I nomi degli assenti: uno sguardo sul settore delle traduzioni letterarie in Italia

Tra i pochi settori culturali a non avere un albo, il mestiere del traduttore continua a non essere tutelato. Scomodo indaga lo stato delle traduzioni in Italia con interviste a protagonisti di questa realtà editoriale.

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«Un traduttore non arriverà mai a diventare famoso. Siamo sempre stati in questa zona all’ombra degli occhi di tutti». Sono le parole di Marina Pugliano, un membro dell’associazione Strade (sezione traduttori editoriali Slc-Cgil) che da anni si batte per chiedere una regolamentazione del lavoro del traduttore che in Italia è quasi un non-lavoro. Per spiegare la sua visione del ruolo del traduttore racconta la storia di  Lucia Morpurgo Rodocanachi, un nome che non dice niente e che per questo risulta esemplare. Scrittrice e, soprattutto, traduttrice, Rodocanachi lavorò per grandi penne quali Montale, Gadda, Vittorini ma il suo importantissimo ruolo non venne mai riconosciuto. La «négresse inconnue», così la chiamava Montale, ovvero la «nera sconosciuta», lavorava con scadenze stringenti sui testi traducendo e, a volte, apportando anche un suo personale contributo.  Nonostante ciò veniva pagata poco e spesso in ritardo e il suo nome non comparve mai su nessuna copertina ad affiancare quello dei suoi illustri committenti. 

Per quanto lo scenario si sia evoluto, le criticità ad oggi abbondano ancora e il lavoro di traduttore editoriale continua ad essere sottopagato, poco riconosciuto e confuso anche a livello legislativo. Proprio come succedeva a Rodocanachi, spesso il nome del traduttore non compare né in copertina né sul frontespizio, cosa che dovrebbe essere obbligatoria secondo la legge sul diritto d’autore.

Secondo uno studio di Strade, l’84% dei traduttori sarebbero in realtà traduttrici, spesso meno tutelate e retribuite rispetto ai lavoratori uomini. Ma sono in realtà stime molto vaghe dato che non esiste nessun censimento ufficiale né un Albo dei Traduttori Editoriali che possano restituire un’immagine un po’ più chiara di qual é la situazione in Italia. Sempre Pugliano dice «I politici non sapevano della nostra esistenza, erano convinti che avessimo la partita Iva, come chi lavora nel diritto d’autore», a rimarcare come il ruolo dello Stato nel definire questo settore sia spesso mancante o marginale. Sulla stessa linea d’onda è Enrico Rotelli, allo stesso tempo scrittore e traduttore in Italia:«I traduttori sono pagati pochissimo ed è molto raro che il loro nome sia in copertina o comunque ricordato. Un albo cambierebbe tante cose,» regolamentando un mestiere che non ha mai ricevuto l’attenzione dovuta.

 

«Per chi fa libri di letteratura, l’Italia è un paese molto difficile». A parlare è Lorenzo Ribaldi, direttore editoriale della casa indipendente La Nuova Frontiera, «C’è la Francia, dove lo Stato interviene […]. L’editore paga il traduttore, diciamo 1 € a cartella e lo Stato francese ci mette un altro euro. E poi c’è la scuola statunitense dove il mecenatismo è un qualcosa che funziona, le donazioni alle entità artistiche benefiche sono detassate […], posso scegliere se pagare tot in tasse o fare una donazione all’autrice x, al museo y […]. Questo in Italia non c’è, noi non abbiamo né l’aiuto pubblico né l’aiuto privato, noi non abbiamo nulla». 

 

Questa assenza si è sempre fatta sentire ma negli ultimi anni la voce dei diretti interessati ha iniziato a farsi sentire sempre di più. In seguito all’esclusione dal Decreto Cura Italia, Strade ha avviato una raccolta firme per ottenere un fondo specifico per affrontare legate all’emergenza Covid. Nell’ottobre 2020 il Micbit ha stanziato un fondo di 5 milioni di euro, un piccolissimo passo che ha permesso di parlare di una categoria invisibile e di raccogliere i primi dati sulla stessa. Ma sicuramente non abbastanza. Dopo un tentativo con una lettera aperta al Presidente Mattarella, nel novembre 2022 numerose associazioni quali Strade, Aiti, Ai, Aniti e Icwa hanno lanciato un appello, seguito da un manifesto, che richiedeva alle commissioni di Cultura e Lavoro un miglioramento delle condizioni economiche e lavorative di fumettisti, illustratori, interpreti, scrittori e soprattutto traduttori editoriali. Il Manifesto chiede l’istituzione di un fondo strutturale per finanziare opere di traduzione e formazione, compensi non solo proporzionali al numero di pagine, ma anche legati allo sfruttamento successivo dell’opera, l’adeguamento alla direttiva europea sul copyright e in generale, un miglioramento del sistema di retribuzione. I compensi in Italia risultano infatti tra i più bassi d’Europa e per i più risulta impossibile vivere solo di traduzione. Secondo un’inchiesta svolta dalla piattaforma Biblit su un campione di 222 traduttori e traduttrici, il compenso lordo per una cartella da 2000 battute nel 2018 si situa tra gli 11 e 15 euro, con un leggero aumento rispetto al 2011. Uno studio del 2020 svolto dal CEATL, European Council of Literary Translators’ Associations, mostra l’Italia ancora agli ultimi posti con un range che va da un minimo di 12,64 euro ad un massimo di 20,30 euro per 1800 battute. C’è stato quindi un leggero aumento negli anni, ma sicuramente sproporzionato rispetto all’importanza del settore delle traduzioni letterarie, un ambito in continua crescita.

D’altronde il settore dell’editoria letteraria si regge sul fatto che le retribuzioni sono molto basse, traduzioni incluse. Come ha spiegato a Scomodo Lorenzo Ribaldi vivere di traduzione in Italia è molto difficile. Essendo un settore con poche opportunità, i traduttori hanno, di base, altri lavori e sono molti di più rispetto alla domanda. Di conseguenza solo una minoranza riesce a fare pratica. E il cerchio si chiude con i guadagni: «la traduzione letteraria è quella forse meno pagata, perché probabilmente traducendo il manuale di istruzioni per montare una centrale nucleare verrai pagato di più rispetto ad un libro di un autore argentino degli anni ‘70». Eppure la tempistica e la difficoltà del lavoro di un traduttore letterario non sono minimamente paragonabili con quelle di un traduttore di manuali. Una volta tradotto il testo letterario l’autore non è più solo. Il traduttore può e deve essere considerato un secondo autore: sono entrambi in dialogo all’interno del libro. Per il traduttore di Dickens, Marco Rossari, «la traduzione è lavorare in sala macchine, nel motore, sporcarsi le mani, scomporre l’ingranaggio». Nel suo ultimo libro per Einaudi L’ombra del Vulcano Rossari scrive «tradurre significa ripercorrere i passi di qualcun altro, […] calcare le orme, seguire ostinatamente un sentiero per rintracciarlo in un territorio sconosciuto. È mestiere, artigianato, bulino. È una trattativa, è una danza». Francesco Pacifico, traduttore di Conan Doyle, descrive ironicamente il lavoro con la lingua parlando di «una non monogamia etica, si deve tradire dicendo che si sta tradendo».
Nel momento in cui i traduttori sono anche scrittori si aggiunge un altro tassello. Le case editrici e gli scrittori stessi hanno la consapevolezza del dover aggiungere un qualcosa, sia perché nella maggior parte delle volte è la casa editrice a chiedere di avere una voce più culturalmente vicina al paese in cui verrà pubblicato il libro,  sia perché a volte è necessario dare un carattere in più se suona come un testo troppo neutro. Pacifico lo definisce così: «Hai presente quando i comici doppiano i cartoni animati? Secondo me gli scrittori-traduttori sono così […] a noi è chiesto di fare le battute in italiano come i comici, di trovare un sound a dei libri che hanno bisogno di un sound». 

 

Il mestiere del traduttore ha comportato nei secoli ciclopici cambiamenti, come del resto la nostra lingua. La sua continua mutazione ha reso la traduzione di classici una delle più frequenti richieste all’interno del mondo dell’editoria. La ritraduzione è fondamentale per rendere il linguaggio più accessibile, correggere errori passati, ripulire il testo da elementi extratestuali e rafforzare traduzioni con nuove conoscenze storiche e culturali. Gli originali non invecchiano ma le traduzioni sì, il flusso della lingua attraversa i tempi e si adatta grazie alla mediazione del traduttore con il desiderio dell’autore. Un ottimo esempio è quello di Ottavio Fatica che nel momento in cui era in corso il processo di traduzione di Moby Dick si continuava a dire «forse quella parolaccia non è bassa come dovrebbe? E mi tocca scavare».

Il riuscire a scavare è sintomo di buona salute del traduttore e nutre la qualità delle traduzioni. Le case editrici in genere creano delle reti di persone con cui è possibile farlo e i risultati delle prove di traduzione cambiamo in base alle scelte editoriali dei direttori. Per esempio La Nuova Frontiera (casa editrice indipendente che si occupa di romanzi latinoamericani) è focalizzata sulle traduzioni dallo spagnolo. Trattandosi di una lingua con un periodare molto dilatato, le traduzioni presentano un alto livello di difficoltà e i traduttori competenti emergono subito. Secondo il direttore Lorenzo Ribaldi «anche i libri molto semplici sono spesso molto difficili; un libro molto semplice, ma molto preciso, si regge su poche parole, scelte bene, se uno in italiano sbaglia una di queste parole, all’apparenza semplice, viene giù tutto. […] È quasi impossibile che un madrelingua spagnolo riesca a tradurre in italiano. Lo spagnolo ha novemila relative, settemilaottocento gerundi che in italiano non riusciamo a leggere più, è pesante».

Se secondo Umberto Eco tradurre è “dire quasi la stessa cosa”, il mestiere del traduttore dovrebbe di fatto avere, almeno, quasi lo stesso riconoscimento. Nonostante il trend in crescita che dimostra un ritrovato interesse per i titoli italiani nei paesi esteri, per ora l’Italia resta tra i paesi in Europa con meno tutele e guadagni per i traduttori. 

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