I mestieri di Roma

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Giubbonari, Pettinari, Coronari: nell’intreccio delle vie del centro, Roma serba ancora la memoria degli antichi mestieri. Anche se molte botteghe sono tramontate, la vocazione artigiana della Capitale non si è mai spenta. Nella provincia di Roma, le imprese artigiane registrate a fine 2021 erano più di 66mila, l’84% ditte individuali. Nel tessuto di piccole e micro-imprese artigiane che rende l’economia italiana un unicum in Europa, l’artigianato artistico impiega 801mila addetti in 288mila imprese, il 28,2% dell’intero settore artigiano, secondo uno studio del 2019 di Confartigianato Imprese. Ancora oggi, il mondo dell’artigianato tradizionale costituisce una rete di importanti connessioni sociali, economiche, territoriali, intergenerazionali – basti pensare che un apprendista su quattro (24,2%) lavora in un’impresa artigiana, secondo un report INPS e INAPP del 2021. La Carta Internazionale dell’Artigianato Artistico, promossa dalle principali realtà associative del settore, ne sottolinea il valore sociale, inteso come «una forma di occupazione diffusa che alimenta l’economia locale e le piccole produzioni e che crea occupazione, stabilità sociale, e possibilità di sviluppo futuro». Secondo la Carta Internazionale, le lavorazioni di artigianato artistico «vengono svolte prevalentemente con tecniche manuali, ad alto livello tecnico professionale, con l’ausilio di apparecchiature, ad esclusione di processi di lavorazione interamente in serie» e includono anche le attività di restauro di beni appartenenti al patrimonio «artistico, architettonico, archeologico, etnografico, bibliografico ed archivistico». Esplorando questo settore così diversificato, abbiamo raccolto tre storie da tre attività artigianali radicate nel cuore della città di Roma.

Le corde giuste

Quando gli chiediamo se si sente un artista, Mathias Menanteau risponde: «Io mi sento un artigiano». Siamo nella liuteria di Menanteau, una bottega in via Santa Maria Maggiore, appena sotto il livello della strada. Sbirciando in basso, dai vetri della porta d’ingresso, i passanti possono vedere i liutai – Mathias e il suo dipendente, Nicholas – chini sul grande banco da lavoro, disseminato di attrezzi. Ma la sorpresa è sulle pareti: file e file di violini, fissati al muro e al soffitto. Menanteau costruisce strumenti ad arco, ripara e mette a punto quelli che gli vengono affidati, e ne restaura di antichi e preziosissimi, come Guarneri e Stradivari. «Un liutaio è come un medico: prima di sceglierne uno, il musicista si informa molto» spiega Mathias. È il passaparola a portargli i clienti: «Siamo l’unica bottega di Roma senza campanello!».

La liuteria di Menanteau è un ambiente raccolto, quasi nascosto, ma ogni fase del lavoro si svolge all’insegna della trasparenza – elemento importante per instaurare un rapporto di fiducia con i musicisti. Un liutaio non è solo bravo con le mani: deve imparare a riconoscere, in ogni strumento e in ogni musicista, la nota che li fa vibrare.

A Roma, i liutai in proprio, come Menanteau, sono sempre più rari. Però, dopo aver rischiato di spegnersi, oggi il mestiere sta nuovamente crescendo in popolarità: ci sono più occasioni di formazione, viaggiare e spostarsi è diventato più semplice. Ancora oggi, come secoli fa, il momento cruciale è l’apprendistato in bottega. «Nell’Ottocento» racconta Mathias «la famiglia dell’aspirante apprendista stipulava un contratto con il liutaio che lo avrebbe preso a bottega: la famiglia lo pagava, e il liutaio si impegnava a rivelare all’apprendista tutti i segreti del mestiere». Segreti che Menanteau – formatosi a Newark, in Inghilterra, poi approdato a Berlino – ha imparato a Cremona, culla della liuteria. Un’esperienza che gli ha fatto capire quanto sia importante il lato umano, autentico, del mestiere: a Cremona, la città di Stradivari, «trovi il meglio, ma anche il peggio». Ecco dunque, nel 2004, l’arrivo a Roma, in cerca di un’esperienza diversa, e l’apertura della bottega nel 2010. «L’essenziale è essere rigorosi, precisi, imporsi uno standard sotto il quale non si può scendere» dice Mathias. Parla di etica del restauro: rispettare la storicità di uno strumento antico, fare tutto il possibile per preservare la sua unicità, perché possa ricominciare a vivere tra le mani di un musicista. «La cosa più importante è conoscere e amare veramente la musica. Ci sono dei cattivi violinisti che provano a fare i liutai, ma un cattivo musicista non può diventare un bravo liutaio».

I mestieri di Roma

Impresso sulla pelle

A parlarci di come l’amore riposto negli oggetti possa durare nel tempo è Federico Polidori, artigiano del cuoio. Chi visita la sua bottega a due passi dal Pantheon per chiedergli di realizzare una borsa o una cintura, non dimentica facilmente l’esperienza: Polidori ha dei clienti che ritornano a trovarlo a Roma a distanza di dieci, quindici, venti anni. «Chi compra una cosa fatta con sentimento, deve avere sentimento» dice Federico. «Altrimenti, vai in un centro commerciale».

Nipote di un sellaio che lavorava con i butteri, i “cowboy” della Maremma, nella sua bottega Polidori ha delle locandine di spaghetti western e una cornice con una banconota da due dollari («porta fortuna»). In effetti, i suoi clienti sono più americani che italiani: in America, la produzione industriale di massa è arrivata prima, e ha già saturato completamente il mercato; per questo motivo, sostiene, gli americani apprezzerebbero di più il valore degli oggetti fatti a mano. Tra qualche decennio, predice Polidori, anche gli italiani lo riscopriranno. Ricambio generazionale? «Non sono gli artigiani che stanno scomparendo» afferma Polidori. «Sono i clienti». Con i quali Federico ha un rapporto del tutto particolare: «Sono un commerciante anomalo, perché mi piace troppo quello che faccio. Il mio cliente deve avere due requisiti: avere un po’ di soldi, e sapere come spenderli. Se è pieno di soldi ma non capisce nulla, io non gli vendo proprio niente…»

Polidori ci racconta di quanto sia importante trovare piacere in quello che si fa: «Se è vero che la vita la passi lavorando, la mia l’ho passata bene». Ama realizzare ogni cucitura a mano: «Non me ne frega niente di accorciare i tempi, faccio ogni cosa come penso che vada fatta». Per praticare nel cuoio i fori dove passerà l’ago, molti utilizzano una ‘forchetta’ metallica a tre punte, allo scopo di ottenere una spaziatura il più possibile regolare. Ma così le cuciture, anche se a mano, sono tutte uguali, tutte perfette: «Allora, tanto vale cucire a macchina». Federico stende il cuoio su un pezzo di sughero e pratica i fori uno a uno, con un solo ago. La sua precisione è puramente frutto di memoria muscolare. «Mi veniva a trovare un sacerdote americano, Daniel, venuto a Roma per studiare all’Università Gregoriana. Mi diceva che stava impazzendo per lo studio, che aveva bisogno di qualcosa per rilassarsi. Io gli regalai alcuni ritagli di cuoio, e lui diventò bravissimo. Ma usava la forchetta – che, per bucare il cuoio, va martellata. Io gli dicevo: “Ma perché? Perché devi fare questo rumoraccio? Io, nel silenzio, con l’ago, mi godo il rumore che faccio lavorando”. Prima di tornare in Colorado, Daniel mi disse: “Mi hai convertito: io, questa, non la userò più”». Federico sorride. «Posso dire di aver convertito un sacerdote».

I mestieri di Roma

Il tempo ritrovato

Quella di Aldo Aurili è, dagli anni Settanta, la maison de l’horlogerie ancienne: Aldo – e ora anche suo figlio Enrico – vendono, riparano e restaurano splendidi orologi d’epoca, che animano con i loro trilli la nostra conversazione. «L’anno scorso ho lavorato per Palazzo Chigi» racconta Aldo. «A Draghi non piacevano gli orologi “morti”, quindi ce li ha fatti riparare». Gli orologi passati tra le mani di Aurili viaggiano tra fiere, mostre e collezioni in tutto il mondo, ma il mondo dell’antiquariato, alla svolta del 2000, si è radicalmente trasformato. L’orologeria Aurili è a qualche passo dalle firme di via Condotti, ma comunica un’idea di lusso ben diversa, un’estetica che ha sempre meno estimatori: «Oggi le case non sono più arredate come quelle dei nostri nonni, che avevano un orologio in ogni stanza». Ma la passione per l’orologeria meccanica è ancora viva, anche grazie all’e-commerce: la bottega Aurili, infatti, oggi vende anche su eBay.

Mostrandoci orologi notturni incassati nell’ebano e pendole settecentesche decorate da puttini, Aldo spiega che nel mondo dell’orologeria ci sono sempre meno collezionisti e sempre più investitori, che prediligono orologi da polso di fattura industriale, dando più importanza al quadrante che al meccanismo. Ma spesso passano in bottega dei ragazzi che vogliono far riparare l’orologio del nonno o del papà, per il piacere di indossare un oggetto con una storia, non solo personale. Il bello dell’orologeria, dice Aurili, «non è costruire l’oggetto, è sapere il difetto». Non basta saper montare un orologio per farlo funzionare: le competenze tecniche fornite dalle scuole sono necessarie, ma la bottega, dove si acquisisce il tocco, «ha un sapore diverso». «Un mio caro amico diceva che non sono gli orologi a essere fatti male, è l’orologiaio» racconta Aldo. «Il mio maestro mi ha sempre insegnato: quando non trovi il difetto di un orologio, abbandonalo per una notte; la mattina dopo, il difetto si farà trovare».

I mestieri di Roma

A Roma, le attività artigiane del centro non hanno mai smesso di formare una rete di saperi e competenze che si integrano a vicenda. La retorica sul made in Italy e sulle eccellenze, tuttavia, non sempre si traduce in un’azione effettiva per tutelare queste realtà: il caro vita, le difficoltà economiche e burocratiche per formare e assumere apprendisti, la turistificazione dei centri storici, la trasformazione dell’e-commerce sono solo alcuni dei problemi che le attività artigiane si trovano ad affrontare. Ma, nonostante tutto, nel pieno dell’epoca della riproducibilità tecnica, della grande distribuzione, dell’obsolescenza programmata, le botteghe artigiane sono ancora qui, per ricordarci che un modo alternativo di fare, lavorare, imparare, consumare, esiste.

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