro”, è difficile pensare che fosse questo ciò a cui pensava. Tre ultimatum scelti da una figura non ben definita, con la minaccia di tornare per strada se non accetti controvoglia le tre offerte che, progressivamente, si allargano come raggio di chilometri, fino ad arrivare alla terza che può essere in tutta Italia. “E’ vita questa?”, chiederebbe lui. Ma soprattutto, se quei discorsi sulla scomparsa del lavoro salariato erano validi al tempo, perchè non dovrebbero esserlo ora? Il Beppe Grillo dell’intervista direbbe che “le macchine lavoreranno molto più di noi e fagociteranno i posti di lavoro. E al quel punto, ai Navigator, non rimarrà un belìn di lavoro da darvi”. Lo direbbe, ma verrebbe probabilmente fatto fuori dal Movimento come una Nugnes o un De Falco qualsiasi. La filosofia è cambiata. Come anche chi comanda ora nel Movimento. E qui gli imputati alla sbarra sono due: i cinquestelle o il sistema. Entrambi, di fronte ad un’evidente débâcle ideologica, danno la colpa all’altro. Il cosiddetto “establishment” incolperebbe i cinquestelle in quanto millantatori ed incapaci, mentre i pentastellati accuseranno il sistema di non permettergli di attuare le riforme che loro considerano indispensabili per il benessere comune. In ogni caso è evidente la contraddizione più grande di tutte: una proposta che voleva, nella sua prima concezione, combattere i presunti danni della logica neoliberista è finita per essere uno strumento della stessa, che ragiona secondo quelle logiche ed anzi le asseconda. Il reddito di cittadinanza, ad oggi, per come sta passando, non è altro che un prodotto di ciò che voleva contrastare.
Reddito di cittadinanza e reddito minimo garantito europeo
Il reddito di cittadinanza è il provvedimento che metterà l’Italia sullo stesso piano degli altri paesi europei, dotando il nostro paese di quel piano d’aiuto sociale che da tanto tempo ci viene chiesto dall’UE e che insieme alla Grecia eravamo gli unici a non aver ancora messo in piedi. Quanto c’è di vero in tutto questo? Il nostro modello di reddito, quanto ha realmente in comune con il reddito minimo garantito che l’Unione Europea ci chiede da circa trent’anni?
Nel 1992 con la direttiva 441 l’Unione Europea chiede a tutti gli stati membri di mettere in piedi un sistema di distribuzione di un reddito minimo garantito per tutti i cittadini più bisognosi, i quali rappresentano oggi il 22,5% della popolazione europea.
Il reddito minimo garantito in Europa
In Italia il reddito di cittadinanza prevede l’erogazione di una cifra pari alla differenza tra il proprio reddito e la soglia di povertà, consistente in 780 euro, con possibili diminuzioni in base allo stato patrimoniale espresso attraverso l’Isee. I paesi europei hanno adottato forme differenti di reddito minimo garantito.
La Germania garantisce 382 euro per ogni singolo cittadino senza reddito, a cui si aggiunge una cifra variabile tra i 224 e i 289 euro per ogni figlio presente nel nucleo familiare secondo criteri anagrafici, integrando tali somme in modo separato con l’erogazione di sussidi per l’affitto e le utenze. L’unico requisito è quello di seguire programmi di reinserimento e di accettare le offerte di lavoro congrue alla propria formazione. Questo tipo di sostegno non è però l’unico previsto, esistono infatti altre misure specifiche per quanto riguarda le categorie inerenti agli anziani, alle donne in gravidanza e ai disabili, oltre che a misure legate allo status di rifugiato politico o di cittadino UE che abbia firmato il social security agreement.
Filosofia completamente diversa in Belgio (soglia di povertà a 1100 euro c.a.), il cui unico punto in comune con la Germania è quello di offrire la possibilità di rifiutare offerte lavorative non idonee al titolo di studio, come succede in altri 11 paesi UE. A differenza dei vicini tedeschi i Belgi offrono 725 euro di contributo mensile per il singolo, sostegno a cui vennero affiancate in seguito alla crisi del 2008 altre misure di welfare tra cui l’Anti-poverty plan, della durata di due anni.
Merita una citazione il reddito modulare Francese in vigore dal 2010, dove la soglia di povertà è di circa 1100 euro mensili. La manovra viene incontro al problema dei lavoratori poveri, esso decresce con l’aumentare del reddito di lavoro, ma senza comunque smettere di essere erogato, non basandosi quindi su una netta separazione “lavoratori-disoccupati” per quanto riguarda la sua assegnazione, ma piuttosto puntando ad assistere chiunque si trovi al di sotto dei parametri governativi.
Una strategia molto simile viene adottata dagli UK , in cui si riduce l’ammontare del sostegno (56,80 pound a settimana più altri 56,80 pound settimanali per i disoccupati) se il beneficiario trova lavoro, ma senza sospenderlo.
Piuttosto innovativa è la scelta dell’Olanda che ha pensato di adottare il Wik, vale a dire una misura assistenziale di 500 euro mensili destinati agli artisti, in modo da permettere una libera espressione artistica con una minima garanzia economica.
Per quanto riguarda i beneficiari del reddito minimo garantito, in Europa non c’è distinzione sulla base della cittadinanza o della nazionalità, i criteri per godere degli stessi diritti sociali sono elencati nel social security agreement. Questo indica come condizioni sufficienti quella della residenza e della disagiata condizione lavorativa, includendo nell’insieme dei beneficiari anche la comunità dei rifugiati politici. Tale comunità non era stata considerata in prima battuta dal ddl del governo del cambiamento, ma la sua esclusione è stata ottemperata dall’Inps che li ha inseriti nei moduli di richiesta, applicando i principi di conformità alle direttive europee. Permane tuttavia il rischio di emersione di profili di incostituzionalità, in particolare per le disposizioni che prevedono come requisito necessario una permanenza sul territorio di dieci anni, superiore a quella necessaria all’ottenimento dello status di soggiornante di lungo periodo di 5 anni.
La questione della sostenibilità economica
A questo punto ci si potrebbe chiedere, come mai misure tanto diverse? Cosa non va a favore di un reddito minimo garantito unico ed universale per l’UE?
Innanzitutto quando si parla di programmi sociali la questione fondamentale è quella della sostenibilità. Per questo motivo la tendenza generale degli stati europei in questi anni è stata quella di legare strumenti di inclusione sociale, come possono essere i sussidi, a manovre di rafforzamento del mercato del lavoro, in maniera da andare a creare un assetto economico in grado di sostenere tali programmi di inclusione. Ad esempio in paesi come la Germania l’istituzione di un reddito minimo garantito è stata possibile proprio grazie alle ingenti risorse investite nel settore lavorativo (basti pensare che in Germania 110000 persone lavorano in centri d’impiego, contro i nostri 9000), permettendo all’attuale 3,2% della popolazione disoccupata di essere mantenuta dalle tasse e dalla ricchezza prodotta da tutti gli altri. Stesso discorso può esser fatto per paesi come la Repubblica Ceca, oggi caratterizzata dal problema opposto a quello della disoccupazione: quello dei troppi posti vacanti, con un numero di disoccupati ancora inferiore a quello tedesco. Vediamo poi modelli come quello Francese, solo apparentemente meno generoso, ma con lo sguardo rivolto al futuro, con un sussidio rinnovabile ogni 3 mesi e che aumenta con l’aumentare della prole. Stavolta il segreto sono le altissime tasse imposte dal governo, che in ogni caso sta iniziando ad avere seri problemi anche a causa di un welfare di questo tipo.
La nostra versione del reddito minimo europeo è quella più generosa, siamo infatti gli unici ad aver equiparato il valore del sostegno a quello della nostra soglia di povertà (780 euro mensili), quando tutti gli altri paesi spesso si limitano anche a molto meno o addirittura a meno della metà.
Il ruolo dei centri per l'impiego
Il piano di riforma oltre a porsi come strumento per contrastare la povertà vuole rilanciare le politiche attive del lavoro e, attraverso lo stanziamento di risorse per i centri dell’impiego, favorire l’occupazione.
Circa un miliardo di euro di investimento è previsto per i centri dell’impiego, infrastrutture particolarmente controverse del mondo del lavoro, e per l’assunzione dei Navigator, nuove figure professionali che dovrebbero guidare i disoccupati verso un processo di formazione e assunzione.
Fino ad ora l’intervento non è stato coordinato con le regioni, che godono di autonomia per quanto riguarda le politiche attive del lavoro e i centri per l’impiego, non è stata portata avanti quella sinergia istituzionale necessaria a compiere un passo avanti nella riqualificazione delle strutture di ingresso al mondo del lavoro portando così le regioni ad esprimersi contrariamente alla figura del navigator. “è una realtà a macchia di leopardo purtroppo dove prevalgono le sofferenze rispetto ai modelli di successo.” Afferma Maurizio Del Conte, ex presidente di Anpal, associazione nazionale per le politiche attive del lavoro. “ L’idea di creare una sorta di struttura parallela (quella dei navigator) che però avrebbe dovuto lavorare fianco a fianco con gli operatori dei centri per l’impiego era chiaro che non avrebbe potuto reggere il confronto con la realtà, cioè con il fatto che le regioni stesse amministrano i centri per l’impiego. Quindi la settimana scorsa c’è stato un accordo che naturalmente dovrà produrre i suoi effetti, prima di tutto sulla modifica del decretone quindi dell’articolo 12 del decreto sul reddito di cittadinanza; è una modifica che sostanzialmente decreta la fine della idea del navigator come un operatore che agisce per conto dello Stato in modo autonomo e separato rispetto ai centri per l’impiego, e invece molto più semplicemente questi operatori che verranno assunti dai servizi non faranno niente di più rispetto a quello che già fanno oggi, solo che ne saranno attivati di più. Non ci sarà più il navigator che lavora direttamente con l’utente quindi con il beneficiario del reddito di cittadinanza, egli non potrà infatti incontrare direttamente gli utenti ma farà un’assistenza tecnica all’operatore del centro per l’impiego che a quel punto diventerà l’interfaccia vera con l’intercettore del reddito.” La geometria cambia diametralmente rispetto a quello che era previsto nel decreto iniziale. Questo di cui parla l’ex presidente di Anpal è delineato dall’accordo con le regioni, ora bisogna aspettare che si trasformi in legge. “Io penso che aver rinunciato ad una certa idea del navigator e aver spostato l’attenzione sul rafforzamento dei centri per l’impiego sia un ottimo passo avanti verso quello che io credo sia l’obiettivo fondamentale: il rafforzamento complessivo delle strutture a sostegno dell’incrocio tra domanda e offerta di lavoro. Un piano che come abbiamo visto in esperienze straniere, in particolare in quella tedesca, richiede sicuramente tempo per la sua implementazione, quindi non ci aspettiamo di vedere dei risultati immediati in termini di performance ma ci aspettiamo di vedere immediatamente qualcosa che cambia all’interno dei centri dell’impiego. Se davvero vengono riservate risorse sia strumentali che di persone che in termini di formazione quindi di riqualificazione delle competenze degli operatori noi potremo veramente avviarci verso un percorso lungo ma robusto di avvicinamento a ciò che avviene anche negli altri paesi”. Stanziare risorse per i centri dell’impiego non è un male, fondamentale è far sì che queste risorse siano strumentali per la formazione e riqualificazione degli operatori dei centri per l’impiego. Verrà perciò abbandonata quella fantomatica figura del navigator e si dovrà puntare a portare gli operatori a livelli di competenza analoghi a quelli che esistono nelle agenzie per il lavoro privato o anche negli uffici di risorse umane delle aziende. Fondamentale sarà tracciare il profilo del disoccupato per creare un orientamento e un indirizzamento verso la corrispondente corretta domanda espressa dalle imprese. Afferma ancora Del Conte “La ragione per cui le persone non si rivolgono, o si rivolgono in minima parte, ai centri per l’impiego è che nel migliore dei casi, cioè quando effettivamente ricevono quelle informazioni nel centro dell’impiego, ci sono dei curriculum indifferenziati, ossia ci sono una mandria di curriculum che non sono stati preselezionati in funzione della vacancy proposta dall’azienda. Questo evidentemente non è un servizio, è una perdita di tempo perché per l’impresa a quel punto è molto più conveniente andare attraverso strutture che fanno questo tipo di servizio e che alleggeriscono il peso che grava sulle risorse umane nel momento in cui bisogna fare una selezione, i colloqui per trovare il profilo giusto. Quindi le persone che lavorano per i centri dell’impiego devono imparare a mandare profili coerenti con la richiesta” Questa è una delle grandi sfide da affrontare nel momento in cui si ristrutturano i centri per l’impiego. Non ci si dovrà limitare a fare uno sportello d’ascolto per il disoccupato come spesso purtroppo avviene nelle nostre realtà, cioè un canale chiuso senza uscita, ma aprire l’uscita verso le imprese e farsi promotori del disoccupato verso le stesse. Quindi creare una figura che riesce da un lato a capire esattamente quali sono le caratteristiche del disoccupato, e dall’altro anche a vedere bene quali sono le caratteristiche delle imprese che cercano professionalità.
Importante sarà tener conto della differenza che vi è tra ogni centro dell’impiego, infatti vi sono regioni in cui in cui tutto sommato il mercato del lavoro funziona senza troppo bisogno di intervento di intermediazioni, mentre ce ne sono altre in cui la situazione è più di sofferenza e si dovrà intervenire drasticamente. Tener conto delle esigenze del territorio e creare un format comune per i centri per l’impiego dialogando e dotando le regioni dei giusti strumenti di collaborazione, oltre a muoversi tutti insieme nel processo di riqualificazione delle strutture che incrociano la domanda e l’offerta. “Abbiamo una situazione in cui è necessario valorizzare tutti i soggetti presenti, è un gravissimo errore buttare a mare il ruolo che stanno facendo le agenzie per il lavoro private” conclude l’ex presidente di Anpal “E tuttavia però bisogna coinvolgerle cosicché ciascuno faccia e abbia un suo ruolo in questo piano. Anche le gestioni del lavoro private devono essere responsabilizzate rispetto alla richiesta dei disoccupati. Oggi le agenzie del lavoro private tendenzialmente soddisfano soprattutto le esigenze dell’azienda, cioè entrano in campo quando l’azienda richiede delle professioni”. Quindi è importante che ognuno faccia la sua parte e che con nuove responsabilità possa partecipare a questo piano di rafforzamento dei soggetti coinvolti per il rilancio dei servizi per la mancanza di lavoro.
Intervista a Cottarelli
Con la volontà di fare chiarezza su cosa ci sia da aspettarsi a livello economico dalla manovra introdotta dal governo e sui suoi risvolti meno chiari, nella prosecuzione del nostro lavoro di indagine ci siamo rivolti al Professor Carlo Cottarelli, ex direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale ed attualmente direttore dell’Osservatorio Italiano sui Conti Pubblici.
Abbiamo iniziato chiedendogli delucidazioni sulle forme di finanziamento per i provvedimenti scelti dal governo, e su quelle che secondo lui sarebbero le mosse dell’esecutivo gialloverde qualora in futuro l’andamento dell’economia facesse presagire una situazione critica.
Sappiamo che in tutti i molti paesi in cui viene assicurato un reddito minimo garantito gli artefici del provvedimento di turno hanno dovuto confrontarsi con l’ostacolo del reperimento di coperture finanziarie adeguate, anche perché, come lei stesso afferma, non si può pensare sempre di finanziarle con spese in deficit. In vista quindi della prossima manovra di bilancio e delle potenziali criticità legate ad insufficienze dei fondi disponibili per il finanziamento delle manovre approvate (reddito di cittadinanza, quota 100 e forse flat tax), quali pensa potrebbero essere le contromosse adottate dal governo? E’ ipotizzabile che si cerchi di preventivare un rapporto tra deficit e Pil del 2% nella legge di bilancio per l’anno 2020?
Io credo proprio che sarà superiore al 2%. A carte ferme si sta andando verso un 3,4-3,5%, mi sembra difficile che il governo riesca a trovare risorse superiori al punto e mezzo percentuale. Poi teniamo conto del fatto che il governo adesso sta litigando sulla Flat Tax perché almeno una componente del governo, la Lega, vuole introdurla e quindi abbassare parecchio le tasse, soprattutto su chi ha redditi più elevati. Cioè, alla fine si vuol dare soldi a tutti, a chi non ha soldi perché non lavora, a chi soldi ne ha perché paga più tasse, a chi vuole andare in pensione prima… Finché i mercati finanziari sono disposti a darci soldi a prestito, finché gli italiani sono disposti a dare soldi a prestito al governo perché questo avvenga, vabbè… Son contenti, si tengono dei pezzi di carta rinunciando alla promessa di essere liquidati ad un tasso di interesse piuttosto basso… Contenti loro. Normalmente però, queste cose non durano per sempre. Non è facile rispondere alla domanda su dove trovare questi soldi! Intanto, mettiamoci anche la spesa per pensioni, il governo vuole ridurre la tassazione, un po’ di tagli già sono stati fatti quest’anno per finanziare il Reddito di cittadinanza e Quota 100. Già si son tagliati un po’ di trasferimenti alle ferrovie per esempio, si sono aumentate un po’ le tasse. Certo, c’è il mare dell’evasione fiscale però il governo, con un altro condono, mi sembra che continui a dare l’impressione che l’evasione fiscale sia una cosa da incoraggiare, perché i condoni fiscali quello fanno.
Quindi per lei una fonte di finanziamento si potrebbe individuare nella lotta all’evasione fiscale, che in Italia si attesta su livelli alti, più di 100 miliardi di euro?
Quella è una cosa che si potrebbe fare, però in un anno non è che l’evasione fiscale si possa abbattere tanto rapidamente. Sono stime che si possono fare, si introducono certi provvedimenti e si spera che questo porti a ridurne l’entità. Io non so dove si possano andare a trovare risorse per questo aumento di spesa che c’è stato… per i due aumenti di spesa, ricordiamoci che c’è anche la Quota 100! Fosse stato soltanto il reddito di cittadinanza sarebbe stato un conto, ma per Quota 100 uno non può chiedere ai pensionati che hanno lasciato il lavoro di tornarvi. Bisognerà fare tagli lineari, quello sì. Magari si taglieranno i fondi alla pubblica istruzione, ma non è certo quella una buona idea. Uno inizia ad avere difficoltà a trovare fonti di finanziamento per il Reddito di cittadinanza, la Quota 100 e pure la Flat Tax… Ma qui non esiste, si terrà un deficit più alto. Se i mercati lo consentono, e se lo spread non va su. Se lo spread non va su, succederà questo: terranno il deficit più alto. Se lo spread sale, dipende da quanto va su ma allora potremmo finire in una crisi.
In base al decreto di attuazione del provvedimento, sono state previste delle clausole di salvaguardia (consistenti in un aumento dell’IVA), che si innescherebbero nel momento in cui i fondi messi a bilancio per il finanziamento della misura per un anno specifico dovessero rivelarsi insufficienti.
Lei ritiene che il governo si troverà a fronteggiare una situazione che vede lo scatto delle clausole di salvaguardia e quindi l’aumento dell’IVA?
No, non credo scatterà l’aumento dell’IVA. Cioè, dipende da quanto sarà seria la situazione sui mercati finanziari, e questo non saprei dirlo. Io credo che lo spread aumenterà nel corso dell’estate ed in autunno, poi dipende anche da come andrà la discussione con la Commissione Europea, anche se quello secondo me non è il fattore fondamentale; se poi si dice qualcosa che crea una crisi di fiducia, allora lo spread va su lo stesso, anche se la Commissione Europea ci ha detto che va bene. Ora, la cosa che può creare una crisi di fiducia è il fatto che il Pil decresca o meno. Se l’economia europea non riprende, ci troviamo in autunno con un Pil che è stagnante o addirittura scende, il rapporto tra debito pubblico e Pil che aumenta e lo spread che aumenta, a quel punto le cose prendono una china pericolosa.
Conoscendo le stime dell’entità dell’economia sommersa sorge un altro punto interrogativo sull’efficienza del provvedimento riguardante le misure adottate dall’esecutivo per contrastare casi in cui un lavoratore, possa percepire il reddito di cittadinanza, continuando a lavorare in nero.
Riguardo al possibile influsso della grande dimensione del lavoro in nero sulle misure del reddito di cittadinanza, è possibile che si verifichino casi in cui individui che risultano titolati a fruire del reddito di cittadinanza possano continuare nel loro impiego?
Siccome andare a fare i controlli sarà quasi impossibile, soprattutto inizialmente, l’unica cosa su cui si può contare per evitare casi simili è il deterrente costituito da pene che sono senza dubbio abbastanza elevate, dal momento che la pena minima per chi mente nelle dichiarazioni sul reddito di cittadinanza è di due anni. Ma tutti coloro che ora stanno chiedendo il reddito di cittadinanza sono consapevoli di questo rischio? Non lo so. Ogni volta che qualcuno fa domanda per il reddito di cittadinanza bisognerebbe fargli firmare un foglio che chiede se si è consapevoli che mentendo su quelle informazioni si prenderebbero minimo due anni di galera, come deterrente. Non credo ci sia questa domanda sul formulario
Potenziale problema della misura è poi quello degli squilibri tra chi riceve il reddito al nord e al sud. Essendo il costo della vita più alto al settentrione, per assicurare un’uguaglianza sostanziale di trattamento la riforma andrebbe modulata diversamente riconoscendo cifre superiori agli abitanti del nord rispetto a quelli del Mezzogiorno, dove il costo della vita è oggettivamente più basso. Anche l’Istat afferma che la soglia di povertà è diversa tra le varie zone d’Italia. Inoltre, come lo stesso Professore confermerà, anche la differenza nel numero dei componenti delle famiglie non è considerata adeguatamente nella scala di equivalenza predisposta dal provvedimento, sfociando così in potenziali disparità di trattamento.
C’è poi un’altra caratteristica del provvedimento sulla quale vorremmo che lei ci desse la sua opinione: l’importo dell’assegno mensile del reddito è fisso per i fruitori su tutto il suolo nazionale senza differenziazioni a seconda della destinazione. Come giudica la scelta del governo? Crede sia dettata dal fatto che ci si possa trovare ad accettare offerte di lavoro in luoghi anche distanti dalla propria residenza, o che si tratti invece di una questione di principio?
E’ una scelta che non so se chiamare di principio. Diciamo che l’obiettivo dei cinque stelle era quello di dare un reddito che portasse le persone al di fuori della soglia di povertà e lì c’è poco da fare: la soglia di povertà è diversa in ogni parte d’Italia.
Eppure si è deciso di dare lo stesso a tutti, che vuol dire che i soldi potrebbero essere utilizzati in misura minore o che, per casi di famiglie numerose, potrebbero non bastare. Questo perché la crescita dell’assegno del reddito di cittadinanza all’aumento del numero di membri della famiglia è piuttosto bassa, mentre invece l’assegno diventa più generoso per chi vive al Sud, per i single del Sud lo è molto
Con quali misure dunque suggerirebbe lei di intervenire per contrastare il fenomeno della povertà, se non con il reddito di cittadinanza così come congegnato dal governo?
C’era il Reddito di Inclusione, si poteva potenziare quello. Alla fine non è che varino, si tratta di garantire un reddito minimo. La questione è trovare i finanziamenti, andare a calibrare in maniera che sia una misura equa per le varie parti d’Italia e per chi è single rispetto a chi ha famiglie numerose, e farlo soprattutto in un quadro di conti che non rischia poi di portarci ad una nuova crisi che creerebbe invece più poveri.
Con i contributi di

Luca Bagnariol
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Alessandro Luna
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Simone Massari
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Lorenzo Cirino
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Luigi Simonelli
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Emanuele Caviglia
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