L’evoluzione dell’essere umano e lo sviluppo del linguaggio sono due storie che fin dalle origini sono andate pari passo, con cambiamenti a volte rapidissimi e altre volte lunghi secoli, che ci hanno reso ciò che siamo: Homo Sapiens, 7000 lingue (circa). Il passaggio dai gesti ai suoni, e poi dai suoni alle parole ha rappresentato una rivoluzione nella modalità comunicativa dell’essere umano e quindi anche nella dimensione sociale della specie. Se però da un lato il linguaggio è un meccanismo di trasmissione e aggregazione, dall’altra può anche essere motivo di esclusione o difesa. Di fronte a un estraneo, un nemico, una potenziale minaccia poter parlare senza essere capiti rappresentava un vantaggio e una strategia, che nel tempo ha però perso in gran parte il suo scopo di difesa, diventando negli ultimi secoli anche strumento di discriminazione, evidenza del diverso. Ludwik Lejzer Zamenhof, un medico e linguista polacco, a fine ‘800 afferma che «la lingua è il principale motivo di pregiudizio». Decide così di inventare una lingua che sarebbe stata di tutti e di nessuno, la lingua della pace e dell’uguaglianza: l’Esperanto, o “colui che spera”.
Dalle parole di Zamenhof: «Non ricordo quando, ma in ogni caso abbastanza presto, cominciai a rendermi conto che l’unica lingua avrebbe dovuto essere neutra, non appartenente a nessuna delle nazioni ora esistenti. Per qualche tempo fui sedotto dalle lingue antiche […]. In seguito, non ricordo più come, giunsi alla precisa conclusione che questo era impossibile e cominciai a sognare nebulosamente di una NUOVA lingua artificiale».
L.L. Zamenhof nacque a Bialystok (oggi Polonia) che nel 1859 faceva parte dell’Impero zarista, un regno pervaso da differenze etniche, religiose e, appunto, linguistiche. Essere testimone di queste divisioni e inimicizie all’interno della sua comunità lo portò ad individuare nel progetto di una seconda lingua universale la soluzione per un mondo unito e in pace. Già fin da bambino, lo studioso polacco era stato affascinato dall’idea di una lingua tanto universale quanto democratica e crescendo l’idea prese sempre più forma. Dopo aver valutato il latino, convenne che la sua struttura complessa sarebbe risultata un ostacolo troppo grande alla diffusione. L’illuminazione arrivò quando capì che una struttura basata sugli affissi avrebbe ridotto di molto le radici da utilizzare e scelse parole cardine di origine germanica e romanza. In generale, pianificò una struttura semplice basata sulle lingue Indo-europee: alfabeto latino e greco, parole e radici romanze, germaniche e slave. Inoltre, doveva essere estremamente facile da parlare e da imparare per chiunque, per cui la pronuncia delle parole è una e le regole grammaticali sono 16, senza alcuna eccezione: ad esempio, i nomi finiscono tutti in -o, gli aggettivi tutti in -a, gli avverbi tutti in -e. Un’analisi del lessico di base ci permette di comprendere quanto effettivamente le radici provengono da tutte le lingue che hanno contribuito alla nascita dell’esperanto. I saluti –saluton e adiaŭ- ricordano i francesi salut e adieu. Il grazie –dankon– ha chiaramente origine nel tedesco danke. Il suffisso che indica la provenienza è -ano, come in italiano: brazilano, aŭstraliano, egiptiano e così via.
La nascita della lingua
L’anno della sua comparsa è il 1887, quando finalmente Zamenhof, firmandosi Doktor Esperanto, pubblicò il primo manuale di grammatica, intitolato “Unua Libro”. La prima bozza incontrò il veto della censura zarista, fatto che dimostra il potenziale rivoluzionario di una lingua che si proponeva di unire piuttosto che di dividere. Nonostante ciò, si arrivò alla pubblicazione del libro, che nei primi anni ricevette un’attenzione più intellettuale che di utilizzo, propagandosi prima nell’Impero Russo per poi arrivare in altre parti del mondo. Inizialmente si diffuse soprattutto in forma scritta, per via epistolare, ma pian piano la rete di esperantisti si allargò e nel 1904 venne organizzata una prima piccola conferenza internazionale seguita l’anno dopo dal primo congresso mondiale. Il successo e la longevità dell’Esperanto si possono in parte individuare proprio in questi anni, quando Zamenhof decise di non assumere il ruolo di guida lasciando che la lingua diventasse di coloro che la parlavano, cosa che permise un’evoluzione autonoma portata avanti dal basso e quindi dall’utilizzo. Un picco di successo si ebbe quando la Lega delle Nazioni individuò nell’Esperanto una lingua di lavoro che sarebbe stata anche inserita nei curriculum educativi, una prospettiva che avrebbe reso davvero universale l’utilizzo. Tuttavia il successo fu breve: dagli anni ‘30 gli esperantisti furono infatti perseguitati per le loro tendenze antinazionaliste e per l’origine ebraica di Zamenhof. Bandito quindi negli anni delle due grandi guerre, sopravvisse negli ambienti di resistenza per poi tornare alla luce e andare incontro ad un secondo periodo di espansione post-bellico. Oggi a parlare Esperanto sarebbero circa 2 milioni di persone, anche se è molto difficile avere delle stime precise, che sarebbero in gran parte in Cina, Sudamerica ed Europa dell’Est. Per quanto non sia ancora la lingua universale a cui aspirava il suo creatore, la comunità esperantista mondiale è estremamente vivace e unita. Ogni anno l’Associazione Universale Esperanto (UEA) organizza il Congresso universale di Esperanto che permette l’incontro di tutti gli esperantofoni sparsi nel mondo. L’ultimo si è tenuto proprio nel nostro paese, a Torino – unica città italiana in cui ci sia una cattedra universitaria di Esperanto- un’occasione di scambio e confronto per gli oltre 1200 studiosi che hanno partecipato all’evento.
L’Esperanto in Italia
In Italia attualmente gli esperantisti iscritti alla Fei (Federazione esperantisti italiani) sarebbero circa duemila, con 40 gruppi sul territorio che offrono lezioni, preparazione per ottenere la certificazione ufficiale (da A a C), ma anche solo un’occasione per parlare in lingua e stare insieme. Per quanto quindi una realtà esperantista sia presente, rimane ancora poco visibile, soprattutto per i giovani, e la si incontra spesso per caso, rimanendo poi per passione. «Ho trovato un libretto a casa e non avevo idea di cosa fosse. Era di mio zio che non ho conosciuto. Qualcosina ho imparato, ma poi finì lì. Nel 1987, nell’anno del centenario dell’esperanto, lessi un trafiletto sul giornale che pubblicizzava delle lezioni gratuite di esperanto a cento metri da casa mia. Decisi di andare a sentire e poi, semplicemente, ci sono rimasto». L’incontro con l’Esperanto per l’attuale Presidente del Circolo Esperanto di Roma, Giorgio Denti, è capitato così; quasi per caso e molto simile nei modi a quello del Presidente del Circolo di Milano, Andrea Montagner: «Ero bibliotecario e tutto è partito da un incarico di catalogazione di un fondo di Esperanto presso l’Università di Milano, ho studiato la lingua e i documenti e ho finito per appassionarmi» o di una partecipante del circolo di Milano, Matilde Mantelli: «Nel 1970 su un treno per Vienna ho incontrato degli esperantisti che stavano andando al Congresso Universale, mi hanno incuriosita. Sono stata catturata da questa lingua».
L’Esperanto oggi
La grande sfida per il presente è riuscire a tramandare questa eredità alle generazioni più giovani, con l’obiettivo ideale di ampliare sempre più la diffusione di uno strumento pensato per una comunità unita internazionale che faccia da rete in un mondo che chiaramente va verso la globalizzazione e la trasversalità. Come ci dice Andrea Montagner, Presidente del Circolo Esperantista di Milano: «Facciamo l’esempio di un immigrato dall’Africa francofona, sarà spinto ad andare in Francia perché è l’unico luogo in cui può comunicare, è limitante. Il discorso utopico dell’Esperanto è che il mondo è unico; il concetto è anche pensare al problema linguistico esistente in un’attualità di grandi migrazioni e scambi».
Se oggi l’Esperanto esiste ancora è sicuramente merito di coloro che per passione hanno portato avanti questo movimento, ma il ruolo di questa lingua sovranazionale nel futuro non è ben chiaro. Potrebbe essere riscoperta e valorizzata in una realtà che si avvia verso una società dinamica, ma potrebbe anche continuare ad essere una nicchia linguistica come altre ne esistono. Secondo Denti:«Oggi che le persone hanno accesso alla rete, è più probabile che si venga a sapere cos’è. C’è gente che abita in paesi dove non c’è neanche un esperantista e può accedere a qualsiasi contenuto per conoscerlo ed imparare. Anche Duolingo ha corsi di Esperanto con interfaccia in inglese, adesso anche in spagnolo. Ma quanti parlano Esperanto nel mondo? Difficile a dirsi, dipende dal livello. C’è chi dice 2-3 milioni, forse quelli che lo parlano fluentemente sono anche meno. Mi piacerebbe che l’Unione Europea la adottasse come lingua comune. […] Siamo 27 stati diversi con 24 lingue ufficiali, ma alla fine viene usato quasi esclusivamente l’inglese, mentre l’esperanto permetterebbe di parlare una lingua che non avvantaggia nessuno». Un’ufficializzazione aspirata da molti che sicuramente darebbe una maggiore esposizione e legittimità all’Esperanto. E anche Montagner spera in un passaggio di testimone: «Nei prossimi 10 anni ho l’obiettivo di coinvolgere i giovani per un passaggio generazionale. Spero che in futuro il circolo passerà nelle mani di un 30enne o 40enne. […]. Non è semplice, anche perché ci sono tante anime diverse nel movimento esperantista. Per parlare in modo schematico parlo di esperantisti, esperantofili e esperantofoni. Ognuno vive questa lingua a modo suo, c’è chi vuole diffonderlo e chi no, ma le diverse idee non dovrebbero essere antagoniste. Io personalmente amo parlarne e sono convinto che così come la terra è di tutti, in una logica ecologista, anche la comunicazione dovrebbe esserlo».
Creare una lingua
Per quanto i linguisti preferiscono utilizzare il termine “lingua pianificata”, l’Esperanto rientra nella macro-categoria delle lingue artificiali, ovvero lingue costruite utilizzando una serie di convenzioni, tanto nelle regole quanto nelle parole. Queste si suddividono poi in una tipologia a scopo di comunicazione sociale, e una a scopo espressivo-ludico. Nel secondo raggruppamento troviamo una serie di linguaggi diventati conosciuti grazie alla capacità artistica dei loro autori che li hanno inseriti in perfetti mondi di fantasia diventati spesso dei classici: la Neolingua di Orwell, il Sindarin di Tolkien, il Basic Galattico di Star Wars, il Dothraki del Trono di Spade – la lista è lunghissima.
Tra i linguaggi per comunicare invece, ci sono una serie di lingue non verbali, lingue ausiliarie, esperimenti quali il Solresol o il Volapük, ma anche gli attualissimi linguaggi logico-matematici, che rientrano nella categoria dei linguaggi artificiali digitali. Questi ultimi, se in origine erano alla base di una comunicazione tra persona e “calcolatore” con lo scopo di dare istruzioni e far svolgere compiti, adesso permettono allo stesso strumento di imparare, una capacità che rientra nell’orizzonte del machine learning. Uno sviluppo, questo, che apre prospettive interessanti anche su come in futuro definiremo una lingua e la possibilità di una sua evoluzione tra essere umano e macchina, tra uso parlato e stringhe di codice.
La storia del linguaggio si dirama quindi lunghissima dietro di noi e continuerà a evolvere nel tempo e nello spazio in un modo impossibile da prevedere, di pari passo ai cambiamenti socio-culturali e tecnologici dell’Homo (forse ancora per poco) Sapiens. L’Esperanto, a modo suo, farà parte di questo futuro portando in alto il suo messaggio di speranza, “la lingvo de paco”- la lingua della pace – ci dice Mantelli, un’ideale in cui «non c’è vinto né vincitore, in cui siamo tutti uguali».