Il sistema istituzionale e legislativo americano è un esempio molto calzante da prendere in analisi per osservare i limiti di un sistema democratico liberale nella sua partecipazione alla gestione di problemi sovranazionali. Questo si nota anche nella gestione del Climate Plan.
Gli Stati Uniti d’America rappresentano la prima potenza economica democratica al mondo, pertanto risulta particolarmente rilevante fotografare l’influenza che i gruppi di interesse esercitano sulla definizione delle agende di policy rispetto a temi di interesse globale. Lo è ulteriormente se si pensa al ruolo guida che l’America del Nord ha ricoperto storicamente nel processo di coordinamento internazionale per l’attuazione di grandi trasformazioni a livello mondiale, come quelle richieste dalle sfide dettate dal cambiamento climatico. La sostenibilità ambientale, prima soltanto di facciata e poi effettiva nei piani su medio-lungo periodo, compare in tutte le agende governative e aziendali come sfida prioritaria. L’attuazione dei piani previsti su carta, tuttavia, incontra spesso uno scoglio nella fase attuativa, quando richiede una modifica di alcuni rapporti nel tessuto economico-finanziario. Inoltre, nel confrontare il sistema di lobby americano con quello nostrano, emergono alcuni aspetti che portano a rivalutare sotto svariati punti di vista il rapporto tra soldi e politica negli USA, quantomeno relativamente al caso italiano.
In Italia, infatti, la discussione sul processo decisionale e su chi influenza la politica ha innestato la sovrapposizione, nell’immaginario collettivo, dei concetti di lobbying e di corruzione. Mentre negli USA il lobbying è più influente ed esercitato in maniera più trasparente, in Italia nonostante l’attività dei gruppi di interesse abbia un impatto inferiore, ha tuttavia anche un minor grado di trasparenza e di conseguenza una maggiore possibilità di azione. Si tratta, ad ogni modo, di un processo articolato e molti sono gli attori portatori di interessi particolari che partecipano ai processi decisionali. Per valutare l’attuabilità di un piano di politiche, come il Climate Plan proposto dai democratici americani, è, infatti, necessario analizzare l’arena di attori che lo pensa e lo dovrà applicare.
In nome della libertà, a scapito della trasparenza sul Climate Plan
Una delle grandi domande alla base del delicato equilibrio tra Stato democratico ed economia liberale, è se sia possibile mettere sullo stesso piano individui e aziende in nome della libertà. La risposta negli Stati Uniti è sì, e si è rivelata un’ottima strategia per confermare l’eccezionalismo americano. Questa evoluzione ha generato nel tempo una crescente sfiducia degli elettori nel sistema politico che dovrebbe rappresentarli, portando una fetta sempre più ampia di cittadini, vicini soprattutto al partito democratico, ad esprimersi in favore di un ribaltamento della sentenza.
Per finanziare le campagne di un certo candidato politico, perseguendo gli interessi di un settore o per motivi ideologici, i cittadini statunitensi possono riunirsi in Political Action Committees (PACs). A livello federale negli Stati Uniti per PAC si intende un’organizzazione che riceve o spende più di 1000 dollari al fine di influenzare un’elezione politica. Ogni PAC deve rendere pubblici i nomi dei donatori e può contribuire alla singola campagna di un candidato per un massimale che varia tra i 2600 e 5000 dollari a seconda della categoria. Non sono invece sottoposte alle stesse regole le SuperPACs, che si distinguono dalle PAC tradizionali in quanto possono supportare le campagne elettorali solo indirettamente e ricevere contributi illimitati da cittadini, sindacati, PACs e in particolare aziende.
Nella realtà, il meccanismo si traduce in massicce campagne di disinformazione, denigrazione di avversari e finanziamenti ad altre PACs. Nel 2016, ad esempio, ha avuto molta rilevanza mediatica la campagna anti-Clinton diretta da Roger Stone, portata avanti sulla carta senza il coordinamento con alcun candidato. Con gli anni le SuperPACs sono riuscite sempre più ad aggirare i limiti imposti dalle leggi, arrivando persino a pagare i viaggi dei candidati. Uno dei casi più eclatanti riguarda la campagna elettorale del politico Ted Cruz per le primarie repubblicane del 2015, quando il candidato ha postato numerosi video di propaganda sul proprio canale YouTube in modo che le SuperPACs potessero pubblicizzarli senza formalmente coordinarsi con lui.
Un’altra controversia che ruota attorno alle SuperPACs concerne i cosiddetti dark money, ovvero le somme di denaro non rintracciabili, che possono persino anche provenire da una persona non americana. Per supportare un candidato da dietro le quinte, si può infatti, attraverso una società o azienda, finanziare un ente no-profit, che a sua volta finanzierà una SuperPAC. Tutto questo è possibile poiché le organizzazioni no-profit non sono legalmente obbligate a divulgare i nomi dei propri donatori. Le SuperPACs hanno un grande peso nelle elezioni: basti pensare che nelle presidenziali del 2016 hanno raccolto il 30% dei finanziamenti totali alle campagne, 643 milioni su 2,14 miliardi di dollari, stando ai dati resi pubblici da OpenSecrets . Negli ultimi anni però molti politici stanno iniziando a rifiutare il loro aiuto per le critiche mosse dai cittadini sulla bassa trasparenza delle organizzazioni. Per questo, 9 candidati su 24 alle primarie democratiche hanno dichiarato che avrebbero rifiutato il loro supporto. Tra questi Biden, che, però, trovandosi in svantaggio, ha fatto marcia indietro verso la fine di ottobre.
Contraddizioni alla Casa Bianca
Da anni la maggior parte dell’elettorato statunitense di tutto lo spettro politico ha richiesto con forza una riduzione, o perlomeno una limitazione, dell’influenza dei grandi donatori e delle PAC sull’agenda politica dei candidati. Questa richiesta è stata accolta nelle primarie di quest’anno dai candidati democratici, che hanno inserito come punto fondamentale della loro agenda politica alcuni pledges (impegni) riguardanti i finanziamenti della loro campagna elettorale. Ma per valutare quanto e da chi vengano davvero rispettati questi impegni, è necessario considerare che diversi sono i modi per aggirarli.
Nel corso degli anni singole personalità politiche hanno contribuito, insieme all’effetto “casa di vetro” creato dalla rivoluzione Open Data dei primi anni duemila, a rendere il sistema di interazione tra gruppi di interesse e governo relativamente piú trasparente. In questo ambito l’amministrazione Obama ha portato a termine delle riforme molto incisive: inserendo per esempio un registro pubblico della Casa Bianca in cui venivano segnate tutte le persone che prendevano appuntamento per avere incontri con il Presidente.
Uno dei principali impegni è il rifiuto di fondi provenienti dalle cosiddette “corporate PACs”, rivendicato già da più di 50 candidati del Congresso nel 2018. L’intento di questa rivendicazione è chiaro: tenere fuori dalla politica gli interessi di gruppi finanziari e delle industrie. Tuttavia il modo per aggirarlo è semplice: è sufficiente sfruttare le PAC delle trade associations, ovvero gruppi privati formati da un insieme di attività legate alla stessa branca industriale; per esempio l’American Petroleum Institute rappresenta le imprese legate alle estrazioni petrolifere e la Financial Services Roundtables le banche. Secondo la definizione ufficiale riportata dalla Federal Election Commission (FEC), le PAC delle trade associations e quelle delle corporations sono diverse, anche se entrambe rispondono ai medesimi interessi. Un’altra rivendicazione forte è il rifiuto di denaro proveniente da lobbisti federali che, tramite donazioni, influenzano l’agenda politica del candidato a favore degli interessi del proprio cliente. I democratici più progressisti, seguiti in parte dai moderati, rivendicano spesso questa scelta come simbolo della volontà di riformare il sistema politico americano. Tuttavia, anche in questo caso, le leggi che regolano l’attività lobbistica sono piene di “scappatoie” (in gergo loopholes) che permettono a molti dirigenti aziendali che di fatto controllano parte del mercato lobbistico di non essere ufficialmente registrati come tali, come sarebbe invece teoricamente previsto dal Lobbying Disclosure Act (LDA).
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Democratici green e oro nero
La compenetrazione tra apparato economico e istituzioni politiche americane avviene ad un livello così profondo che gli osservatori hanno coniato un termine per descrivere il fenomeno: revolving doors, indica un movimento continuo di persone tra attività di varia natura, ad esempio da quella di policy makers o funzionari per enti di regolamentazione a quella di lobbisti, esercitando al contempo più ruoli o passando da un comparto all’altro. Analizzando la scelta delle personalità presenti nell’equipe di Candidati e Presidenti, risulta evidente che il ricambio tra politici e privati sia in aumento di anno in anno a Washington.
Per quello che concerne il candidato alla presidenza democratico, è inevitabile commentare la sua scelta dell’Advisor presidenziale: Ken Salazar. I Senior Advisor del Presidente sono dei consiglieri presidenziali di alto rango che hanno un grande potere di manovra nella parte piú esecutiva del policy making. Salazar ha ricoperto la carica di segretario degli interni del primo mandato dell’amministrazione Obama e durante quel periodo, mentre portava a termine il suo incarico, si è affermato come una personalità molto influente nell’ambito dell’industria petrolifera, evitando però di esporsi sulla provenienza dei fondi che riceveva, molti dei quali provenivano proprio da lobby del settore Oil & Gas.
Francesco Costa, vicedirettore del “Post” e ad esperto di politica americana, intervistato dalla redazione di Scomodo argomenta come “la nomina di Salazar da parte di Biden sia stata probabilmente influenzata più dal loro rapporto di fiducia personale costruito in anni di servizio pubblico fianco a fianco più che per la sua scomoda posizione di rappresentante degli interessi del petrolio.” Questo non esclude una possibile ingerenza delle lobby nell’agenda politica con lui come tramite, ma ad oggi il suo ruolo nella costruzione della campagna elettorale è legato principalmente alle attività di convogliamento e inclusione della comunità latino americana.
Climate Plan all'americana
Stupisce che anche Biden, seppur in minor parte, si appoggi al settore petrolifero. Nel giugno 2019, il Presidente eletto aveva infatti firmato il No Fossil Fuel Money, con cui si impegnava a non accettare più soldi dalle industrie petrolifera, del gas e del carbone. Dall’inizio del 2020, Biden ha accettato quasi 800mila dollari provenienti dal settore. I finanziamenti ottenuti durante le campagne avvengono all’interno di un rapporto di mutuo scambio tra i due attori coinvolti: il politico coinvolto offre dunque una promessa di attenzione particolare alla tutela degli interessi di chi lo sovvenziona.
I piani che Biden progetta di attuare in ambito climatico sono molto ambiziosi e lui dovrà fare in modo di conciliare gli interessi di tutte le categorie coinvolte, soprattutto a chi lo ha finanziato. Alla tenace e sconsiderata negazione della crisi climatica da parte del proprio avversario, Biden ha sempre opposto una campagna che contenesse tra i suoi punti principali un programma di salvaguardia dell’ambiente attraverso il Climate Plan. Il piano da due trilioni di dollari, presentato a luglio di quest’anno, è un punto di incontro tra l’ideologia conservativa dei tradizionali elettori di Biden e il Green New Deal di stampo europeo proposto dallo sconfitto Sanders, rivolto ad una sinistra più radicale e verde.
Gli USA non menzionano quindi attualmente nel loro piano d’azione chi sosterrà i costi di questa transizione, poiché ne sentono meno il bisogno sul piano operativo, ma devono piuttosto rispondere alla necessità di costruire una base di consenso sufficientemente ampia da garantire la maggioranza sopracitata in entrambe le camere. Questo accade, come ci spiega Riccardo Alcaro responsabile di ricerca dell’Istituto Affari Internazionali, “Poiché il sistema federale americano e il ruolo di moneta rifugio del dollaro permetterebbero a Biden come presidente di finanziare la transizione energetica attraverso un aumento del debito pubblico senza che questo abbia delle conseguenze pesanti sulla liquidità del dollaro”, cosa che invece produrrebbe effetti nefasti sulla posizione valutaria dell’euro se venisse fatto in Europa.
Allo stesso modo, l’opinione, a prima vista contraddittoria, di Biden riguardo alla pratica del fracking, pratica estrattiva relativamente recente che permette di ricavare gas naturale dalle rocce, è in realtà esemplare del tipo di politica del compromesso che è necessario portare avanti per riuscire a concludere delle coalizioni politiche a largo spettro. Costa sottolinea come “Biden non sia nella condizione di esporsi contro una pratica che si è rivelata salvifica per garantire l’autonomia energetica americana oltre che per risollevare interi settori dell’economia ormai in recessione, come quelli dell’acciaio e del carbone”. Riccardo Alcaro inoltre ci ricorda però come l’autonomia energetica americana non porterebbe ad un disimpegno così sostanziale nel breve periodo delle forze americane in Medio Oriente, uno degli argomenti più utilizzati a sostegno del fracking dal punto di vista europeo.
Il potere che l’elettorato esercita sulle decisioni dei governi americani rispetto a trent’anni fa è però aumentato in maniera esponenziale, liberando, almeno in parte, la politica da un meccanismo di dipendenza economica dalle grandi corporation e ristabilendo un meccanismo del consenso che sia maggiormente in linea con l’ideale democratico su cui si regge il sistema elettorale. Pertanto, questa tendenza conduce da un lato la politica americana ad una crescente radicalizzazione delle opinioni partitiche, necessaria per capitalizzare l’attivazione dei cittadini, e dall’altro alla sempre più frequente presenza in agenda di temi come quello della sostenibilità ambientale, perché supportati da un numero crescente di elettori.