La scarsità dei finanziamenti all’università è una problematica ben nota in Italia, e costringe gli atenei alla corsa per sovvenzioni al di fuori della sfera pubblica. Fu la riforma Ruberti del 1990 ad aprire la strada ai finanziamenti privati. Paradossalmente è proprio la disposizione della riforma, comunemente conosciuta come la “riforma dell’autonomia”, a causare oggi i maggiori problemi all’indipendenza della ricerca: quella che sarebbe una possibilità per le università sotto-finanziate diventa infatti una strategia per molte aziende private al fine di – come afferma Chiara Sarnataro, Manager dei rapporti con le Università per Eni – «orientare le attività dei gruppi di ricerca accademici verso campi di interesse aziendali». Proprio Eni si trova in prima linea in quanto ad accordi intrapresi con istituti di formazione. Il Cane a sei zampe, infatti, porta avanti da tempo collaborazioni strategiche con numerose università italiane. Nella pratica le partnership prevedono l’erogazione di finanziamenti, l’attivazione di master universitari e il coordinamento dei dottorati di ricerca. La collaborazione con l’Università di Bologna, già approfondita da Scomodo nell’inchiesta La cura Eni, è una delle più longeve. Nel 2017 l’Università ha firmato un accordo quadro triennale dal valore totale di 5 milioni di euro, recentemente rinnovato, e conta un master in Offshore Engineering interamente finanziato da Eni. Le implicazioni che accordi del genere comportano sono lampanti se si considera il caso del professor Alberto Montanari di UniBo. Il docente è coordinatore del corso Science of climate change and climate actions (inserito dall’Alma Mater tra le competenze trasversali e dunque rivolto a tutti i corsi di laurea dell’ateneo), e al contempo firmatario dell’accordo con Eni per il finanziamento della stessa laurea magistrale in Offshore Engineering, in cui è titolare di tre corsi. Montanari inoltre fu al centro di forti critiche nell’Università due anni fa, quando invitò un idrologo che negava l’impatto umano sul cambiamento climatico a tenere una lectio proprio sul riscaldamento globale. 

La formula dell’accordo quadro sembra essere privilegiata da Eni per formalizzare la propria presenza all’interno degli atenei. La presenza dell’azienda nella ricerca pubblica italiana è capillare, e spazia dagli atenei più piccoli fino a quelli più prestigiosi e sovvenzionati: dal 2008 Eni ha attivato collaborazioni con il Politecnico di Milano − valore complessivo 50 milioni − e con il Politecnico di Torino, entrambi sui temi della sostenibilità ambientale.

Scomodo, attraverso richieste di accesso agli atti, ha chiesto a PoliMi, PoliTo e UniBo il testo dei rispettivi memorandum firmati con il colosso dell’Oil&Gas italiano e mai resi pubblici. Il Politecnico milanese non ha mai risposto (come per legge sarebbe tenuto a fare), neppure dopo il ricorso presentato dalla redazione. Il Politecnico di Torino, invece, sarebbe stato disposto a inviare l’accordo quadro, ma − come Scomodo ha già denunciato − solo dietro il pagamento di 136€ per le spese sostenute dagli uffici dell’Università per censurare l’accordo. Questo perché Eni si era opposta alla divulgazione totale e aveva ottenuto che fossero oscurate alcune parti specifiche. L’unica risposta “positiva” è arrivata da UniBo, che ha acconsentito a farci leggere il suo accordo quadro con Eni, nonostante intere pagine (in particolare gli importi economici) fossero state completamente censurate. Scomodo ha deciso di rendere pubblico l’accordo Eni-UniBo, il cui testo è scaricabile qui

 

La difficoltà di poter accedere in modo completo ad accordi fra atenei pubblici e una multinazionale del petrolio che per oltre il 30% è di proprietà dello Stato italiano, è sintomo di una forte mancanza di trasparenza. Per ottenere maggiori informazioni sulla natura dei partenariati fra Eni e il sistema universitario, Scomodo − grazie all’iniziativa di azionariato critico di Fondazione Finanza Etica − ha posto alcune domande all’assemblea degli azionisti di Eni S.p.A., tenutasi il 12 maggio 2021. Dalle risposte è emerso che Eni non ha mai ricevuto pagamenti diretti da parte delle Università italiane per brevetti sviluppati nell’ambito dei singoli Accordi Quadro, e «non ha ottenuto royalties direttamente riconducibili a singoli brevetti sviluppati in collaborazione con Università». Allo stesso tempo «Eni ha corrisposto un totale di €31.250 a INSTM (Consorzio Interuniversitario Nazionale per la Scienza e Tecnologia dei Materiali, ndr), Politecnico di Milano, Università degli Studi di Milano, Università di Padova, Università di Parma e Università di Pavia» per brevetti sviluppati in partnership con questi atenei dal 2016 a oggi. Una cifra che non sembra essere molto rilevante. 

Un accordo impari

Un importante tassello della penetrazione di Eni nel sistema universitario italiano riguarda proprio l’Alma Mater con la quale l’accordo quadro triennale del 2017 è andato a rinnovo nel 2020 per ulteriori due anni. Questo accordo rappresenta un quadro giuridico all’interno del quale le parti si impegnano a sviluppare, attraverso specifici contratti applicativi, progetti di ricerca e sviluppo. Le tematiche, come si legge nell’accordo stesso, sono quelle «della sicurezza e della sostenibilità ambientale, energy transition, energie rinnovabili, green refining, supporto all’eccellenza operativa, valorizzazione degli asset esistenti e monitoraggio nel contesto di interesse delle attività di Eni».

Si tratterebbe a prima vista dell’ennesima partnership tra privato e pubblico, così come ne vengono siglate molte sia in Italia che all’estero. La questione è però più complessa: le stesse difficoltà che Scomodo ha affrontato per entrarne in possesso testimoniano come l’assenza di trasparenza su di un atto che dovrebbe essere pubblico, possa nascondere qualcosa di più. Per capire meglio di cosa si tratta Scomodo si è avvalso della consulenza dell’avvocato Luca Saltalamacchia, esperto di diritto ambientale che ha patrocinato diverse cause nei confronti del colosso energetico italiano.

A una prima lettura del documento − firmato dall’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, e dal rettore dell’Università di Bologna, Francesco Ubertini –, emergono da subito alcuni nodi tecnici particolarmente problematici circa i frutti della ricerca: i brevetti e la pubblicazione dei risultati scientifici. Dall’accordo si evince come «la proprietà dei risultati non brevettabili […] sarà di Eni che avrà il diritto di utilizzarli in qualsiasi modo senza alcuna limitazione da parte di UniBo» mentre gli articoli che disciplinano la proprietà dei risultati brevettabili – originati anche soltanto da personale universitario – sono stati oscurati dalla versione del documento consegnataci dall’Università. Secondo Saltalamacchia «è evidente che se un’impresa finanzia una ricerca i risultati della ricerca debbano essere di appannaggio dell’impresa»: questo fa parte della normalità dei rapporti commerciali. Il problema è il fatto che tutto questo, prosegue Saltalamacchia, «viene fatto con assenza di trasparenza: soprattutto su questo punto ci sarebbe dovuto essere un allegato tecnico in grado di spiegare la ripartizione degli eventuali risultati».

Anche la possibilità per i ricercatori universitari di pubblicare i risultati delle ricerche condotte alimenta grosse perplessità: questa infatti dovrebbe avvenire passando per un’esplicita autorizzazione preventiva da parte dell’azienda e comunque, si legge nell’accordo, «se Eni si oppone alla pubblicazione, Eni è legittimata a modificare il documento oggetto di diffusione, eliminando ciò che ritiene possa costituire informazione confidenziale di sua proprietà». Quella che Saltalamacchia chiama eufemisticamente una «cessione di “sovranità intellettuale”» da parte dell’Università nei confronti di un privato, rappresenta de facto una limitazione della libertà di ricerca scientifica. Secondo la professoressa Margherita Venturi, docente a contratto presso i Dipartimenti di Chimica Industriale e di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Alma Mater, «tutte le volte che si ha a che fare con privati, i privati pongono limitazioni alle pubblicazioni che un ricercatore può fare». Le cose si complicano ancora di più se si considera che non è dato sapere per quanto tempo le parti – UniBo soprattutto – siano tenute a tenere riservati i risultati delle ricerche: il limite temporale al di là del quale l’obbligo di riservatezza decade è infatti stato omesso dalla versione dell’accordo quadro in nostro possesso. «Se ci fosse scritto cinquant’anni?», commenta Saltalamacchia, «sarebbe davvero come mettere una sorta di “bavaglio” all’università». La professoressa Venturi invece, raccontando l’esperienza di ricercatori che in passato hanno lavorato su progetti di ricerca co-finanziati da privati in ambito universitario (non parliamo di Eni) ritiene come questa sia «una cosa pesantissima, perché molti ricercatori si sono trovati ad aver speso parte della loro carriera a lavorare ma senza poter pubblicare, proprio perché limitati da regole di fortissima riservatezza».

La partnership tra il Cane a sei zampe e l’Università più antica d’Europa sembra dunque essere particolarmente sbilanciata in favore del privato. È legittimo pensare che Eni collabori con l’università pubblica per perseguire i propri interessi economici? A guardare alle condizioni sottoscritte dal rettore Ubertini parrebbe proprio di sì. Nel complesso, la possibilità di censurare le procedure di riconoscimento dei brevetti e la necessità di una autorizzazione preventiva dell’azienda per la pubblicazione dei risultati scientifici sono una forte minaccia per libertà di ricerca scientifica. Tutto questo assume maggior peso se si considerano le clausole di recesso dall’accordo: «Eni potrà, a sua assoluta discrezione e senza fornire alcuna giustificazione ad UniBo, con semplice comunicazione scritta inviata a mezzo raccomandata […] recedere da tutto o parte dell’accordo […] in qualsiasi momento». In pratica, l’accordo tra le parti poggia su basi di arbitrarietà, in cui una semplice raccomandata può mettere a repentaglio un progetto di ricerca che impegna l’Università per mesi. Secondo Saltalamacchia «siamo in una situazione giuridica in cui chi dà i soldi è libero in qualsiasi momento di fermare questa erogazione, anche per capriccio, perché magari non condivide i lavori che si stanno eseguendo».

Considerato che i dettagli tecnici dell’accordo disegnano un quadro di interessi particolarmente squilibrato a favore dell’azienda e a scapito dell’Università, possiamo ipotizzare quali sarebbero i vantaggi che le parti guadagnerebbero da questa intesa. Secondo Saltalamacchia, Eni potrebbe intrattenere rapporti con le università italiane «per mettere sotto controllo degli attori che diventano importanti quando si parla dei problemi delle sue attività». Infatti, prosegue l’avvocato, «i CTU (Consulente Tecnico d’Ufficio, colui che presta la propria consulenza tecnica al giudice nei processi giudiziari, ndr) delle cause di disastro ambientale nella stragrande maggior parte dei casi vengono presi dal mondo universitario, quindi è chiaro che controllare o comunque influire sull’organizzazione del mondo universitario significa anche mettere un tentacolo in un possibile attore che può venire in rilievo in specifici casi». Al contrario, sempre secondo Saltalamacchia «l’interesse di UniBo potrebbe essere quello di reperire dei fondi che fatica ad avere in altro modo»: in una situazione di generale sottofinanziamento di istruzione e ricerca quindi, le risorse dei privati costituirebbero un importante iniezione per permettere alle università di continuare le proprie attività di ricerca. 

Se i privati possono penetrare nel sistema universitario italiano senza incontrare opposizioni – e anzi esigendo accordi con condizioni molto dure – è perché questi possiedono qualcosa che all’università manca da tempo: i soldi. Ma non sarebbe propriamente corretto affermare che questa situazione non ha incontrato opposizioni. Il clima nell’Alma Mater, che a fine giugno si appresta a rinnovare il rettorato, è particolarmente teso. 

Le voci del dissenso

Non tutti sono d’accordo rispetto alle ingerenze di Eni, c’è un dissenso interno alla comunità accademica che è importante tenere in considerazione. Il problema ancora una volta non sono i rapporti tra privati e università, che ormai sembrano inevitabili. Piuttosto, come ha evidenziato Saltalamacchia, sono le modalità in cui questi accordi vengono stipulati a presentare criticità. Le opinioni della professoressa Margherita Venturi e del professor Vincenzo Balzani, intervistati da Scomodo, non si discostano di molto dalla presa di posizione dell’avvocato. Secondo Balzani, professore emerito dell’Università di Bologna, «tutti gli accordi fatti tra università e azienda in qualche modo possono essere produttivi: sono collaborazioni positive, ma l’università deve chiedersi che ruolo ha e tornare a essere la mente e non il braccio dietro alla ricerca». Per il professore la questione è innanzitutto etica e riguarda la contraddizione tra gli impegni e i vanti sulla sostenibilità di UniBo e l’accordo siglato con la leader italiana dell’Oil&Gas. Questa stessa contraddizione di interessi è stata recentemente rilevata anche da alcuni studenti e studentesse, che hanno lanciato una petizione a riguardo raccogliendo seimila firme. Hanno anche coinvolto Balzani, Venturi e altri professori del gruppo Energia per l’Italia nella stesura di una lettera rivolta ai candidati rettori, con l’obiettivo di chiedere maggiore trasparenza e partecipazione nella discussione di questo genere di accordi. Partecipazione e trasparenza che si sono rivelati essere proprio alcuni nodi mancanti del patto Eni-UniBo. Come evidenzia Venturi, e in linea con la prassi universitaria non solo di UniBo, solo una piccola fetta della comunità universitaria è davvero informata e resa partecipe delle scelte in materia di finanziamenti. Queste richieste, poi, sollevano altre preoccupazioni relative agli accordi. 

Il timore più grande riguarda le possibili limitazioni o indirizzamenti dettati alla ricerca. Secondo la professoressa Venturi «è difficile che queste dinamiche vengano allo scoperto, ma pressioni sotterranee ci possono essere sempre quando ci sono di mezzo finanziamenti». Nel corso della sua carriera, Venturi ha spesso avuto a che fare con attori privati (diversi da Eni) che sovvenzionavano ricerche ed esperienze di tirocinio per tesi. Queste collaborazioni potevano tuttavia portare a tensioni e limitazioni, e la professoressa segnala casi di ricercatori che decidevano di abbandonare il gruppo di ricerca e difficoltà nella stesura delle tesi a causa delle numerose censure richieste dalle aziende. Casi di questo tipo hanno portato la docente a rinunciare alle tesi in ambito industriale: «io ho puntato i piedi perché non mi piace che l’industria detti le sue regole in ambito universitario dove invece le scoperte, la ricerca, le innovazioni devono essere beneficio di tutti». Dall’esperienza della professoressa emerge dunque un quadro fortemente sbilanciato tra privati e personale dell’università. Come rileva l’avvocato Saltalamacchia, anche il rapporto tra Eni e Alma Mater si configura nei termini di una relazione tra committente ed esecutore in cui «l’esecutore non può andare lontano rispetto alle esigenze del committente». Secondo Venturi, è evidente come «non si tratti di un rapporto ad armi pari». 

Nell’ambito di rapporti così sbilanciati, il timore è anche quello che si possano verificare casi di conflitti di interesse. La professoressa Venturi denuncia un atteggiamento in particolare: «non sono assolutamente d’accordo con quei docenti che si schierano a favore dei finanziamenti Eni e poi tengono invece dei corsi in cui si parla di sostenibilità». Proprio ciò che si è verificato nel già citato caso del professor Montanari. L’immagine che emerge è sicuramente quella di un corpo docente non così compatto, segnato da una spaccatura interna che gli stessi professori intervistati hanno più volte segnalato. Certamente, come sottolinea Balzani, «il corpo docente è molto vasto e ha idee molto differenti: per esempio ci sono docenti che collaborano con Eni perché pensano che i combustibili fossili non si potranno mai abbandonare per andare avanti». Secondo Venturi, altri «dicono che senza Eni non potremmo fare ricerca», vedono nella multinazionale un grande mecenate che offre finanziamenti indispensabili per proporre un’offerta formativa di qualità agli studenti. Altri ancora, secondo i professori, semplicemente non vogliono esporsi affrontando l’argomento pubblicamente. L’esempio lampante di questa deriva è proprio la lettera che Venturi e Balzani insieme ad altri professori stanno cercando di redigere e portare all’attenzione dei candidati. Purtroppo, ammette Balzani, «non è facile trovare docenti che firmino», neanche se si tratta di un’iniziativa che chiede di migliorare e non di rinunciare agli accordi. Nè se questa proposta nasce in supporto a richieste che arrivano direttamente dagli studenti.