In una Milano deserta, domenica 25 ottobre, mentre la maggior parte della popolazione assisteva alla conferenza stampa del premier Conte, un gruppo di persone si è riunito, rispettando le misure di sicurezza, in Piazzale Duca d’Aosta per dimostrare vicinanza al popolo nigeriano impegnato da giorni a manifestare contro gli abusi della Sars, un reparto speciale della polizia nigeriana accusato di brutalità e violenza. In mezzo a queste persone c’era anche Tommy Kuti, rapper e autore, che per testimoniare la sua vicinanza nei confronti di questa tematica, ha condiviso sulle sue pagine social un appello: “Io so che potrei sembrare ambizioso ma spero che in un giorno non troppo lontano, si incominci anche qua in Italia ad interessarsi a quello che accade al di là del confine. Perché Black Lives matter, significa le vite dei neri contano, ma non solo quando sono degli americani.”
Non è la prima volta che Tommy Kuti si esprime su argomenti di tipo politico, con un album all’attivo, un’etichetta indipendente chiamata “Mancamelanina”, il collettivo e gruppo Equipe 54 e la pubblicazione del suo primo libro “Ci rido sopra”, il rapper è stato tra uno dei primi artisti a instaurare un dialogo sul tema della discriminazione razziale in Italia. Argomento principale della sua battaglia è la cittadinanza, che canta nel brano #AFROITALIANO, in cui rivendica le sue origini italiane contro chiunque non lo voglia riconoscere.
La redazione di Scomodo ha avuto l’opportunità di intervistare Tommy Kuti riguardo a varie tematiche, dalla cittadinanza alla rappresentanza mediatica di persone italiane di origine straniera. Una testimonianza che sembra di fondamentale importanza per educare le persone rispetto ai problemi che sono connessi a questi argomenti.
Tommy Kuti, la legge che regola la cittadinanza in Italia non subisce modifiche dal 1992, tuttavia il numero di stranieri e figli di stranieri che risiedono sul territorio italiano è in rapida ascesa. Secondo te come andrebbe rivisto l’iter legislativo della concessione della cittadinanza?
È necessario che sia rivista. È necessario che il mio amico Maxwell che è nato e cresciuto in Italia ma che purtroppo ha dovuto interrompere la sua residenza per andare in Ghana quando aveva dieci anni e che ora a 31 anni dopo aver passato 30 di questi 31 anni in Italia, non debba mai avere problemi per ottenere la cittadinanza. Invece il mio amico Maxwell che ha la mia stessa storia, ma che ha avuto questo problema dell’interruzione della residenza, non è riuscito ad ottenere la cittadinanza nel momento in cui l’ha ottenuta sua madre. Adesso lui si ritrova ad esser considerato dallo Stato italiano come se fosse una persona appena sbarcata a Lampedusa. La legge dovrebbe permettere a chiunque abbia completato un ciclo scolastico in questo paese di ottenere la cittadinanza, soprattutto prima dei 18 anni di età.
La soluzione quindi, secondo te, potrebbe essere lo “Ius Culturae”?
Assolutamente, secondo me dovrebbe essere sufficiente che un ragazzo faccia un percorso di studi di 5 anni per accedere all’ottenimento della cittadinanza, anche e soprattutto se è minorenne.
Per quanto riguarda la tua esperienza personale, qual è stato il tuo rapporto con questa legge?
Io sono stato fortunato perché mio padre è una persona molto sul pezzo rispetto alle leggi. Mio padre è il leader della nostra comunità a Brescia e quindi appena ha avuto la disponibilità è stato uno dei primi ad ottenere la cittadinanza. Per questa ragione quando avevo 16 anni l’ho ottenuta in modo automatico. Solo successivamente mi sono accorto della fortuna che ho avuto. Mi ricordo un giorno, quando avevo 16 anni in cui mio padre è tornato a casa dal lavoro è mi ha detto “Tommy, da domani saremo italiani”. Ma non sapevo ai tempi cosa volesse dire. Il mio caso è stato estremamente fortunato.
Nonostante tu abbia avuto un’esperienza più semplice conosci ovviamente le problematiche relative a questo processo, quanto è faticoso dal punto di vista legale, da quello umano e psicologico?
Assolutamente, ho un caro amico che si chiama Valentino, che lui è addirittura nato in Italia, solo che durante l’adolescenza è stato mandato in Nigeria dai suoi genitori un anno e quindi ha perso la residenza. La gente deve sapere che il processo non è automatico. A diciott’anni non è che automaticamente tu hai la cittadinanza, ci sono tanti problemi burocratici che possono interrompere questo processo.
Per te quindi uno dei punti più deboli della legge del ’92, oltre ad essere inattuale per il contesto storico, è il fatto della residenza continuativa?
Certo, quello è un problema enorme, ma la causa di fondo è l’immobilismo politico in questo contesto. Manca il coraggio. Spesso e volentieri le persone di destra e di estrema destra sono contro la cittadinanza ai figli di stranieri, e sinceramente, nonostante non capisca perché sono contrari, ideologicamente la loro posizione è coerente. È innegabile che quelli di sinistra invece abbiano un problema di coraggio. L’ultima volta che si è votato in Parlamento rispetto allo “Ius soli”, voto che saltò a causa della mancanza del numero legale di parlamentari, anche gli esponenti del Pd che in teoria avrebbero dovuto essere a favore della legge non hanno avuto il coraggio di esprimersi. Perché avevano paura di perdere consensi, la verità è che non hanno avuto il coraggio di prendere la parola in queste situazioni importanti. A mio avviso hanno proprio perso la faccia. La sinistra di solito dovrebbe essere interessata a queste scelte progressiste, quella italiana invece è totalmente priva di idee.
In Italia si tende a parlare di questo argomento solo quando l’interesse nazionale è mosso a causa di eventi salienti. Come nel caso di Suarez, o nel caso di Adam e Ramy, sfortunati protagonisti del dirottamento del bus a Crema del 2019. Come mai quello della cittadinanza è ancora considerato un Tabù e in che modo si potrebbe cambiare questo pregiudizio?
Secondo me la ragione per cui alcuni cittadini italiani non sono d’accordo alla concessione della cittadinanza è anche a causa dei media che non raccontano gli episodi di normalità, che vi posso assicurare sono molti. In molti casi, persone come Fabio Fazio o Roberto Saviano, che parlano spesso di immigrazione e hanno a cuore il tema, sono dannose nel momento in cui canalizzano l’attenzione su loro stessi, facendone la propria battaglia. Nell’Italia del 2020 dovrebbe essere normalizzato la presenza di gente nera o straniera che parla per sé stessa. Sono stufo, è come se fossimo delle persone invisibili. Siamo invisibili sia per quanto riguarda la rappresentazione, ma lo siamo anche nel momento in cui si parla di possibilità di ottenere certi lavori. Io faccio musica, un campo che dovrebbe essere tra i più inclusivi e progressisti e sono comunque uno dei pochissimi artisti neri italiani che ha avuto la chance di essere in una major discografica. È necessario che l’Italia inizi a farsi domande sul livello di inclusione che esiste in questo paese. Le cose inizieranno a cambiare quando la gente inizierà ad ammettere che i problemi ci sono. Alla fine, quando diciamo che l’immigrazione è cominciata tardi dobbiamo ricordare che in realtà è iniziata negli anni ’80 e i ragazzi e le ragazze che arrivano da quella generazione oramai sono grandi. Dov’è la loro rappresentazione, dove sono le loro opportunità lavorative? C’è bisogno di iniziare a parlare di queste cose.
Secondo te quindi si dovrebbe optare per una maggiore visibilità mediatica per queste persone?
Assolutamente, bisogna lasciare spazio a queste persone, perché se non vengono ascoltate i problemi a loro connessi non verranno mai risolti.
Cosa vuol dire, da persona con origini straniere, vivere in Italia in zone periferiche?
Un sacco di complessi, un sacco di problemi legati alla propria rappresentazione e alla propria identità. Siamo sempre costretti a spiegare alla gente che esistiamo, raccontare la nostra storia. Spesso vieni fermato dai poliziotti che ti chiedono il permesso di soggiorno, danno per scontato che tu sia nella situazione in cui necessiti del permesso di soggiorno e non prendono in considerazione neanche un momento il fatto che io possa essere italiano. È un problema in primis delle istituzioni, che si riflette poi anche sulla cittadinanza.
Com’è cambiato il dibattito rispetto alla percezione di queste tematiche dopo che la vicenda di George Floyd ha scavalcato i confini statunitensi? Secondo te in Italia si può imparare da queste vicende?
In teoria sì, in pratica non lo so. In Italia purtroppo c’è questa tendenza di dare un peso diverso tra i fatti che succedono sul territorio nazionale rispetto a quelli che avvengono ad esempio negli Stati Uniti. Se dobbiamo essere sinceri in molti hanno professato sdegno per quanto è accaduto a George Floyd ma quasi nessuno ha parlato dei problemi che ad esempio vivono i ragazzi di seconda generazione in Italia, purtroppo non so dire se le due cose siano automatiche. È come se ci siano sempre due pesi e due misure. Sembra sempre che ciò che accade in America ha più peso. In questo momento ad esempio in Nigeria si sta combattendo una dura battaglia contro la violenza perpetuata dalla polizia nigeriana, sui social si è iniziato a parlarne grazie all’hashtag #endSars. Se avessimo imparato la lezione, si parlerebbe anche di questo, ma i media italiani non è che stiano riportando molto questa notizia. Sembra che l’Italia sia un paese poco curioso rispetto a quello che accade all’estero, a parte ovviamente per gli Stati Uniti.
Il governo, dopo più di un anno di stallo, ha modificato i decreti sicurezza. Cosa significa questa modifica e soprattutto stato fatto abbastanza o è mancato il coraggio?
Io penserò che questo governo stia facendo abbastanza rispetto a questi problemi quando cambieranno anche il testo di legge relativo all’ottenimento della cittadinanza. È un piccolo step quello della modifica dei decreti sicurezza, ma non è di certo questo ciò che possa garantire una migliore condizione di vita dei migranti e delle persone di seconda generazione. È una modifica che se rimane fine a sé stessa è insignificante, se viene integrata con altre norme può portare ad un cambiamento effettivo. Può essere un inizio.