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Fatti non foste per leggermi sui social

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Lester Bangs, il più influente critico musicale di tutti i tempi, l’uomo che fu tra i primi a utilizzare le espressioni punk e heavy metal nella loro accezione corrente, non sopportava le rockstar. Odiava le pose, i lustrini, i riflettori e le folle adoranti che artisti come John Lennon e George Harrison sfruttavano per mantenere le distanze con il loro pubblico, apparendo sempre sotto la luce migliore possibile. Le sue recensioni musicali, scritte non di rado sotto l’influenza di sostanze lisergiche e pubblicate sulla rivista underground “Creem”, denunciavano questo stato di cose, ritenendolo sintomo di una malattia che colpiva sia le star della musica pop sia i loro fan. Chiamava questo male “feticismo dell’intermediario”, prendendo sicuramente spunto dal “feticismo delle merci” teorizzato da Marx: gli artisti affetti da questo grave male ingannano se stessi, credendosi degli dèi scesi in terra, vicari del Dio del Rock in persona. I loro fan, invece, trasformano i loro beniamini musicali in eroi, finendo per prendere molto sul serio qualcosa che in realtà non è altro che “un giocattolo molto costoso”, secondo le parole del critico. Esiste una sola cura possibile in grado di sanare coloro che ne sono contagiati, per Lester Bangs, ed è “Diventare nichilisti fino in fondo e fare a brandelli tutti quelli che avete sempre rispettato. Che vadano pure affanculo!”. 


Highway to Inferno

L’onnipresenza e l’intoccabilità nel 2021 del mito di Dante Alighieri avrebbe di sicuro fatto piacere al poeta fiorentino – che ha più volte ammesso nei suoi scritti di peccare di superbia – e infastidito di certo – per usare un eufemismo – il critico statunitense, il quale avrebbe senza mezzi termini mandato a quel paese le prime serate in TV, le letture impostate di attori, comici e non, gli eventi in piazza e in streaming, lo spazio destinato alle sue opere nei piani di studio scolastici e il sussiego dedicati all’unico “Sommo Poeta” della storia italiana. Chi è oggi Dante se non la più grande star della letteratura nostrana? Un poeta punk-rock – con incursioni non da poco anche nell’heavy metal – capace di immortalare nella sua opera più conosciuta due oscuri fedifraghi e un suo conterraneo a noi noto per il solo fatto di essere un uomo particolarmente goloso e nello stesso tempo dannare per l’eternità numerosi potenti laici e religiosi della sua epoca, rappresentandoli spesso in maniera degradante e irrispettosa. Esattamente come un dio del rock ormai avanti con gli anni, poi, oggi preferiamo edulcorare gli aspetti più radicali e divisivi della sua figura, rendendola commerciale, ingessata, pop; in breve: innocua. Anziché dare risalto alla sua poetica in quanto tale, come avrebbe voluto Bangs – e, sotto sotto, anche lo stesso poeta fiorentino – preferiamo rendere dozzinali le opere di Dante e fare del suo nome un brand, traendolo fuori da ogni discussione oggettiva e seria in merito, sotto la minaccia della lesa maestà. Ciò ci risulta evidente se consideriamo la recente “riscoperta” del poeta all’approssimarsi del settecentesimo anniversario della sua morte.

Il 25 marzo è stata, infatti, e continuerà ad essere ogni anno, secondo quanto proposto dal ministro della cultura Dario Franceschini, la giornata nazionale dedicata a Dante, meglio nota come Dantedì, un evento che difficilmente vi sarà passato inosservato. Il Consiglio dei Ministri ha istituito questa ricorrenza a gennaio del 2020 in vista del settimo centenario della morte del Sommo Poeta, avvenuta nel 1321. Le prime due edizioni si sono svolte in modalità digitale a causa della pandemia, caratterizzate dal coinvolgimento della scuola e da molteplici iniziative in pillole, dalla pubblicazione sui social network di frasi tratte dalla Divina Commedia, dalle lecturae Dantis in streaming e sulle reti della Rai, che hanno ospitato anche discussioni e documentari dedicati all’incredibile poeta vate. Nel 2020 riscoprire Dante, come ha anche affermato la ministra Azzolina, è stato un modo per sentirsi uniti in un momento complesso, celebrando una figura che è “l’idea stessa d’Italia”, dunque un’ideologia, piuttosto che un autore che possa piacere o non piacere, non una persona, ma un mito.
La mania per questo poeta un po’ ingombrante ci potrebbe far dimenticare dello studio che l’apprezzamento della sua opera richiede, opera tanto ricca di riferimenti alla grecità, a particolari eventi del tempo dell’autore, complessa e, per certi aspetti, anche molto lontana da noi: la stessa data del 25 marzo è stata scelta poiché molti, ma non tutti, hanno ritenuto che sia questo il giorno che segna l’inizio del viaggio narrato nella Divina Commedia. Allora, nel 2020, a ricordarci della necessità di non abbandonare la complessità e la riflessione, interviene Alessandro Barbero con il suo libro Dante. Il libro ritrae il personaggio calato nel suo contesto storico e concreto, nella sua dimensione economica e politica, andando anche a considerarne l’aspetto intimo e personale: l’esilio si riflette nella Divina Commedia, scritta appunto in una situazione tragica, e questo conferma il forte legame tra le vicissitudini del poeta e la sua produzione. È un tentativo di colmare la distanza che spesso intercorre tra il mito e la sua persona storica, e Barbero conduce questa operazione usando uno stile semplice e diretto, che rientra perfettamente nella buona volgarizzazione in cui crede. Senza farci dimenticare che il Trecento stesso era un periodo di discussione politica e religiosa, la struttura “aperta” del libro propone un approccio critico e più profondo a Dante, che è quello di aprire problemi e questioni e fare dell’opera una letteratura che fa crescere, che permette uno scambio di opinioni.
Questo tentativo di demistificare la figura di Dante va chiaramente di pari passo con l’approfondimento della sua opera, fatto attraverso la lettura attenta e accompagnata dalle note. Al contrario, le letture pubbliche di parti della Divina Commedia, generalmente uno dei pochi modi in cui durante le celebrazioni ci si avvicina effettivamente al testo, possono apparire per certi versi inutili e superficiali: quest’anno, per accompagnare la lettura del XXV Canto, tenutasi al Quirinale alla presenza del Capo dello Stato, Roberto Benigni ha detto: “A tutti noi in questo momento di dolore del mondo, Dante ci dice, con un conforto immenso, ci riabbracceremo. È un canto che parla del presente e del futuro”. Così, sempre si tende a preferire il sentimento della recitazione alla comprensione delle parole, a esaltare ancora una volta l’aura mistica del personaggio prima del suo lavoro.

Smells like Purgatorio

Se prima dell’avvento di internet trovare una frase o un passo di un libro che colpiva il lettore significava appuntarla da qualche parte, adesso significa pubblicarla sulle bacheche e sui feed dei social. Ciò è positivo nella misura in cui vi è una democratizzazione della cultura, accessibile a chiunque e per cui tutti possono leggere grazie ai social stralci di opere letterarie. Provoca tuttavia conseguenze problematiche quando si trasforma in sfrenato citazionismo fatto quasi in automatico: si riportano frasi come fossero tormentoni perché si deve fare e basta. Quelle di Dante forse più di tutte, anche a causa del Dantedì subiscono spesso tale destino. Le terzine dantesche, in particolar modo, sono diventate un prodotto di consumo, uno strumento per esprimere concetti magari diversi dal senso originale che avevano queste parole nelle intenzioni di Dante. Alcune sono trovate di marketing divertenti e bizzarre, come il post Instagram della Durex che dice portate ogni protezione o voi che entrate, ma a lungo andare rischiano di trasformare il Sommo Poeta in un marchio. 

Per quanto ciò possa essere prova della grande importanza di questo autore, trasformarlo in un’icona anche social porta spesso a trattarlo in maniera superficiale. Il citazionismo ossessivo sui social spoglia le parole del loro valore originale trasformandole in un corollario, uno slogan. È accaduto ad esempio all’ultimo verso della Cantica dell’Inferno, E quindi uscimmo a riveder le stelle, che è diventato il motto del primo lockdown a marzo 2020, spesso citato anche con errori (omettendo il “quindi”, usando “vedere” anziché “riveder”, ecc.), non sempre adoperato con cognizione di causa. Sicuramente può avere un fascino usare tale frase per indicare una rinnovata libertà in seguito al periodo difficilissimo della pandemia, tuttavia se riportata continuamente rischia di perdere il proprio valore. Il V Canto dell’Inferno si è trasformato poi durante il Dantedì e non solo in una “catena di Sant’Antonio” che, come tale, va diffusa e basta. Bisogna condividere qualcosa su Dante per omaggiarlo, ma non si discute a riguardo, si re-posta e nulla più. Non avviene un dibattito sull’autore, ma una passiva diffusione delle terzine che arriva ad annientare la restante produzione dantesca, sacrificata in nome della Commedia. Quando Dante è autore di uno dei primi trattati di linguistica comparativa della storia: il De vulgari eloquentia, la sua poliedricità lo spinge addirittura a scrivere saggi di politica e filosofia – De Monarchia e Convivio. La Commedia non è poi la sola opera poetica di Dante, che compose diverse liriche, alcune presenti nella Vita Nova, originalissima per il prosimetro che la caratterizza, raramente citata e spesso fraintesa. Tutte queste opere vengono menzionate vagamente solamente sui banchi di scuola, quando si fa la prima grande conoscenza di Dante, contribuiscono a creare il mito del poeta Sommo e inarrivabile – e per questo sovente odiato – che viene rinchiuso ancora di più sotto una teca di vetro. La stessa Divina Commedia viene insegnata sempre allo stesso modo a dei giovani che naturalmente sono abituati ad altri metodi, vivono nella società dell’immagine che non sempre costituisce un difetto. È chiaro che andrebbe svecchiato anche il modo in cui vengono iniziati a questo autore. Ad esempio incoraggiando la conoscenza delle sue opere anche attraverso altri media, come fumetti o lavori cinematografici. Nelle mura scolastiche è normale guardare un film su I Promessi Sposi, mentre agli studenti non si dice che su La Divina Commedia esiste un’opera rock tutta italiana, che unirebbe quindi proprietà visive, musicali e letterarie. Alcuni intellettuali si sono mossi effettivamente nella direzione di modernizzare l’approccio con Dante, senza per questo strumentalizzarlo. Nel 2018 Franco Nembrini ha curato per Mondadori una versione illustrata moderna e innovativa dell’Inferno della Divina Commedia, illustrata da Gabriele Dell’Otto. In seguito è uscito anche il Purgatorio ed è prevista anche l’ultima Cantica. Tutti con la prefazione di Alessandro D’Avenia, scrittore e insegnante che da sempre si batte per una fruizione più consapevole – in equilibrio tra innovazione e non banalizzazione – dei classici. La Divina Commedia forse più di tutti si presta a ciò in quanto è un’opera fin da subito “visiva”, basti pensare alle illustrazioni di Gustave Doré. Nelle scuole si continua, tuttavia, a mantenere un freddo libro di testo con qualche brano antologico e in cui spesso i disegni e grafici, salvo per quello della struttura dell’Inferno, vengono tralasciati. Non rendendo accattivante un viaggio che potrebbe diventarlo. 

Anche a causa di questo approccio asettico, Dante viene spesso frainteso, con semplificazioni e paragoni con la vita quotidiana che ne snaturano la poetica. Un esempio banale è la comune convinzione che Dante fosse realmente innamorato di Beatrice, non cogliendo la natura metaforica e metafisica del suo rapporto con lei. D’altro canto, sembra un autore da leggere e amare in quanto Dante, se ne dimenticano i meriti, non si riconoscono i suoi limiti – ad esempio il fatto che non sempre fu amato nel corso della storia – e neppure le contraddizioni, proprio quegli aspetti che lo hanno reso così letto e studiato. Risulta difficile, allora, trovare un equilibrio tra Dante l’indiscutibile sommo e perfetto e il poeta “pop” schiavo del mainstream che penetra nella communis opinio. Ad esempio, tutti sanno che la Commedia è un’opera amatissima, ma non fu sempre così. 

È vero, fin da subito la Commedia di Dante riscosse parecchio successo, favorita dalle letture pubbliche di Boccaccio, che definì “Divina” l’opera, e dall’esegesi dei primi commentatori. Eppure il poeta non fu sempre apprezzato: per quanto oggigiorno si cerchi puntualmente di trovare un appiglio per rispolverare le sue opere con la scusante che hanno sempre qualcosa da insegnare al contemporaneo, in alcuni momenti storici faticò ad affermarsi. Nel Rinascimento le altre due corone fiorentine – Petrarca e Boccaccio – furono preferite al Sommo Poeta, ad esempio, da Pietro Bembo, importante cardinale e noto umanista, che lo rimproverava per una scelta di lessico troppo basso utilizzato in particolare nella prima delle tre cantiche, tant’è che esistono delle raccolte che comprendono tutte le parolacce di cui egli si servì. Nell’epoca dei lumi il poeta fiorentino fu oscurato dalla volontà di far emergere le tematiche sociali, assai distanti da quello che era il suo intento nella composizione delle celebri terzine in cui non di rado compaiono citazioni inafferrabili ai più e in cui si avvalse di temi complessi appartenenti al campo della filosofia e della teologia. Nei giorni nostri, e più nello specifico quest’anno in quel 25 marzo che segna l’inizio del viaggio ultraterreno di Dante e Virgilio, la rivista tedesca “Frankfurter Rundschau” ha pubblicato un controverso articolo a firma di Arno Widmann, giornalista e critico letterario tedesco, sulla Commedia. L’articolo ha infuocato l’opinione pubblica, la quale probabilmente ha un po’ frainteso le parole del critico ritenendo che egli stesse accusando il poeta del Bel paese di plagio, generando istantaneamente nel cuore degli italiani un sentimento di urgente bisogno di difendere Dante a spada tratta. L’attacco che arriva dalla Germania: ‘Dante vale meno di Shakespeare, copiò tutto da un arabo’” è il titolo pubblicato da “La Stampa” il giorno stesso in cui esce l’articolo di Widmann, “La Germania ci offende pure su Dante. Oltraggio da un giornale tedesco. E Tobias Piller applaude” è invece il titolo del “Secolo XIX”. In realtà questo polverone potrebbe essere generato da una traduzione erronea dell’articolo, anche se su questo ancora si dibatte. Senza dubbio, a prescindere dall’intenzione del critico, vi era una certa volontà di leggere tra le righe significati maliziosi a prescindere. In un’intervista successiva a cura di Roberto Saviano, l’autore tedesco chiarisce ai più scettici di aver sempre amato Dante e di averne già scritto diverse volte; sulla questione del plagio replica di non averlo mai pensato e mai scritto. 

Un autore, o un artista più in generale, non può concepire l’idea di iniziare da un foglio bianco poiché non potrà non tenere conto di tutti quelli che definiamo i “precedenti” e di tutte le influenze, seppur non dirette, che può ricevere. Naturalmente il poeta fiorentino, come ogni autore medievale o contemporaneo che sia che si rispetti, ha preso spunto da altre culture e da altre tradizioni, come quella greca, aggiungendo la sua parte e questo, però, non significa che pecchi di mancanza di originalità. A questo punto sarebbe interessante chiedersi se si sarebbe generata la stessa polemica se l’articolo del critico avesse riguardato un qualsiasi altro autore e non Dante. 

Stairway to Paradiso

Il Poeta è infatti divenuto un autore intoccabile, la cui opera è motivo di orgoglio per gli italiani. Se tra i banchi di scuola ai più “l’Inferno pareva del tutto orribile, il Purgatorio ambiguo e il Paradiso noioso”, per dirla con Goethe, conoscerne i versi e recitarli facendosene vanto è diventato requisito necessario per partecipare al Dantedì, poco importa che annoiasse a scuola. Quel “barboso trattato teologico sull’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso”, come lo ha definito Bruno Nardi, è diventato il libro simbolo di una patria che sembra conoscerlo così bene da permettersi il lusso di non leggerlo e di studiarlo solo da riassuntini e commenti, o ancora peggio solo tramite le sporadiche letture online e dai post di instagram, evitando il contatto diretto con l’opera.

Lo si definisce Sommo, ma quella di Dante è una divinità celata: sono pochi a conoscerlo a fondo, i più ne scimmiottano i versi proprio in occasioni come queste, che si fanno cassa di risonanza per gli (in)competenti. La sua reputazione è ormai consolidata, la ventina di versi che si conosce a memoria è sufficiente per risparmiarci la fatica di esaminare il resto. In fondo lo confessa anche Flaubert, in una lettera del 1852, che “Dante è come tutte le cose ritenute bellissime: nessuno ammetterebbe che è noioso.” Di Dante non si può negare la grandezza, ma si possono prendere le distanze da questo suo culto imperante che non ha fatto altro che trasformarlo da autore a personaggio, estraniandone la figura dalla produzione letteraria e trasformandolo nel simulacro dell’italianità. Persino l’istituto che si occupa della diffusione della cultura italiana nel mondo ne porta il nome, usando il Poeta – noto per la sua vasta cultura enciclopedica – come simbolo di un popolo che conta una percentuale di analfabetismo funzionale pari al 27,9% secondo il sondaggio nato dalla collaborazione OCSE-PIAAC.

Dante non è un autore semplice, parla di un mondo lontano con un linguaggio ancora più distante dal nostro, ma consente ai temerari che si cimentano nella sua lettura di riscoprire uno scrittore vittima di un culto che lo ha ridotto a Grande, risultando così noto da renderne lo studio superficiale, nutrendo il mito del poeta che insegue il feticcio della donna amata, mettendo così da parte una maestosa produzione letteraria che aspetta solo di essere letta e riscoperta.

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