«Nel nome del nostro domani noi bruceremo Raffaello, distruggeremo i musei e calpesteremo i fiori dell’arte.»

Il celebre verso di Kirillov, diventato poi uno degli slogan dell’organizzazione culturale proletaria (Proletkul’t) viene spesso utilizzato per dimostrare la barbarie della rivoluzione russa. Tuttavia sono necessarie almeno due contestualizzazioni: la prima è che ovviamente le sue parole sono perfettamente allineate al tipo di comunicazione perentoria e estremista tipica dei “manifesti di quel periodo”; la seconda, ancor più importante, è che i versi da cui è tratta questa frase non sono una dichiarazione a sé, bensì la reazione alle dimissioni di Lunačarskij dal governo, nel quale ricopriva la carica di commissario del popolo all’istruzione, in forma di protesta per la distruzione di alcuni monumenti pubblici durante l’insurrezione bolscevica di Mosca. 

La radicalità della posizione di Kirillov, unita alla frammentarietà delle posizioni nello stesso Proletkul’t è la sintesi emblematica di una dinamica spesso ricorrente nella storia dell’uomo: il conflitto per “l’egemonia della memoria”.

Memoria, identità e cultura

La partita sul controllo dei monumenti e del loro “potere” si gioca fin dall’antichità e non è certo un fenomeno del secolo breve. Basti pensare alla damnatio memoriae, la “condanna della memoria”. Tra le più gravi sanzioni applicate dai romani, prevedeva che il nome e il volto di chi la subiva venissero rimossi fisicamente da ogni monumento e documento pubblico. Nell’epoca contemporanea, come dimostrano i fatti recenti negli Stati Uniti, ma anche sul nostro territorio, questa battaglia è ancora in corso, tuttavia è innegabile come al tempo stesso i monumenti assolvano molto meno che in passato alla loro funzione (letteralmente monumentum = da ricordare). Questo processo è descritto in maniera pungente da Robert Musil nel suo saggio sui monumenti:

«Eretti senza dubbio per essere visti, anzi attrarre l’attenzione. Ma al tempo stesso sono come impregnati di una sostanza che respinge l’attenzione, facendo scorrere via lo sguardo come gocce d’acqua su una tela cerata, senza neanche fermarcisi un secondo. […] Allora perché i monumenti sono eretti per i grandi uomini? Sembra un insulto attentamente calcolato. Dal momento che non possiamo più far loro del male in vita li abbiamo spinti con una lapide commemorativa nel mare dell’oblio.»

Una spiegazione in merito a questo fenomeno potrebbe essere quella “accelerazione della storia” di cui parla Marc Augé, che causa una fusione tra conoscenza, informazione e storia il cui risultato è un “eterno presente”. In questa condizione, come vedremo, i momenti di rottura con il flusso continuo per un monumento sono la sua inaugurazione e la sua rimozione, nel mezzo piccioni e indifferenza.

Nonostante la scarsità di attenzioni riservate ai monumenti nel corso della loro esistenza, la monumentalistica celebrativa resta senz’altro la forma storicamente più invasiva dell’occupazione dello spazio urbano. I governi hanno da sempre plasmato la politica della memoria pubblica proprio facendo uso politico della storia tramite i monumenti, l’odonomastica e le feste nazionali. Lo spazio pubblico è così un terreno cruciale da questo punto di vista, essendo il luogo dove la politica interagisce con i cittadini, rendendo anche le strade e le piazze delle città una vetrina fondamentale per le celebrazioni ufficiali, come anche per lotte e proteste. 

Questi si configurano comunque come casi piuttosto rari di attenzioni riservate ai monumenti, soggetti che generalmente arrivano di rado alla ribalta del dibattito pubblico, e si costituiscono più spesso nella maniera descritta da Musil, come dispositivi schivati e ignorati dai passanti, presenze alle quali l’occhio si abitua fino a non farci più caso. Quando ciò avviene, però, la discussione si orienta il più delle volte su problematiche riguardanti la rappresentazione e la celebrazione di soggetti e fatti storici che sono, all’interno della memoria pubblica, fortemente orientati dalla cultura egemone.

I monumenti costituiscono infatti dispositivi che vengono sempre eretti e riempiti dalla cultura egemone di quello specifico periodo storico, che crea e rinforza, attraverso questi, una sua identità, all’interno di un processo che vede naturalmente sacrificate le attenzioni per le minoranze. Da questo punto di vista, riflettendo sulle controversie che hanno spesso suscitato i monumenti e l’odonomastica, risulta importante il recupero dell’attenzione nei confronti dello spazio pubblico come chiave di lettura centrale nella comprensione e nello studio dei processi storici.

Fasi storiche, memoria pubblica e monumenti in Italia

Considerando il caso del nostro Paese, le modalità di utilizzo dello spazio pubblico per la memoria sono state prevalentemente scandite dai “tre Stati” che si sono susseguiti nella contemporaneità: il regime liberale, quello fascista e la democrazia repubblicana. Questi tre momenti hanno influenzato a loro volta le tre conseguenti ondate monumentali: Risorgimento, Grande Guerra/Fascismo e Resistenza, attraverso cui si è pervaso lo spazio urbano nel tempo e costruito quindi anche l’immaginario nazionale italiano. 

In tempi più recenti si è andati poi incontro a un profondo crollo delle grandi narrazioni, che hanno incentivato la frammentazione dello spazio memoriale, consentendo al dibattito sulla rappresentazione di emergere con maggiore insistenza e palesando così l’esigenza di tutti quei soggetti che lottano per la rivendicazione di un ruolo nella costruzione della memoria pubblica e dei rituali civili. Ci troviamo così oggi ad essere testimoni di un’epoca marcatamente presentista, priva di radici ma che reclama al tempo stesso memoria a gran voce. I governi in tutta risposta hanno sempre più spesso imposto “verità” storiche, perseguendo un utilitarismo della storia disinvolto e spesso superficiale, che ha adattato alle sue esigenze le esaltazioni di uomini, fasi storiche ed eventi. A costellare questo funambolico scenario pressioni e soggetti molteplici e complessi, che hanno senz’altro contribuito a rendere manifeste le massicce implicazioni della dimensione rituale e simbolica nei codici di rappresentazione politica contemporanea.

Nonostante alla fase storica e monumentale fascista si siano susseguiti periodi successivi di riflessione sulla memoria collettiva e sui monumenti, che hanno visto un ruolo centrale della Resistenza, la maggior parte dell’odonomastica e dei monumenti risalenti all’epoca fascista non sembrano averne risentito minimamente. A questo fenomeno hanno contribuito almeno due fattori chiave della situazione italiana: da un lato la nuova egemonia culturale smaccatamente antifascista che etichettò come osceno l’argomento, praticamente rimuovendolo dal dibattito, “nascondendolo”, mettendolo così al riparo da un processo di decodifica e reale superamento. Dall’altro, di certo coadiuvato dall’atteggiamento della classe dirigente, si avviò un processo di deresponsabilizzazione dell’italiano circa il suo essere fascista e razzista. Ad esempio nell’edizione del 1953 dell’Enciclopedia Cattolica, la prima in cui compare il termine “razzismo”, l’autore lo connota in ottica unicamente antisemita per quanto riguarda il fenomeno italiano, ascrivendolo ovviamente all’ormai passato periodo fascista, e fornendo come elementi di paragone il caso americano, descritto come “precedente” e l’apartheid sudafricana, ufficialmente in vigore dal ’48. 

Se il mito del “buon colonialista”, che va a portare cultura e democrazia ai selvaggi, difficile da contrastare e destrutturare, soprattutto all’epoca, vista la sua efficacia ancora oggi, garantiva l’impunità fuori dal confine, per giustificare l’agire all’interno dell’italiano si procedette a una lettura di estrema passività. La società italiana aveva subito gli eventi, senza avere voce in capitolo, al pari di una malattia, un momento di debolezza. Accade così, ad esempio nel 1991, che nel film di Gabriele Salvatores, Mediterraneo «gli italiani che hanno sostenuto e che hanno combattuto le guerre del duce sono declassati immancabilmente a bravi ragazzi, al più inconsapevoli», come nota Francesco Filippi nel suo libro Ma perché siamo ancora fascisti?.

Non bisogna tuttavia né generalizzare, né pensare che in assoluto l’Italia non abbia fatto i conti con il suo passato, come ricorda Anna Lisa Tota, Professore ordinario di “Sociologia dei processi culturali” all’Università Roma Tre. Infatti, nonostante tutto, il nostro Paese in quella che viene chiamata politica del regret, ovvero tutta la serie di azioni e manifestazioni da parte delle istituzioni riguardo un passato scomodo, è molto più avanti di altri colleghi europei. Tuttavia non bisogna abbassare la guardia perché, come ammoniva Umberto Eco: «Si può giocare al fascismo in molti modi, e il nome del gioco non cambia.».

Il fenomeno della cultural blindness, pur su scale differenti, resta comunque un fatto in Italia. Un esempio emblematico lo ha fornito il collettivo Wu Ming con la sua installazione a Manifesta, la biennale nomade, tenutasi nel 2018 a Palermo. Il progetto di guerriglia odonomastica intitolato VivaMenelicchi, proponeva un’azione in cui le vie legate al passato colonialista venivano re-intitolate a eroi della resistenza o contestualizzate attraverso fotografie e testi che raccontavano le atrocità compiute dal “nome sulla targa”.

 

L’arte può essere una risposta?

L’interazione attiva come pratica di protesta su statue e monumenti non è comunque certo una trovata recente, ma è anzi anche una pratica artistica ormai consolidata e portata avanti attraverso la tecnica del wrapping e dell’empaquetage da artisti come Christo e Jeanne-Claude. L’obliterazione del monumento a cui più volte si è accennato in precedenza infatti, è un motivo superabile e risolvibile attraverso queste pratiche artistiche, che curano l’invisibilità del monumento per eccesso di visibilità, e lo salvano nascondendolo all’occhio abituato alla sua presenza per qualche giorno, per poi conferirgli nuova importanza e attenzione attraverso la sua riscoperta. 

L’effetto di invisibilità del monumento è dovuto infatti proprio ad un grande paradosso: quello di implementare l’amnesia al posto della mneme. Si investono così fondi e risorse per creare dispositivi utili alla costruzione di una salda e condivisa memoria pubblica, che si trasformano in breve tempo in dispositivi dediti all’oblio. 

Da questo punto di vista a livello artistico e architettonico sono state messe in atto differenti strategie per ovviare al problema. Oltre al già citato empaquetage, che soffre però comunque dell’ostacolo temporale in quanto efficace soltanto per un breve periodo, esistono diverse proposte interessanti soprattutto sul fronte dei monumenti commemorativi di luoghi distrutti: un esempio è l’area dove un tempo svettavano le Torri Gemelle o i Buddha di Bamiyan, monumenti che si è scelto consapevolmente di rinunciare a ricostruire o sostituire, così da impegnarsi maggiormente a ricordare, non attraverso un ennesimo monumento, bensì mediante la sua assenza. 

Un altro gesto particolarmente significativo da questo punto di vista è la costruzione di monumenti che ribaltino la visione canonica che abbiamo rispetto a queste strutture, ad esempio rovesciandoli in prospettiva anti-verticale, come nel caso del monumento contro il fascismo realizzato ad Amburgo dai coniugi Gerz. L’opera è costituita da una colonna sulla cui superficie i passanti hanno potuto incidere iscrizioni antifasciste e pensieri, costruita in modo da sprofondare con il tempo nel terreno, rendendola così un monumento destinato alla scomparsa. Il senso del graduale inabissamento e conseguente scomparsa è che quando questo monito di memoria pubblica del passato sarà sufficientemente assimilato, tanto da poter garantire un futuro vigile su questo fronte, allora il monumento non sarà più funzionale e scomparirà. 

Esistono anche casi di riflessione e rovesciamento del monumento non in un’accezione fisica, ma relativamente al livello del significato. Emblematiche in questo senso le steli e bramme in acciaio Cor-ten di Richard Serra, che incarnano simbolicamente dei monumenti intransitivi, senza alcuno scopo commemorativo, svuotando così il monumento dal significato intrinseco nella parola, la funzione di monere, di ricordare qualcosa. 

Questi interventi artistici sui monumenti, oltre alle vere e proprie opere d’arte che interagiscono o incarnano monumenti stessi, rappresentano uno spunto fondamentale per la riflessione sulla memoria pubblica e lo spazio pubblico che sempre più spesso sta prendendo piede in differenti ambiti d’indagine, soprattutto in seguito alle proteste del movimento Black Lives Matter che ha riacceso il dibattito sulla necessità di nuovi spazi e monumenti che siano meglio rappresentativi della società odierna, oltre che soprattutto maggiormente inclusivi. 

Resta quindi il complesso problema di capire cosa sia più giusto fare con le tracce controverse del nostro passato. Una riflessione che non può certo ridursi all’abbattimento e distruzione di statue e monumenti, nè tantomeno ricadere in quella “mania della memoria” che vede una costante urgenza di creare memoriali, spazi eletti al ricordo condiviso o elevare gesti di soggetti piuttosto ordinari al calibro di eroi senza tempo. Ma come può, appunto per la finalità con cui i monumenti vengono eretti, essere una buona soluzione quella di abbatterli in nome di un presente che cerca di nascondere gli aspetti più scomodi del suo passato? Se l’obiettivo dei monumenti è ricordarci un avvenimento o l’operato di qualcuno, abbattendoli non faremo altro che cancellarli per sempre, annullando così anche il valore pedagogico della storia, consentendoci così di ripeterli tutti, questi spiacevoli errori che così instancabilmente cerchiamo oggi di eliminare. 

Una soluzione che sigli un accordo di pace tra la condanna dei fatti scomodi del passato e il loro altrettanto pericoloso oblio è la strada percorsa dagli esperimenti artistici di interazione con i monumenti descritti in precedenza. Solo un rapporto più attivo con i monumenti può salvarci da un pericoloso processo di rimozione della storia, anche attraverso la costruzione di nuovi spazi dedicati alla memoria che non scivolino velocemente nell’oblio ma che ci rendano più consapevoli del nostro passato attraverso una nuova interazione con la memoria pubblica.

 

Questo testo è un estratto di un articolo più ampio che si può leggere sull’edizione di Scomodo n.33 che puoi trovare qui.