Ricordo la sensazione che provai quando si accesero le luci in sala. Ero esausto dopo quei 209 minuti di The Irishman, logorato e dolorante in più parti, ma quasi nello stesso istante capii che quel film doveva durare così tanto, era necessario. Perché vi sto dicendo questo? Un po’ per mettere le mani avanti visto che l’intervista che state per leggere è lunga, anche per gli standard di articoli longform a cui Scomodo vi ha abituati, un po’ perché, davvero, ogni volta che ho provato a ridurla, limare qualche pezzo, ho provato la stessa sensazione: Tutti i passaggi che Carmine Donzelli ha scelto di condividere con me sono fondamentali a raccontare la sua vita e la sua esperienza di editore. Due capitoli, come vedrete, inscindibili nella storia di un uomo che non si è mai “disunito”, seguendo il consiglio, ormai meme virale, del Capuano di Sorrentino e a cui lascio la parola per guidarci in questo viaggio.
Cap I: Una serie di fortunati eventi
La famiglia
Sono nato nel 1948 a Catanzaro, in un contesto familiare borghese, terzo di quattro figli, mio padre faceva il magistrato, mia madre la professoressa di lingue straniere al liceo. Diplomato nel ‘66 al liceo classico Galluppi, ci siamo poi trasferiti con l’intera famiglia a Torino perché mio padre aveva vinto un concorso interno alla magistratura. All’epoca la mia collocazione ideale era a sinistra, ma di formazione cattolica: venivo infatti dal movimento studentesco di Azione Cattolica, che in quegli anni, in virtù della cosiddetta “apertura sociale” dettata anche dal Concilio Vaticano II, dialogava in maniera molto stretta con l’altra grande cultura politica del mezzogiorno: gli amici/nemici comunisti.
L’università e il ‘68
Mi sono ritrovato quindi, a 18 anni, a Torino, con inizialmente un forte senso di sradicamento, come sempre avviene in questi casi, ma probabilmente anche di più. Sai, erano gli anni che descrive Goffredo Fofi nel suo famoso libro [L’immigrazione meridionale a Torino N.d.R], c’erano i caffè dove non si servivano i meridionali! Tuttavia non voglio neanche esagerare perché i meridionali discriminati erano quelli di provenienza sociale bassa e io ero un meridionale di lusso. Ne ho risentito più che altro in termini di socializzazione, il primo anno di università è stato un anno di fatica nella solitudine, poi improvvisamente è scoppiato il ‘68.
Questo è un dato anagrafico importantissimo nella mia esperienza di vita, un vero e proprio turning point che ha cambiato il mio approccio alla formazione. Mi ero iscritto a medicina perché volevo salvare l’umanità, poi mi sono reso conto che la mia vera vocazione era diversa e quindi ho cambiato facoltà e mi sono iscritto a filosofia. Il 23 novembre del 1967 facevo la mia prima lezione, a tenerla era il professor Luigi Pareyson, filosofo di grande qualità e rigore, che teneva un corso sull’etica di Kierkegaard nella seconda fase del suo pensiero… Non sono mai arrivato a capire di cosa si trattasse perché al quindicesimo minuto della lezione entrò nell’aula un ragazzo biondo dai capelli lunghi di nome Guido Viali gridando: “l’università è occupata”.
Per i successivi due anni blocco totale della didattica; poi la ripresa sotto la forma di gruppi di studio, seminari e altre forme autogestite. Come dicevo, questo ha influito molto sulla mia concezione della formazione e trasmissione del sapere, ma anche sulla ricerca e definizione degli interessi di studio. Al secondo anno cominciai a seguire dei corsi, all’esame di Storia delle discipline politiche conobbi Corrado Vivanti, importante studioso di Machiavelli, tanti anni in Francia alla scuola di Braudel, all’epoca non sapevo chi fosse, né tantomeno che oltre a essere un professore era a capo della sezione di saggistica di Einaudi. Feci un primo esame, poi un secondo, un terzo e alla fine lo scelsi come relatore per la mia tesi. Mentre stavo scrivendo l’ultimo capitolo Vivanti, con cui a quel punto ero entrato in contatto in maniera molto familiare, molto sessantottina, un giorno mi telefonò, dicendomi: stasera vieni a casa mia, che ti faccio conoscere una persona. Mi presentai molto ingenuamente a quella cena, e subito mi misi a chiacchierare con questa specie di gigante, lo dico letteralmente, era molto alto, ma di un’eleganza particolarissima. Come si faceva a quel tempo gli diedi subito del tu: “cosa fai di mestiere?” e lui con grande semplicità rispose: “mi occupo di libri”. Poi fu il suo turno e più che una cena fu un interrogatorio, di quelli puntuti, esigenti, sfibrante ma soddisfacente. La mattina dopo Vivanti mi telefonò e mi disse “quello era Giulio Bollati dell’editore Einaudi, stiamo partendo con un nuovo progetto – Storia d’Italia – e vogliamo che tu ne faccia parte.”.
Einaudi
Fui il primo assunto del piccolo nucleo redazionale che si sarebbe occupato di quest’opera, mi laureai in fretta e furia a dicembre del ‘72 perché Corrado mi disse di sbrigarmi, c’era bisogno di mettersi subito a lavoro. La mia era una condizione di assoluto privilegio, una grande fortuna, perché la struttura della casa editrice era organizzata per canali e non era previsto il passaggio tra le mansioni: se si entrava correttori di bozze si usciva correttori di bozze, magari capo correttore di bozze, ma non c’era mobilità verso l’alto. Io a 22 anni mi sono ritrovato editore, una condizione quasi paradossale, a ripensarci oggi per il livello di preparazione intellettuale che avevo. Per quanto con un percorso universitario di eccellenza, non certo difficile a quei tempi c’è da dire, un neolaureato sedeva vicino a Bobbio, Calvino, al mitico tavolo ovale del consiglio editoriale di Einaudi, l’organo che decideva le acquisizioni editoriali. A quel tempo poi Einaudi era ancora nel pieno del suo splendore, e si stava orientando verso il settore delle grandi opere, collettive e dalla costruzione progettuale mirata. Furono anni di grande formazione, non certo facili, come per nessuno a cavallo tra il ‘68 e il ‘77, ma alle tensioni generali si aggiungevano quelle intellettuali interne, che da sempre caratterizzano le case editrici serie. Per Giulio Einaudi, che ho sempre considerato infatti più un editore di istinto che un intellettuale in senso articolato, figura invece incarnata alla perfezione da Bollati, lo “scontro” assurgeva a vero e proprio metodo di selezione: quando si proponeva un libro in consiglio, lui girava gli occhi attorno al tavolo editoriale e il suo intento era di capire in quel momento chi fosse il “nemico” di quella proposta. Chi poteva opporsi? Avere obiezioni di natura ideale, o anche meno nobili, per contrastare, per rendere più difficile la vita a chi aveva fatto la proposta? La successiva lettura di quel libro veniva quindi affidata a questo avversario, dopodiché iniziava una vera e propria battaglia in cui venivi coinvolto dalla testa ai piedi.
La crisi
Negli anni 80 assieme all’inflazione arrivò una crisi di modello, ideale e organizzativo aziendale insieme. Nell’83 un provvedimento del tribunale di Torino dichiarò fallita la casa editrice, che andò in commissariamento, con la famosa legge Prodi, venne nominato un commissario straordinario, Einaudi perse le prerogative di proprietario e si entrò in una fase di vendita della casa editrice. Ci fu uno sconvolgimento delle strutture portanti del management che l’avevano governata fino a quel momento, e ancora una volta, non so dire se sia stata una fortuna o… in qualche modo per me personalmente credo di poter dire che fu anche un’opportunità che mi si presentò. La dirigenza venne azzerata dal commissario, Einaudi stesso venne estromesso dal meccanismo decisionale in quella fase, rientrò successivamente nella veste di presidente onorario, ma con poteri assai limitati. Corrado Vivanti fu esonerato dall’incarico di responsabile della saggistica, e come succede in questi casi le seconde file vennero promosse sul campo. In questo caos venni nominato responsabile del settore di Storia contemporanea, un settore molto importante della produzione editoriale di quella fase. Fu un’esperienza importante anche quella, si trattava di apportare una revisione critica a un modello culturale che era stato egemonico dal secondo dopoguerra in avanti. Einaudi era stata un’esperienza senza pari non solo nel panorama italiano, ma anche europeo. Non c’è un editore che possa vantare il potenziale egemonico sull’intera cultura nazionale come l’ha avuto Einaudi. Una posizione che significa avere a disposizione, sulla tua scrivania, il meglio del mondo. Certo, di per sé questo non è garanzia di successo, ma se ti vuoi comprare i diritti di Benjamin tu sei il primo, vieni prima, se poi sei così cretino che te lo lasci sfuggire è colpa tua, ma vieni sempre per primo. Se invece sei una casa editrice piccola, diversa, fuori dal giro, a Benjamin non arriverai mai, non ti sarà dato. Questo comporta una responsabilità e un peso nella scelta politico intellettuale dei tuoi orientamenti, aziendali e culturali.
Nell’ ‘85-86 si aprì un conflitto interno all’editore nei confronti dell’orientamento del piano editoriale e tra gli altri a farne le spese fu un mio progetto già precedentemente approvato. Naturalmente era legittimo che ci fossero delle obiezioni, delle critiche – come vi ho già raccontato ero abituato – ma la procedura con cui questi dissensi vennero manifestati fu ai limiti di quello che vissi come un tradimento di fiducia. Quindi, in una notte, presi una decisione drastica di cui non mi sono mai pentito, e la mattina dopo presentai le mie dimissioni immediate. Non sapevo cosa avrei fatto, non avevo predisposto nulla, era una situazione inaspettata, non avevo scivoli di salvataggio. Nei mesi successivi fui chiamato da Cesare De Michelis, responsabile della Marsilio, che aveva un piano di espansione editoriale piuttosto importante e mi propose di fare il direttore editoriale.
ProtoDonzelli
Per i successivi 4 anni, come direttore editoriale per la saggistica di Marsilio facemmo delle cose belle, ma nel frattempo avevo fondato una rivista che si chiamava Meridiana con un gruppo di amici prevalentemente meridionali. Lo considero un momento sliding doors, fu un progetto decisivo della mia formazione individuale, tra l’imprenditore e lo studioso. È con Meridiana infatti che ho iniziato a fare l’imprenditore di cultura, nel senso che mettemmo insieme un istituto di ricerca che si chiamava Istituto Meridionale di Storia e Scienze Sociali. L’intento era quello di entrare nel meccanismo di produzione intellettuale del meridionalismo per sovvertire l’idea dominante di un mezzogiorno, del tutto separato e sempre arretrato, come un blocco contrapposto al resto del Paese e destinato a non raggiungerlo mai. Una visione senz’altro vera a suo tempo, frutto di un’elaborazione nobile, importante, ma che era giunta al termine. Era il momento di un’attualizzazione della storia del mezzogiorno, una rivendicazione anche di una diversa lettura complessiva della storia italiana e del presente dell’Italia, che in quel momento si avviava alla fine della fase della Prima Repubblica.
La rivista era un quadrimestrale importante, impegnativo, che funzionava per numeri monografici costruiti con convegni appositamente selezionati, con forte curvatura interdisciplinare e con la partecipazione di studiosi anche non meridionali. Spesso il tema partiva dal mezzogiorno ma poi si allargava a una visione molto comparativa.
Alla fine venne fuori che c’erano tutti gli elementi per mettere su un gruppo intellettuale che potesse esprimersi attorno a Meridiana come il gruppo di una casa editrice nuova. Così presi i miei risparmi, che a quel tempo mi avrebbero consentito di pagare l’anticipo di una casa, e invece mi sono comprato una casa editrice. O meglio, ho messo in piedi un meccanismo di public company, mi sono garantito il 51 percento del capitale di una srl a responsabilità limitata e ho iniziato a fare fundraising per trovare il rimanente 49, che è stato raccolto a piccole, piccolissime quote soprattutto tra amici e collaboratori del gruppo di Meridiana. Siamo partiti nel ‘92 abbiamo e cominciato le pubblicazioni nel ’93.
Destra e sinistra
I primi anni i miei amici nemici einaudiani mi hanno lasciato lavorare con una discreta libertà, nonostante le mie conoscenze fossero tutte del loro “giro”. Non so se sono un po’ presuntuoso se dico che all’inizio mi hanno sottovalutato. In particolare avevo continuato a mantenere i rapporti con Bobbio, di cui ero stato l’editor per tutti gli anni di Einaudi. Andavo spesso a trovarlo, era un’amicizia frutto del lavoro, ma anche di una condivisione intellettuale di cui si degnava di coinvolgermi. Un giorno andai a trovarlo a casa sua, lui stava uscendo per andare a un seminario, gli chiesi di leggere gli appunti che aveva preparato, saranno state 4 cartelle, e qualche giorno dopo gli telefonai dicendo: “ma qua c’è un libro dietro!”. Così nacque la prima idea di Destra e sinistra. In quel periodo ero ancora dall’editore Marsilio, quando me ne andai dissi a De Michelis, con cui rimasi in ottimi rapporti, che me ne andavo non per spostarmi da qualche altra parte, ma per aprire la mia casa editrice, che forse era un gesto contro me stesso ma sicuramente non contro di lui. Gli dissi che tutto il mio lavoro in Marsilio era ovviamente a sua disposizione, gli chiesi però di fare un’eccezione proprio per Destra e sinistra, e lui da vero galantuomo acconsentì dicendo che quella era una cosa mia. Il progetto ebbe una gestazione di 3 anni perché Bobbio era molto contrastato e voleva costruire il suo ragionamento col massimo del rigore. Finalmente, nel gennaio del ‘94, mi consegnò il dattiloscritto finale, ricordo che andai in ufficio e discussi fino a notte fonda con il direttore commerciale. Lui sosteneva bisognasse tirarne cinquemila copie, io dicevo quattromila. Nei successivi dodici mesi abbiamo venduto quattrocentocinquantamila copie e questo fu un caso particolarissimo, eccezionale, irripetibile.
Sottolineo sempre, forse l’ho detto anche oggi, che la mia vita è innegabilmente punteggiata da opportunità e fortune, quello che mi riconosco è però il coraggio di essere andato avanti sempre con testardaggine, se devo dire una virtù calabrese. Ce l’ho messa tutta e la sensazione che ho è che siamo riusciti a costruire in un momento di grande sbandamento dell’establishment della sinistra italiana un editore aperto, non spiccatamente ideologico, capace di confrontarsi col mondo senza presunzione, ma anche senza alcun tipo di debolezza concettuale. È grazie alla bontà del nostro lavoro che piano piano sulla strada che tracciavamo abbiamo incontrato i nostri amici. Così sono arrivati Crainz, Barca, Salvadori, Lupo, Bevilacqua, una compagine intellettuale variegata, unita nel nome della buona produzione culturale e dalla consapevolezza che in vari modi il nostro mestiere è quello di organizzare cultura.
Cap. II: Organizzare cultura
La famiglia
Innanzitutto io sottolineo la funzione sociale, il carattere collettivo dell’esperienza intellettuale. Non voglio negare l’apporto della genialità individuale, le autorialità sono importanti, ma una casa editrice, e in questo credo di aver fatto tesoro di un’eredità gramsciana, almeno nella mia visione e nella mia intenzione si pone come un organizzatore di cultura. Donzelli è un punto di raccordo di un lavoro di squadra in cui sono presenti alcune caratteristiche di omogeneità progettuale che non sono definibili sotto la forma del settarismo; l’angolatura di un editore è ciò che la caratterizza, l’apertura di un ventaglio che rende compatibili entro una certa misura delle posizioni che non sono del tutto coincidenti, ma le fa appartenere a una famiglia ideale. La mia, la nostra famiglia ideale è quella di una cultura attenta alla dimensione sociale e politica, qualcosa in più che democratica, vorrei dire una cultura aperta al radicalismo, attenta ai diversi, agli ultimi, alle minoranze in difficoltà, senza per questo disconosce o negare gli aspetti dell’organizzazione complessiva della direzione e del governo.
Il modello di editore
Se tu li guardi così, i libri hanno bisogno sempre di un editore. Di una figura che si inframmetta tra l’autore e il pubblico, difendendo il punto di vista del lettore, di chi vuole dall’autore la performance più adeguata concettualmente ai suoi bisogni. Questa mia visione genera un modello editoriale di forte interventismo sui testi, di editing insistito, di corpo a corpo con gli autori i quali alla fine o ti odiano o ti amano se ti odiano se ne vanno e peggio per loro. Se ti amano diventano anche fedeli. Intendo una fedeltà intellettuale, non di scuderia, vuol dire averli accanto in un percorso. Naturalmente in tutto questo non vi sfuggirà una connotazione ideale naturaliter di sinistra, ma anche questo non significa qualsivoglia fiancheggiamento stabilizzato, ma anzi la vocazione è quella di esprimere una critica tanto più forte, quanto più riguarda la parte più vicina. A Giorgia Meloni ha poco da chiedere, non mi aspetto granché da lei, ma si diventa tanto più esigenti quanto più si può pretendere una condizione una consonanza.
Tirando le somme, date queste premesse non certo ordinarie nel panorama editoriale attuale, considero questa esperienza dal punto di vista professionale felice. È vero, non ci siamo certo arricchiti, ma siamo ancora qui. Siamo sopravvissuti come impresa e abbiamo costruito un nostro equilibrio, difficilissimo da ottenere ma ancor di più da mantenere perché non è fatto di grandi clamori, ma di scelte molto curate e spesso “scomode” – ride – un aggettivo che mi piace molto devo dire.
Allo stesso tempo, e proprio per questo, penso che l’impresa editoriale sia un’impresa. Un editore non si può permettere di vivere di umori, di entusiasmi, tanto più un progetto come il nostro, pensato e studiato in funzione di una durata nel tempo. Abbiamo prodotto nel corso di quasi 30anni di attività editoriale 2500 ISBN, 2500 “targhe di libri”, di questi 1800 sono a disposizione del distributore nel nostro magazzino. È una quota percentuale del vendibile sul prodotto che, mi permetto di dire, non ha eguali nel panorama dell’editoria italiana. Possibile soltanto se noi facciamo su ogni singolo titolo un conto di competenza che lo porta ad essere sostanzialmente sostenibile. Non ho mai amato l’idea di finanziare le parti caduche del mio progetto editoriale con le parti vive, perché le parti caduche se lo sono davvero peggio per loro, non ci devono essere. non voglio essere troppo drastico, ma penso che se un libro non arriva a break even, è quasi sempre perché non ha la forza intellettuale per arrivarci e non per altro. La partita si gioca prima e si vince sul campo, attraverso una qualificata capacità di rendere quel prodotto corrispondente a un bisogno di lettura da parte del tuo pubblico.
Tutto ha un costo
Qui entriamo in un terreno delicato: i libri costano troppo? Dal punto di vista commerciale, del consumo, sono un oggetto con caratteristiche, almeno i miei libri, non così caduche. Non essendo un genere voluttuario la loro funzione non si esaurisce alla prima lettura, sono strumento di studio e durano più di una lavatrice; il prezzo a cui si vendono non mi pare quindi irraggiungibile dal punto di vista di chi deve e vuole garantire una formazione individuale. Per questo motivo però l’oggetto libro deve incarnare una qualità intellettuale e morale inoppugnabile e questo riguarda tutta la filiera: traduzioni sottopagate, l’uso di carta non certificata, come mille altri espedienti incrinano questo patto tra lettore ed editore. Io sono orgoglioso di avere tutti i miei dipendenti in una posizione di totale trasparenza contrattuale, le traduzioni le pago quanto le devo pagare, faccio le fatiche necessarie per organizzare un’impresa nel modo più trasparente ed efficiente possibile. Tutto questo ha dei costi. Per una saggina a cui tengo particolarmente dal punto di vista intellettuale e che verrebbe 21,50 euro posso dire che la metto a 19, ma non a 14, perché la rovinerei in quel momento, ma soprattutto nel contesto dell’operazione generale che sto facendo, metterei a repentaglio la stessa vita e il modello imprenditoriale di questo editore.
Lo stesso discorso si applica alla distribuzione, che è parte integrante della filiera. Amazon ad esempio, nei confronti delle problematiche della logistica, non può che avere, secondo me, un comportamento irreprensibile, e siccome io sono un editore che vende tramite Amazon glielo devo far presente, devo chiamarlo a rispettare i miei standard di moralità, altrimenti condivido con loro il giudizio di immoralità. Anche a questo serve la capacità e la possibilità di essere in equilibrio economico, in modo da non essere schiavo e succube di quel tipo di processi e procedure e quindi alla fine complice. È una questione per l’appunto di moralità.
Maledizioni
Spostiamoci allora su un altro terreno, che impatto hanno queste politiche di prezzo su un mercato come quello dei giovani attenti alla loro formazione individuale e che pensano a questi bisogni?
Quello che dico sempre è che io non devo vedere con quanta difficoltà e con quante male parole nei confronti dell’editore si fa lo sforzo di portare la mano al portafoglio in libreria. Devo vedere se la mano al portafoglio alla fine viene portata oppure no. Non cerco la compiacenza, preferisco le maledizioni: quanto è caro questo cazzo di Donzelli, uno che dice questo e mi compra mi va bene, sono contento, non mi lamento di queste maledizioni. D’altro canto l’unica cosa che mi preoccuperebbe è se il prezzo diventasse una soglia di difficile superamento e non desse più accesso al bene in questione, ma fino a quando si tratta di maledizioni a quel cacchio di editore me le tengo, sono se vogliamo anche un attestato di stima.
Pubblico e privato
Altro discorso è, e penso sarebbe più interessante, che cosa fa il Pubblico per garantire la circolazione in modo tale che questi prodotti siano effettivamente fruibili da tutti quelli che ne hanno necessità e utilità, indipendentemente dalla loro possibilità di spesa. Allora facciamo un discorso bonus 18, biblioteche, università, comunque di accesso, finché ci troviamo in un modello economico in cui spese e produzione sono organizzate in questo modo.
Inutile dire quanto ancora ci sia da fare per arrivare a un livello accettabile per questo discorso, nonostante anche l’aiuto dei privati. Non parlo della mia vicenda professionale, ma personale: tre anni fa ho avuto una terribile disgrazia familiare, mia figlia è morta in un incidente stradale. Era una molto “dei vostri”, diciamo così, e la mia simpatia per Scomodo ha anche parecchio a che fare con questo. Ve ne parlo perché con mia moglie, per onorare la sua memoria, abbiamo creato una fondazione che garantisce alla biblioteca di filosofia di Villa Mirafiori, dove nostra figlia studiava, la possibilità di comprare 500 libri stranieri l’anno, ma solo su indicazione degli studenti. Questo perché crediamo che la formazione filosofica in questo Paese debba necessariamente passare anche dal confronto diretto con pensatori esteri. È un sussidio che in qualche modo la struttura pubblica può e deve nel tempo riuscire a garantire, ma anche un aiuto che immagino risulti gradito anche alle tasche del singolo studente di filosofia della Sapienza.
I libri più belli
Io spero che un giorno questo gesto non sia più necessario, che l’università riesca a garantire l’accesso a tutti i libri necessari per un esame, in modo tale che i 18 euro che uno studente dovrà spendere per la saggina di Donzelli gli risultino disponibili in virtù del fatto che altri bisogni primari gli sono stati colmati. Però lui la saggina Donzelli se la deve scegliere! Deve sentire il bisogno, o meglio la curiosità, la forte attrazione di quell’oggetto e, come dicevo prima, mandare la sua maledizione a Carmine Donzelli che la fa costare un po’ troppo.
E una volta a casa aprirla con la consapevolezza e la soddisfazione di avere tra le mani uno dei più begli oggetti libro che esistano sulla faccia della terra! Può sembrare un’esagerazione, ma è una cosa in cui credo e di cui vado orgoglioso, perché penso davvero che i libri dell’editore Donzelli siano tra le altre cose dei libri belli! Belli da maneggiare, curati, appropriati. Non c’è un solo libro Donzelli che sia fresato, sono tutti piegati e cuciti con il filo refe, perché un libro non si deve spaccare aprendolo. Tutto questo ha un riflesso, andate a trovare un libro di natura analoga presso un altro editore e vediamo quanto costa. Vabbè, ho finito l’arringa.