- Introduzione
- Roma
- Torino
- Milano
- Conclusione
Puoi trovare questo nucleo nel numero 45 a pagina 61 del giornale.
- Aprile 21, 2023
La cultura dei clubber
L’origine della parola “festa” è incerta. Potrebbe derivare da feriae, facendo riferimento a giorni di riposo. Secondo altri la sua radice si intreccia con quella di fanum, il tempio, ribadendone il carattere sacro, rituale. O ancora, potrebbe collegarsi a estia, quindi all’immagine del focolare domestico, dello stare assieme. È l’unione di tutte queste sfumature di significato a indicare la vera natura di questo termine, che denota un momento in cui le persone si riuniscono per una celebrazione. Nel pronunciarla oggi è facile abbandonarsi all’immaginario comune, visualizzare ragazze e ragazzi ammassati in uno spazio angusto, ubriachi e violenti – è quello che hanno preferito raccontare i media italiani nel corso del tempo. Sono le testate di vari quotidiani a dipingere il momento della festa come il momento del divertimento sfrenato. Si parla di quella che loro definiscono “movida”, che – a seconda dei casi – è «selvaggia», «violenta», «degradata», il grave sintomo di un «allarme sociale».
Nel nostro dibattito pubblico pochi temi appaiono tanto controversi e banalizzati come questo fenomeno. Viene costantemente ridotto – nella narrazione prevalente – a un tutt’uno mal amalgamato, utile solo a portare avanti la retorica del presunto conflitto intergenerazionale tra la fazione dei giovani degradati e degradanti e quella degli anziani protettori del decoro pubblico, paladini del «principio di prestazione», una richiesta implicita di produttività che guida e direziona le nostre vite e decisioni. Enrico Petrilli, autore di “Notti tossiche – Socialità, droghe e musica elettronica per resistere attraverso il piacere” (Meltemi, 2020), lo definisce come «l’imperativo normalizzante della nostra società neo-liberista». In una società permeata in ogni ambito da un economicismo totalizzante, anche l’intrattenimento ha dinamiche analoghe, in modo che il tempo libero dell’individuo sia strumentale – o quantomeno non confliggente – con il tempo della produzione. Per questo la proposta di intrattenimento tenderà sia a essere vincolata alle stesse logiche di profitto proprie degli altri ambiti della società, sia a essere quanto più standardizzata e limitata possibile nelle forme. Grazie all’affermazione di sub-culture nel panorama culturale mondiale è aumentata la necessità di voler fuggire dal trinomio produci-consuma-crepa. La possibilità di ritagliarsi un tempo proprio, avulso dalla frenesia contemporanea, diventa improvvisamente reale. Ma dove viverlo? Si assiste, nel corso della storia, alla costruzione e alla ricerca di luoghi vergini, incontaminati: dalle prime sale da ballo borghesi alla discoteca, dalla riappropriazione di spazi aperti a quella di edifici abbandonati.
Se infine a tutto ciò si aggiunge anche il tentativo di controllo sul corpo dell’individuo, in particolare sulle modalità con le quali esso vive i propri piaceri, dare vita a forme di intrattenimento maggiormente spontanee e che permettano di riprendere coscienza della propria dimensione corporea nel suo complesso va considerato un atto di resistenza. In questo contesto è possibile abbandonare l’attitudine individualistica e performante e relazionarsi secondo paradigmi differenti con chi si ha intorno.
Il tema è dunque complesso, va sviscerato e analizzato sotto vari aspetti. È per questo che oltre al confronto con esperti, abbiamo parlato di quanto avviene ora, nel tentativo di risignificare il divertimento notturno, perché il cambiamento e la consapevolezza sono nell’aria.
Speriamo di saperli raccontare.
Roma
Nella Capitale la scena di Roma-Est sta riscrivendo la storia notturna, offrendo varie opportunità di serate alternative, come quelle al Fanfulla o al 30Formiche al Pigneto.
Quest’ultimo propone espressioni artistiche indipendenti a 360 gradi, momenti di socialità e di scambio culturale, mantenendo sempre uno spirito popolare e genuino.
Quest’ultimo propone espressioni artistiche indipendenti a 360 gradi, momenti di socialità e di scambio culturale, mantenendo sempre uno spirito popolare e genuino.
TEMPO E COSCIENZA
Al circolo Angelo Mai, a Roma, appena si inizia a muovere il corpo ci si sente subito più sciolti e rilassati. La musica fa la sua parte, ma c’è un dettaglio non trascurabile: si balla scalzi.
Questa la regola dell’evento Merende, ormai di culto nella scena romana di feste alternative, fuori dai circuiti commerciali dei club mainstream. È obbligatorio togliere le scarpe e lasciarle in delle cassette della frutta riciclate, all’ingresso della sala da DJ set. Come ci racconta Erika Z. Galli, «è un’azione apparentemente banale, e che non sempre viene accettata. La scelta di stare senza scarpe ci induce ad abbattere quel limite di riservatezza quotidiano, ci permette di riconnetterci con quella dimensione di intimità e di rilassatezza nella quale siamo solamente nelle nostre case. Ma soprattutto ci aiuta a cambiare postura all’interno di uno spazio pubblico, ad abbandonare posizionamenti strutturati e fissi: un gesto contro il machismo dello stare con i piedi piantati, un modo per entrare direttamente e morbidamente in contatto con l’ambiente e con chi lo abita».
Una volta entrati i piedi si muovono spontaneamente a ritmo su una distesa di tappeti persiani che coprono tutto il pavimento. L’effetto immediato è un senso di comfort, simile allo stare in pigiama o a quando si giocava a casa da bambini. Ci si abbandona facilmente alle percussioni che rimbombano nella cassa toracica; l’euforia sale, e si viene trascinati da melodie sintetiche tra l’orientaleggiante e il caraibico. Il tempo sembra rallentare, dilatarsi, diluirsi: così si dileguano i pensieri incalzanti, pervasivi e ansiogeni che affollano la testa durante il giorno.
Presto diventa chiaro che non si tratta solo di “andare a ballare”; così come dice Erika, «Merende è diventato il nostro villaggio, la nostra casa, una comunità in continua espansione dove il nostro desiderio risiede nell’importanza dell’includere tutte e tutti. Dentro Merende si può stare, non stare, ballare, sedersi, bere, dormire, baciarsi, lasciarsi massaggiare, tatuarsi, travestirsi, farsi predire il futuro, nell’idea di avere cura e rispetto dello spazio, di chi lo vive e delle altre identità multiple che partecipano».
Il clubbing può costituire un laboratorio di sperimentazione estetica, per far sfumare questi confini chiusi e sicuri. Il semplice agitare le braccia in aria disegnando forme casuali innesca un processo de-soggettivante. Dallo spazio rialzato dietro la consolle – il DJ non è di fronte, ma in mezzo alla gente – lo sguardo si perde tra la calca in movimento, i corpi indistinguibili gli uni dagli altri. Ci si immerge lì dentro fino a turbare la rigida staticità dell’isolamento individuale. Ballando, si stabilisce una trama di relazioni che fa sentire parte di un unico “superorganismo”, come si legge nella descrizione dell’evento. A dissolversi nel magma sonoro della techno sono tutte le stratificazioni identitarie di cui ci siamo appesantiti. Diventa possibile immaginarsi diversi, e appropriarsi dello slogan scritto sullo striscione appeso alla parete: «Faccio di me stess* un’altra cosa».
Con Merende si parla di cultura musicale, di movimenti avanguardistici e di antagonismo alla cultura egemonica, «perché alla politica, e soprattutto quella di destra, piace allungare il manganello quando si sente minacciata, quando pensa – e a buon ragione – che attraverso la condivisione di idee e piaceri, e non di ideali, rischia di non essere più in grado di controllare le identità. Quello che è certo è che continueremo ad abitare i rave, le feste, gli happening, le serate, a creare comunità temporanee ed effimere, a confondere le nostre identità, i nostri corpi, i nostri desideri».
Tempo della giungla
Un altro centro nevralgico della notte underground a Roma è il Fanfulla, piccolo circolo Arci al Pigneto. Lì si svolge Tropicantesimo: un evento indefinibile, le stesse menti che l’hanno ideato ci hanno parlato di un «un pensiero, non una festa, ma qualcosa che poi ci si porta dentro quotidianamente. È un incantesimo: avviene mentre sei nella foresta con altre entità, sei perso e poi ti ritrovi, diventi qualcosa di diverso». Il locale viene trasformato in una giungla con piante, ramoscelli e fogliame grazie alle installazioni di Rocco Magno. I giochi di luce moltiplicano le ombre della vegetazione conferendo al tutto un’aura magica. Il collettivo artistico del DJ Hugo Sanchez ha costruito un suono unico, tra la tribal e il trip-hop.
L’hype attorno a Tropicantesimo è dovuto soprattutto alla rottura di alcuni canoni del clubbing commerciale. La festa non viene annunciata sui social, bisogna scoprire quando si terrà col passaparola, chiedendo in giro a chi ne sa. L’unica certezza è che avviene una domenica del mese, a partire dal pomeriggio, andando avanti tutta la notte, fino alla mattina successiva. La scelta dell’ultimo giorno della settimana, che prelude al lunedì, è per Hugo Sanchez una presa di posizione «per uscire dallo schema del divertimento del weekend».
Il lavoro moderno ha adattato il quotidiano alla ripetizione e alla monotonia della produzione industriale, ma il bisogno di rompere gli schemi, riappropriarsi del proprio tempo, è qualcosa che sentono in molti. C’è chi, come racconta Egeeno, «chiede il giorno libero il lunedì pur di venire qui a ballare». Ballare la domenica notte può essere un atto sovversivo, come affermano «la nostra battaglia politica è far capire che la notte è abitabile, che è un tempo nostro e che possiamo usare».
Tempo di consapevolezza
«Tutta la storia di questa cultura, dalla disco anni ‘70 ai rave anni ’90 al clubbing di oggi, ha visto intrecciarsi il ballo, la musica, con l’uso di sostanze. La storia della società danzante è una storia di sperimentazioni chimiche», afferma Petrilli. Partendo dalla scena disco anni ’70, le droghe preferite dai clubber divennero la cocaina e il Quaaludes, usato così tanto da essere soprannominato disco biscuit. Le droghe fungono da “lubrificante sociale” : rendono tutto più leggero, favoriscono le risate e il parlare.
«Certo, hanno dei rischi e non solo dei benefici. Ma siamo testimoni del fallimento delle politiche che hanno cercato di estrometterle, pertanto si deve puntare sul consumo consapevole che non ricada in abuso. Soprattutto perché il consumo di sostanze è implicato dal sistema economico stesso. Si consuma per rilassarsi dai ritmi lavorativi asfissianti, oppure per essere energici per tutta la notte dopo una giornata estenuante. Ogni capitalismo è anche un narcocapitalismo, e prevede un certo grado di utilizzo di droghe».
La consapevolezza sta diventando sempre più centrale durante questo tipo di eventi, tant’è che oggi in buona parte dei rave è possibile adocchiare non lontano dal centro della festa delle aree di chill-out, zone di decompressione e di riposo dal contesto circostante. Qui è possibile sedersi, bere dell’acqua o del succo, ma anche ricevere e chiedere informazioni sui rischi connessi al consumo di sostanze, legali o illegali che siano. L’equipe di professionisti che allestisce la zona è pronta a intervenire in casi di emergenza, a parlare con chi ne ha bisogno, a controllare che la sostanza che si vuole consumare non sia a rischio.
Tutte queste sono alcune delle prassi di Riduzione del Danno e dei Rischi, che hanno l’obiettivo di portare un servizio pubblico e sanitario in contesti in cui, ordinariamente, non sono previsti. È uno sguardo che viene dai tentacoli più esterni dell’Istituzione, quello dei servizi a bassa soglia di progetti come Nautilus, attivo nella regione Lazio dal 2003, e che tenta di ricucire uno strappo tra consumatori sempre più stigmatizzati e Stato. La riduzione del danno, dal 2017, è entrata a far parte dei Livelli Essenziali di Assistenza, ponendosi de iure come un diritto fondamentale. La tutela e l’informazione di cui il consumatore ha bisogno, in qualsiasi contesto avvenga l’assunzione, sono diritti che lo Stato deve garantire, e la presenza dei portali di Riduzione del Danno nei luoghi del divertimento notturno ne sancisce l’esigibilità.
Non più demoni da criminalizzare, ma cittadini a cui si deve offrire sostegno. Ce lo racconta Isabella Iommetti, responsabile del progetto Nautilus. La lotta alla droga non è più una soluzione: il tentativo di eliminare dal vissuto quotidiano di una parte di popolazione l’utilizzo di sostanze si è rivelato fallimentare. Quindi, la Riduzione del Danno e dei Rischi appare come una necessaria soluzione per ridurre gli impatti negativi che le droghe possono avere sia sulla salute dell’individuo che sul benessere sociale. I loro programmi non sembrano, però, essere una priorità per le Istituzioni: non sono abbastanza estesi sul territorio nazionale, né sufficientemente finanziati. Se a ciò aggiungiamo le nuove spinte proibizioniste del governo, il risultato è un indurimento di una legislazione già sproporzionatamente dura nei confronti del consumo, e gli effetti che questo atteggiamento può provocare sono tutt’altro che positivi.
Se i luoghi del divertimento notturno vengono percepiti come criminosi, il partecipante percepirà l’autorità con timore, e la vergogna e lo stigma legati al consumo lo allontaneranno dalla volontà di chiedere aiuto, di essere assistito, informato, con gravi conseguenze per la sua salute.
Torino
Torino è stata una delle culle della cultura rave italiana. Città industriale e operaia, con l’affermarsi della cultura clubbing in Europa, ha visto alternarsi club storici, come l’Azimut, o nuovi collettivi, come Slow Coma.
Torino è stata una delle culle della cultura rave italiana. Città industriale e operaia, con l’affermarsi della cultura clubbing in Europa, ha visto alternarsi club storici, come l’Azimut, o nuovi collettivi, come Slow Coma.
Questi ultimi hanno fatto dell’estetica post-industriale e cyber-punk il loro tratto distintivo, che rende i loro eventi riconoscibili e unici.
SPAZIO E RESISTENZA
Le ultime tre decadi hanno ridefinito il concetto del «fare festa» come modo di staccare da una vita di solo lavoro. La festa è lo spazio del divertimento, ma può diventare anche lo spazio in cui compiere un atto di resistenza all’ordine costituito. La cultura del clubbing nasce proprio come conseguenza a questo concetto. Il clubber, come ben spiega il ricercatore Enrico Petrilli all’interno di “Notti Tossiche”, ricerca un certo tipo di musica, è intenzionato a disinibirsi completamente, anche con l’uso di sostanze legali e non. Pur non conoscendo le altre persone con cui ballerà non ha promiscui secondi fini, ma accoglie la rispettosa libidinosità che lo circonda. Per citare ancora Petrilli, «il clubber attua pratiche edoniche che permettono di andare oltre il disciplinamento del sé. Tornare bambini, ballare per ore senza vedere i volti di chi ti circonda, coltivare i propri piaceri».
Nei club, almeno idealmente, vengono eliminati ogni giudizio e preconcetto del mondo esterno. E il capoluogo piemontese ne sa qualcosa.
Torino è stata, dal 1992, una delle culle della cultura rave italiana. Città industriale e operaia, negli ultimi trent’anni, con l’affermarsi della cultura clubbing in Europa, ha visto nascere club tra i più fedeli alle radici di questo movimento socio-culturale. Dai locali più storici come i Centralino, Dottor Sax, Chalet e l’Azimut, i luoghi di aggregazione quali l’Imbarchino e il Bunker, i numerosi collettivi musicali come GENAU, SHOUT!, Slowcoma Collective, OssesioneUno, Rythmè, TUM, Italia90 fino ai festival di fama internazionale tipo il Kappa FuturFestival e il Club to Club e addirittura associazioni culturali come il Club Futuro e l’Art & Club Commission la città piemontese ha fatto delle sue strade l’apogeo della cultura clubbing underground.
Siamo stati ospiti all’Azimut. Il locale è nel centro della città, a ridosso delle sponde del fiume Dora. Un cortile interno ci accompagna all’interno del club. Dentro, in corrispondenza dell’ingresso, un blocco centrale dove vengono ottimizzati e compattati gli spazi di servizio, soluzione che permette di aumentare la superficie destinata al ballo con la presenza di due sale. Una, la più grande, dall’aspetto industriale, con colori scuri e finiture metalliche e gradinate curvilinee che formano, attorno alla console, un anfiteatro. L’altra, la più piccola, intima e impreziosita da dai rivestimenti di parete oro e nero gloss. L’ospite d’onore della serata è DJ STINGRAY 313, statunitense e vera leggenda di Detroit. In apertura il dj e produttore torinese Gambo e in chiusura l’eclettica Ulsa. Da mezzanotte alle cinque del mattino l’imperativo performante è godersi il sound system, creare uno spazio sicuro, intollerante a ogni tipo di discriminazione e fare casino, ballare, lasciarsi accogliere dalla folla danzante riunita in un rito. Nella sala buia l’unico colore distinguibile è il rosso, proiettato dalle luci sugli specchi posizionati strategicamente, alternato a flash che assieme accecano e permettono per un istante di distinguere qualcuno dei volti circondanti. Le persone riunite cedono alla presenza di un qualcosa di più grande di loro. Anche Vincenzo Nasi, responsabile dell’Azimut, concorda, e ci dice «la percezione del clubbing da parte dei più – purtroppo – è limitata a mera forma di intrattenimento e divertimento. Clubbing però vuol dire produrre e promuovere cultura, condividere passioni e interessi e sentirsi parte di “qualcosa” in grado di trasmettere valori come la libertà, l’uguaglianza, l’emancipazione, la tolleranza e il rispetto».
Non si è lì solo per il design del locale, la musica e l’impianto di alta qualità. Si presenzia alla festa «per evadere dalla quotidianità e divertirsi insieme ad altre persone, godendo senza vincolo alcuno del momento contestuale alla festa, nel suo “qui ed ora”». È una presa di posizione politica, per dare spazio al divertimento come forma di resistenza e alla resistenza come forma di divertimento. Le devianze sono ribellioni private al principio di prestazione e all’Azimut, come nel clubbing tutto, sono accolte come collettive.
Fare spazio alla rivoluzione
Se l’idea di accostare clubbing e l’intento rivoluzionario sembra azzardata, non lo è per gli IVREATRONIC. Si tratta di un gruppo di produttori e DJ’s, ma anche di musicisti, che organizzano eventi culturali dedicati alla musica elettronica. C’è una certa ironia nel notare come una musica così vicina alla “macchina” sia diventata poi simbolo di una certa libertà umana, ma – ci dice Enea Pascal – il motivo principale è la fisicità di questo tipo di genere. Si tratta di una musica che ha la sua “materialità”, capace di coinvolgere tutto il corpo e non solo le orecchie. Tutto, a partire dalle basse frequenze fino ad arrivare al volume, risveglia i sensi e permette di riscoprire parti di noi assopite, beat dopo beat. Eventi come quelli organizzati da IVREATRONIC diventano un’isola felice nella quale poter fare quello che si vuole. «Sempre nel rispetto del prossimo però», puntualizza Enea.
Lui, 24 anni, tatuato e biondo platino, rientra nella categoria dell’emarginato, di chi è – come dice lui – vittima della “forma”, colpevole di non rispondere allo standard del cittadino esemplare. È dalla solitudine e dal forte senso di straniamento di una realtà non riconosciuta come propria che viene fuori quello che è il tentativo di cercare un posto dove essere liberi dalle aspettative degli altri – ci spiega, dove quella “pressione della performatività” citata da Petrilli non esiste, almeno per una notte. È sempre Enea a suggerirci che voler riunire eventi del genere nell’espressione di una volontà di rovesciamento dell’ordine sociale imposto è necessario: in maniera simbolica rave e resistenza si somigliano. Si può tracciare un parallelismo tra la natura clandestina che condividono, ma anche nel loro modo di riappropriarsi degli spazi. Eppure Enea ne è convinto: «un rave non è una rivoluzione, è l’applicazione di una nuova normalità».
Contrariamente a quanto crede l’opinione pubblica – nutrita dal pregiudizio sistematico dei media, figlio della superficialità che ha contraddistinto tali narrazioni – non si tratta di eventi scanditi dal trittico “droga, alcol e illegalità”. Gli stessi IVREATRONIC hanno portato avanti il loro progetto perché l’elettronica ha in nuce l’idea di collettività, tant’è che per loro immaginare e produrre una traccia con l’idea che verrà ballata è un «gesto d’altruismo», soprattutto se si pensa a quanto la rivendicazione del proprio sé mediante la danza sia il primo piccolo passo per dare vita a un cambiamento radicale.
Milano
Milano è la città che più tra tutte raccoglie le influenze globali: direttamente dalla cultura queer del secolo scorso arrivano serate di ballroom e cabaret, come per Milan is Burning e Drama.
Milano è la città che più tra tutte raccoglie le influenze globali: direttamente dalla cultura queer del secolo scorso arrivano serate di ballroom e cabaret, come per Milan is Burning e Drama.
L’ultimo è uno spettacolo queer dove l’intrattenimento si intreccia con il senso di comunità.
CORPI E SESSUALITÀ
Nel sistema sociale in cui tutto è subordinato alla produzione, la riappropriazione del proprio corpo, dell’uso che ne facciamo e del piacere che sentiamo, diventa il primo gesto rivoluzionario da compiere. Il clubbing diventa l’occasione per riscoprirsi e imparare ad ascoltarsi. Come ci suggerisce la docente universitaria Caterina Tomeo, la natura della festa è nella jouissance e nel carpe diem, ovvero in ciò che Octavio Paz chiama “esaltazione dei valori orgiastici”, quei momenti dionisiaci in cui si esprimono le sensazioni, le emozioni e le passioni suscitate dall’istante. «Sia che si considerino i Baccanali – i primi movimenti di protesta a Roma nel II secolo d. C – sia che si esaminino i primi rave party – le feste con musica elettronica nella Manchester degli anni Ottanta – si può osservare come la peculiarità di entrambi i fenomeni fosse proprio nella stessa forma di possessione rituale e di trascendenza, raggiunta attraverso ritmo totalizzante della musica». La festa diventa un momento di deragliamento dalle regole dell’ordine costituito ed esaudisce la promessa della consapevolezza ritrovata: si attua su questo sfondo di danza sfrenata, luci al neon e musica martellante, la riappropriazione della propria identità corporea e sessuale, una nuova presa di consapevolezza: io sento, dunque sono.


È qui che anche chi non ha un corpo conforme al canone bianco cis-etero, sempre stato escluso e marginalizzato all’interno della nostra società occidentale, si riscopre. Il bisogno di uno spazio dove non solo poter mostrare i propri corpi senza paure, ma anche dove poterli celebrare, è alla base della nascita della Ballroom community. Crystal LaBeija, drag queen afrodiscendente e donna transgender, stufa della costanti discriminazioni subite anche all’interno della stessa comunità LGBTQ+, fonda negli anni ‘60 a New York la House of LaBeija, dando forma alla Ballroom Scene come la conosciamo oggi. Durante gli anni ‘70 e ‘80, nelle ball, persone queer Afro e Latino Americane competevano tra di loro in categorie come Face, Runway, Performance e Executive Realness, ovvero il cercare di passare il più possibile per l’archetipo dell’uomo e della donna etero in carriera, pieni di soldi e a capo di grosse aziende. Un modo per avvicinarsi alle realtà che la società gli precludeva: nella Ballroom, anche se solo per una notte, puoi essere chiunque tu voglia.
Con gli anni le categorie sono aumentate e cambiate, ma anche nelle ball contemporanee si compete nelle categorie Realness. Per le persone transgender categorie come Transmale Realness o Femme Queen Realness continuano a essere spazi dove poter celebrare i propri corpi e affermare la propria identità di genere. Per conoscere meglio questa realtà siamo stati al Milan is Burning. Come ci racconta l’organizzatrice dell’evento, La B. Fujiko, non si tratta di una vera e propria ball. Si ispira ad alcune realtà newyorkesi come Vogue Knights e OTA: l’idea è quella di creare un’occasione di ritrovo per le persone della comunità Ballroom, per poter ballare e competere, ma con un livello agonistico molto inferiore rispetto a una ball. Per citare l’organizzatrice dell’evento, La B. Fujiko, «non si vince un cazzo, si vince un drink». L’obiettivo è quello di creare, oltre che un momento di ritrovo, un’occasione di training per chi è nuovo e vuole approcciare alla Ballroom. È un segnale che parte già dal prezzo del biglietto, più accessibile rispetto agli standard di Milano, ma pensati da B. Fujiko per poter permettere a tutte e tutti di partecipare alla serata. Realtà come queste sono l’esempio lampante di momenti di aggregazione notturna che – tra musica e movimenti – permettono non solo di imparare a divertirsi, ma soprattutto di conoscersi e esprimere la propria sessualità.







Reconquista
La complessità di questi fenomeni notturni, così come quelli che gravitano attorno al clubbing, è un argomento caratterizzato da una pluralità che va esplorata a fondo. Il ricercatore Enrico Petrilli, il fondatore di Club Futuro Riccardo Ramello e l’esperta di media, giornalismo e social Giorgia Castellano, stanno per lanciare una newsletter dal titolo Secchiate, con la quale intendono creare gli anticorpi a una narrazione mainstream paralizzata da paure e insicurezze.
L’hanno chiamata così per ribaltare questo immaginario, perché è «questo il gesto di difesa da parte dei privati cittadini per rispondere all’assedio di quella che chiamano movida. Dai nostri media viene fuori quasi un’idea di guerriglia urbana», spiega Riccardo Ramello.
È proprio il pregiudizio ciò che ha rallentato la diffusione di queste subculture in Italia, la cui percezione è molto diversa da quanto avviene nel resto d’Europa. Come ci dice Petrilli «in Germania, per esempio, è stato compreso il potenziale economico, sociale e politico di questa forma di intrattenimento. Viene valorizzato e non osteggiato, club grandi e piccoli sono equiparati a istituzioni culturali come i musei. La vita notturna non è un mondo oscuro che attrae esclusivamente i giovani, ma è contemplato che adulti anche con famiglia vi prendano parte». Le differenze però non si fermano qui, ma toccano anche l’ambito accademico, come sottolinea Ramello – lui stesso in Inghilterra ha conseguito un dottorato in Night Time Economy and violence – assieme alla mancata comunicazione con le istituzioni. Se all’estero c’è dialogo, qui «tutto resta cristallizzato in una sorta di spontaneismo, di chiusura verso quello che succede al di fuori. La mancanza di ponti fa sì che non si verifichino forme più complesse: gli stessi lavoratori non hanno punti di riferimento a cui appoggiarsi». È per questo che Secchiate vuole diventare «un ponte tra media generalisti, espertə, amministrazioni locali, addettə ai lavori, aficionados e curiosə di ogni genere».
Al di là delle differenze spaziali, da un punto di vista prettamente sincronico, che le cose accadano ora o una cinquantina di anni fa, non sembra essere cambiato molto nella funzione del clubbing. Il dancefloor è un luogo sacro: sempre Caterina Tomeo concorda nel dire che il vero valore del clubbing sia stato fondamentalmente nella capacità dei giovani di riappropriarsi dei propri corpi e degli spazi, ma soprattutto di realizzare la perdita di sé nell’altro. «Nel pensare al clubbing e al raving» dice «come luoghi in cui si elaborano forme di libertà interstiziale, e a tutte le pratiche artistiche che hanno generato, non dovremmo tanto domandarci qual era il significato, quanto piuttosto a chi fossero rivolte e perché. Se, per esempio, si prendono in considerazione le TAZ, le zone temporaneamente autonome, queste soddisfacevano il sogno di un momento di condivisione pura, priva di organizzazione gerarchica, la reconquista di suolo pubblico sul quale unirsi nel rito della danza, dando la possibilità a tutti di partecipare, di ribellarsi rispetto alle imposizioni della società». Come diceva l’attivista e saggista russa Emma Goldman, «se non posso ballare, non è la mia rivoluzione».
Con i contributi di

Leonardo Ciucci
Redattore

Davide De Gennaro
Redattore

Giulia Marasa
Redattrice

Emanuele Tresca
Redattore

Brando Carasso
Redattore

Lorenzo Pedrazzi
Redattore

Beatrice Puglisi
Redattrice

Giulio Conte
Redattore

Chiara De Felice
Redattrice
Hanno collaborato

Federico Codacci

Teresa Fraioli
Con il supporto di

Andrea Lai

Enrico Petrilli
