La mattina del 25 ottobre lo slargo davanti alla sede della Regione Lazio a Garbatella si è riempito dellæ attivist3 della Casa delle donne Lucha y Siesta: realtà transfemminista che, come leggiamo nella lettera aperta pubblicata dall’associazione tre giorni dopo l’azione manifestante, «da anni opera gratuitamente per sostenere i percorsi di fuoriuscita dalla violenza di chi abita la Casa», di donne e figl3 minor3 a carico. Sono oltre cinquanta le associazioni che hanno firmato per sottoscrivere questa lettera: associazioni come BeFree, Ponte Donne o la Casa internazionale delle donne di Roma, tra le altre, che con i loro corpi hanno presidiato la zona sulla Cristoforo Colombo per protestare insieme allæ attivist3 e operatric3 di Lucha.
Sono realtà che si oppongono fermamente alla scelta della giunta della regione Lazio, guidata dal presidente di centrodestra Francesco Rocca, di interrompere la convenzione stipulata con Lucha dalla precedente amministrazione presieduta da Nicola Zingaretti, appena un anno fa. La delibera votata dalla nuova Giunta regionale, insediata appena il 12 marzo di quest’anno, dispone lo svuotamento della Casa, il ricollocamento dei nuclei accolti, la ristrutturazione e la messa al bando dell’immobile. Un programma, come leggiamo dai canali social di Lucha, «che si colloca dalla parte di chi la violenza la agisce», e non di certo da quella di coloro che la contrastano. Lo sgombero sarà portato avanti come misura di contrasto alla normale attività del centro, parallelamente ad un processo che vede come “controparte civile” l’azienda Atac, ex proprietaria dell’immobile, che «dopo aver lasciato abbandonato l’immobile per anni», continua la lettera aperta, «chiede un risarcimento di 1,3 milioni di euro per il danno che sarebbe stato arrecato alla collettività da chi, invece, ha dato risposte concrete quando le istituzioni mancavano».
Le stesse istituzioni che, affidandosi a Lucha per supportare i percorsi di chi sta uscendo da situazioni di violenza nella regione, beneficiano del lavoro sociale che l’associazione porta avanti all’interno della Casa, oggi mettono i bastoni tra le ruote alla loro attività. Perché mentre si discute della legittimità o meno di occupare uno spazio abbandonato, si rischia di dimenticare che quello spazio è innanzitutto una casa rifugio, luogo fondamentale che in una regione in cui nel 2020 sono stati censiti 100 posti letto per donne survivor, offre alla collettività ben 14 posti letto. È importante ricordare che le attività che Lucha porta avanti non sono riducibili unicamente a quelle di un centro antiviolenza (CAV) – come il supporto psicologico, l’assistenza legale, l’orientamento al lavoro o i percorsi di reinserimento sociale – ma permettono all3 survivor di spostare la sede della propria vita quotidiana in un luogo sicuro. Dall’inizio della sua attività, lo spazio ha ospitato migliaia di persone in fuga dalla violenza, che hanno visto in quel luogo una nuova casa.
Ma perché tutto questo?
Alla luce di tutto questo, ci chiediamo come sia possibile che la politica ritenga inadatto uno spazio che offre un contributo così fondamentale alla realtà sociale romana. Ci chiediamo perché il principio di legalità debba avere più peso di quello dell’utilità sociale. Ci chiediamo come sia possibile che dai “piani alti” si rifiutino di riconoscere la centralità di un luogo come questo, in un Paese che in soli 8 mesi dall’inizio dell’anno ha contato già 93 femminicidi. È per cercare di rispondere a queste domande che abbiamo deciso di parlare con Viola Paolinelli, operatrice antiviolenza presso il CAV Angela Merlin del municipio V, uno dei centri gestiti dalla comunità di Lucha, la quale ci ha raccontato cosa sta avvenendo allo stabile di Lucio Sestio, ad un mese dalla ricorrenza della giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne, consentendoci di guardare alla vicenda con uno sguardo più sensibile rispetto alla complessità della questione.
Da più di una settimana si è tornat3 a parlare di Lucha y Siesta e della nuova possibilità di sgombero da cui è minacciata, delle finalità politiche di questa scelta e della lotta che si deve portare avanti per salvare l’immobile. Sembra però che tra tutto questo analizzare stia passando inosservato un piano importante: quello delle donne che effettivamente abitano Lucha per sfuggire ad una condizione di violenza di genere. Emotivamente parlando, quindi, cosa succede tra le mura della Casa?
Ci siamo sempre più rese conto che da troppi anni ormai viviamo una condizione che fa da specchio ai colloqui a cui assistiamo nei centri antiviolenza. Ci troviamo ad avere a che fare con un’entità maltrattante che continua a non riconoscerci, a sminuirci e farci sentire molto piccole. Il tutto, però, con l’uso della legalità e della trasparenza. Queste modalità possono esercitare un potere di annullamento e cancellazione molto violento. Perciò ci ritroviamo fra di noi a chiederci se stiamo mitizzando il maltrattante, un po’ come succede a coloro che per la prima volta raccontano la situazione domestica che si ritrovano a vivere. C’è quindi questo parallelismo tra chi ha il potere e lo esercita sopraffacendo un’altra entità e chi invece prova in qualche modo a sostenere tutto questo, un po’ come il titano Atlante che ha il peso del mondo sulle sue spalle. C’è molta frustrazione, dunque. Abbiamo imparato dalle storie di ogni persona arrivata da noi a Lucha. Abbiamo imparato che la forza per uscire dalla violenza di genere si riesce a trovare. Procedendo su questo parallelismo, possiamo dire che ci sentiamo come tutte coloro che alla fine sono riuscite a farcela, per quanto il percorso fosse lungo.
Da questa risposta si intende che le istituzioni continuano a non comprendere il lavoro che portate avanti giornalmente sul tessuto urbano e sociale. È da quando avete aperto, in effetti, che battagliate contro accuse e sgomberi.
Sì, e aggiungo che qualsiasi parte politica dall’alto si rende complice di questa situazione. L’attenzione è sempre su cosa facciamo noi e non su cosa fanno loro, nel senso: si continua a parlare del fatto che lo stabile di Via Lucio Sestio 10 sia uno stabile occupato e che quindi vada regolarizzato. Ma non si parla mai del fatto che a Roma manchino almeno 300 posti letto a fronte della Convenzione di Istanbul che noi stess3 abbiamo firmato e che dovrebbe garantire, per un certo numero di abitanti di una città, un certo numero di posti letto. Per la politica alta dunque il problema non è che non ci siano abbastanza posti letto – motivo tra i quali è dovuta nascere una realtà come Lucha y Siesta – ma il problema è piuttosto cosa fa Lucha y Siesta. Questo spostamento dell’attenzione è particolare.
Veniamo all’ultima notizia. La Regione Lazio ha deciso di rimettere a bando lo spazio in via Lucio Sestio e farvi sgomberare. La giunta di Francesco Rocca, a capo di questa decisione, sostiene di volerlo fare per sanificare la struttura e renderla legalmente agibile, in modo che Lucha stessa possa ripartecipare al bando in seguito. Qualcosa non ci convince.
È un dichiarazione abbastanza ipocrita infatti. Innanzitutto, il bando in questione – che uscirà prossimamente – sarà oggetto di interesse di tutte le associazioni dell’albo regionale che si occupano di antiviolenza. Quello dell’antiviolenza è un associazionismo che nel corso del tempo è stato praticato da diverse realtà dal posizionamento e dalla formazione non-intersezionale e non-transfemminista, con modalità non corrispondenti alle esigenze delle persone che richiedono tali servizi. Ma non si può pretendere di affrontare dall’oggi al domani questo tema qui. La nostra sensazione è che lo stabile voglia essere dato in gestione a realtà decisamente non scomode come la nostra. Tolto questo, poi, non è detto che Lucha vincerà il bando. È davvero improbabile dire che – una volta fatti sgombero, lavori e indetto il bando – quello spazio non cambierà solo perché rimarrà un centro antiviolenza. Cambierà eccome, perché nel frattempo non si sarà riconosciuto il ruolo che le centinaia di persone che lo hanno attraversato lo hanno costruito nel tempo attraverso studio, lavoro e profonde relazioni con il territorio e il tessuto sociale attorno.
Che poi, in tutto questo tempo da dover impiegare per sgomberi, lavori e bandi, chi si occuperà e come avverrà il ricollocamento delle persone ospitate dentro Lucha y Siesta?
Secondo la delibera per la chiusura depositata in queste settimane dalla giunta regionale, è il comune di Roma che dovrà trovare le soluzioni abitative. Questo è ciò che ci preoccupa più di tutto: gli anni che serviranno tra gare d’appalto e ristrutturazioni pubbliche prima che quel posto venga riaperto di nuovo. Nella delibera non c’è una procedura chiara e certa e non c’è nessun3 che ci abbia dato maggiori spiegazioni.
La conversazione con Viola Paolinellli è finita con l’amaro in bocca. È chiaro da ogni angolazione quanto la decisione della giunta Rocca sul futuro imminente di Lucha y Siesta non abbia nulla a che vedere se non con una volontà meramente politica, mascherata dietro un atto amministrativo emanato a ciel sereno. È altrettanto chiaro quanto l’attuale governo della Regione Lazio non si concili con i posizionamenti critici e politici di realtà come Lucha, tanto da volerne coercizzare l’azione attraverso la chiusura. «Lucha come presidio femminista e transfemminista non è proprio in linea con quella che è l’idea di diritti della famiglia e delle donne che ha la compagine governativa attuale», ci racconta Adriana Rosasco, assessora alle politiche sociali del VII Municipio di Roma, dove ha sede la Casa di Lucha. Insomma, imbellettare la repressione facendola passare per istituzionalizzazione. Piuttosto che sgomberare spazi di assistenza e contrasto alla violenza radicati nel territorio, infatti, la Regione dovrebbe occuparsi di aiutare tali realtà, offrendo loro la possibilità di migliorare strutturalmente i luoghi di cui usufruiscono qualora non fossero considerati sufficientemente adeguati. Altrimenti la Regione dovrebbe indirizzare il proprio impegno nello stanziamento di fondi per la creazione di case rifugio, visto il 59% in meno di case rifugio rispetto ai parametri della Convenzione di Istanbul.
Lucha e le altre realtà sorelle
Aprire centri di fuoriuscita dalla violenza piuttosto che chiuderli, dovrebbe essere la battaglia da perseguire. Come negli anni ha fatto Lucha y Siesta che – oltre a tenere in piedi per quindici anni un luogo simbolo di cultura transfemminista e di contrasto alla violenza di genere – gestisce un CAV nel Municipio V, uno in quello VII e uno a Roma Tre. Questo, purtroppo, senza ottenere invece investimenti per la realizzazione di luoghi di protezione come le case rifugio. Fortunatamente Lucha non è sola: come racconta Paolinelli, l’associazione «non è l’unica con questo tipo di spinta. Ad agire il ruolo di sensibilizzazione e promozione culturale, non siamo le uniche». Sono molte le realtà come questa presenti sul territorio nazionale. Associazioni e spazi di resistenza diventati presidi territoriali contro il sistema eteropatriarcale: molto più che spazi di servizio e assistenza, dunque, ma luoghi di cultura, pratiche, mobilitazioni e campagne che sicuramente spaventano più che affascinano la politica “dall’alto”.
Questa rete di centri va a creare assistenza e rapporti territoriali fondamentali, soprattutto dove la violenza di genere è più accentuata e meno riconosciuta come problema strutturale. La realtà Ponte Donna – che dal 2008 lavora per fare da “ponte” tra la città di Roma, dove le socie operano da tanti anni, e la provincia della città dove il fenomeno della violenza di genere è più sommerso – ne è un esempio. O ancora il Centro Donna Lilith: un’associazione che da più di trent’anni opera nel territorio di Latina e provincia ma che tuttavia lamenta, come tanti altri centri, le difficoltà dovute alle poche strutture attive sul territorio. Il lavoro di Lucha e di realtà come queste, infatti, come ci dice Viola Paolinelli nell’intervista, non è riducibile a «un mero servizio pubblico che attacca e stacca a una certa ora, che si limita a compilare cartelle per inviare pratiche di fuoriuscita dalla violenza», ma è un vero e proprio progetto politico. Nella prima presentazione del progetto del CAV Le Tre Ghinee, spazio nato nel 2020 nel quartiere di San Lorenzo a Roma, Chiara, una delle co-fondatrici dell’associazione, dichiara che i loro obiettivi principali sono «decostruire, promuovere e diffondere» una cultura, attraverso un’«educazione non-formale», che si opponga al sistema eteropatriarcale da cui si nascono soggettività oppresse su più piani. Come sottolinea Paolinelli, «non lavorare per spazi che adottano una prospettiva transfemminista del problema, riduce di tantissimo il campo di azione del servizio». E sono proprio questi spazi, che cercano di lavorare attivamente alla costruzione di alternative sociali a sistemi di sfruttamento capitalisti e patriarcali, ad essere sempre più minati dalla classe politica. Rinunciare a Lucha significa infatti fare a meno di un’opportunità di sostegno, accoglienza e contrasto alla violenza di genere, di un progetto di welfare e di crescita sociale collettiva, che tende alla costruzione di una realtà alternativa a quella tristemente esistente. Per questo, ci uniamo alla collettività di Lucha y Siesta e a tutte le realtà che come lei portano avanti questa lotta, affinché il mondo istituzionale si focalizzi meno sul portato simbolico delle panchine rosse e lavori economicamente e politicamente di più per sostenere il portato reale di attività come quella di Lucha.
ufficio.stampa@luchaysiesta.org per sottoscrivere alla lettera aperta dell’Associazione Lucha Y Siesta