Eni e il miraggio della green revolution a Gela

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Gela, da piccolo borgo agricolo qual era negli anni ’60, ha assunto con lo scorrere del tempo e dei fumi inquinanti dell’ex stabilimento petrolchimico di Eni le fattezze di una vera e propria città industriale.

Negli ultimi anni il colosso Eni ha sostenuto con entusiasmo la sua strategia di un processo di decarbonizzazione e trasformazione energetica che guarda a un futuro più ecosostenibile.

Dal 2014 Eni ha cominciato a promuovere e sviluppare, in Italia e all’estero, una serie di progetti pilota all’insegna dell’innovazione “green” per la produzione di biocarburanti, ma anche nuovi materiali come le bioplastiche, alcuni con l’obiettivo di trasformare la città di Gela in un polo di eccellenza a livello nazionale e farne un modello di economia circolare.

Questa conversione è stata siglata nel 2014 tramite il Protocollo d’Intesa tra Eni e la città di Gela, per promuovere lo sviluppo e la gestione su impianti di bio-raffineria su scala industriale, non senza generare alcuni dubbi e contestazioni sia in ambito scientifico sull’utilizzo di alcuni materiali di origine vegetale sia sull’aspetto etico nella scelta di questi.

 

From waste to fuel

Nell’autunno del 2019 la Società ambientale Syndial, rinominata Eni Rewind (“Eni remediation & wasteintodevelopement”), ha avviato all’interno del sito della ex-raffineria a Gela il primo impianto pilota Waste to Fuel, per il recupero della frazione organica dei rifiuti solidi urbani (FORSU) e la loro trasformazione, attraverso il processo inventato e brevettato dal Centro di Ricerche per Energie Rinnovabili e l’Ambiente di Novara, in un bio-olio che servirà a produrre carburanti di nuova generazione.

Come abbiam detto, il sistema Waste to Fuel raccoglie il cosiddetto “umido” (poiché è composto per il 60-70% di acqua) recuperato attraverso la raccolta differenziata, e insieme a fanghi di depurazione, potature, scarti dell’industria agroalimentare e della grande produzione, li sottopone a un processo chimico di termoliquefazione, ma solo dopo averli separati da materiali inerti (plastica e metallo) ed esser stati macinati. Oltre alla grande percentuale di acqua – riutilizzabile per scopi industriali – e l’irrigazione agricola, da questo sistema si ottengono: bio-olio, utilizzato come combustibile navale dal basso contenuto di zolfo, e gas (principalmente biometano e CO2). Inoltre, dal bio-olio raffinato, si può ricavare biocarburante ad alte prestazioni.

 

A ottobre 2019 l’AD di Eni, Claudio Descalzi, ha dichiarato che “i rifiuti sono il petrolio del futuro”.

Secondo il Consorzio Italiano Compostatori, sulla base del Rapporto Rifiuti Ispra 2018, ogni anno in Italia con la raccolta differenziata si raccolgono 6.6 milioni di tonnellate di rifiuti organici, che corrispondono al 40,4% di tutta la differenziata. Il volume di affari della filiera raccolta-trattamento, tuttora in crescita, ha importanti ricadute economiche ed occupazionali: nel 2017 si aggirava intorno a 1.8 miliardi di euro di fatturato annuali, producendo 9.900 posti di lavoro nel settore del biowaste.

 

Eni e il miraggio della green revolution a Gela

L’epicfail di ENI Diesel+

Poiché i servizi di raccolta dei rifiuti organici non riescono ancora a sostenere la capacità complessiva degli impianti italiani che operano nel biowaste, in modo da sostenere la produzione del biocarburante innovativo di alta qualità (contenente il 15% di prodotto rinnovabile) ENIDiesel+, Eni, solo nell’ultimo anno, ha raddoppiato l’importazione in Italia di olio di palma e derivati, fino a 700-800 mila tonnellate registrate nel 2019.

Stando alle dichiarazioni di Legambiente, Eni risultava responsabile di circa la metà delle importazioni nazionali di olio di palma dello scorso anno.

Ma un prodotto che fa uso intensivo di olio di palma, non solo non sostiene una diminuzione delle emissioni climalteranti, anzi, contribuisce ad aumentarle, oltre che a essere partecipe della deforestazione che minaccia gravemente la biodiversità di alcuni ecosistemi. Per questo motivo uno dei migliori prodotti “green” realizzato da Eni, venduto impropriamente come prodotto ecosostenibile, è stato segnalato all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato da parte di Legambiente insieme al Movimento Difesa del Cittadino e la delegazione italiana di Transport& Environment. Nel gennaio 2020, l’ENIDiesel+ è divenuto quindi oggetto di condanna (e multa da 5 milioni di euro) da parte dell’Antitrust per pubblicità ingannevole.

La situazione si è conclusa con la promessa da parte di Eni di azzerare l’utilizzo di olio di palma e derivati entro il 2023 nella sua strategia per una mobilità più sostenibile, che in questo caso non si è rivelata tale.

Cercasi nuovi materiali elastici

Un secondo progetto pilota citato all’interno del Protocollo d’Intesa e fortemente sostenuto da Eni è quello relativo alla ricerca sul guayule (parthenium argentatum) come fonte per la produzione di gomma naturale.

Senza addentrarsi troppo nel ruolo del “piccolo chimico”: la miscela primaria da cui deriva il butadiene sta esaurendo le sue scorte a livello globale e Versalis, l’azienda chimica di Eni e leader internazionale per quanto riguarda la produzione di elastomeri, l’ha capito prontamente, considerando il suo utilizzo nella preparazione di elastomeri rilevante per la produzione dei vari materiali, improntando così una strategia di approvvigionamento di butadiene da biomasse vegetali e fonti rinnovabili.

Nel 2012 Versalis ha firmato un protocollo con altrettante importanti aziende del settore (Genomatica e Novamont), volgendo lo sguardo alla coltivazione e alla sperimentazione del guayule per primeggiare, ancora e ancora, nel mercato della produzione di gomma.

 

Perché la gomma naturale?

La richiesta mondiale di gomma naturale corrispondeva nel 2014 a 11 milioni di tonnellate (2 milioni in Europa), con un’aspettativa di crescita fino a 16 milioni di tonnellate entro il 2025, secondo l’International RubberStudy Group (IRSG).

La gomma di origine naturale ha sempre avuto una qualità superiore rispetto a quella di origine sintetica ottenuta dal petrolio, grazie alla presenza di una molecola polimerica che le conferisce sorprendenti proprietà elastiche.

Il 93% della produzione mondiale di gomma naturale a oggi deriva dal “Cahutchu” (Hevea brasilensis), di cui Indonesia, Malaysia e Thailandia sono i maggiori produttori.

In Sud America, inizialmente detentrice del monopolio, la produzione è crollata dopo che la pianta è stata attaccata da un fungo, il Microcyclusulei, e ora si teme possa raggiungere anche le piantagioni in Oriente.

Al momento quindi in Europa, dove manca la capacità produttiva di questa strategica materia prima riguardo cui la nostra industria è totalmente dipendente dall’Asia, si è insinuato un forte interesse per lo sviluppo di nuove risorse alternative alla gomma naturale da Hevea.

Dopo anni di ricerche, sembra che il Parthenium argentatum, più comunemente conosciuto come guayule, possa diventare nel futuro un’importante fonte di gomma naturale.

Cos’è il guayule?

Il guayule è un piccolo arbusto originario del deserto di Chihuahua, che si trova tra gli Stati Uniti e il Messico. È un organismo favorevole a condizioni di aridocoltura e consentirebbe di ridurre lo sfruttamento delle aree tropicali, proteggendone cosi la biodiversità.

La gomma ottenuta dal guayule ha un contenuto di proteine inferiore al lattice ricavato da Hevea; questo significa che ha proprietà ipoallergeniche e quindi una maggiore tolleranza per quanto riguarda le allergie al materiale lattice, il che lo rende particolarmente adatto alla fabbricazione di oggetti come guanti, preservativi, materassi e prodotti medicali, oltre alla produzione di pneumatici.

Eni e il miraggio della green revolution a Gela

Guayule come fonte in tutti i sensi

La pianta del guayule contiene al suo interno le macromolecole necessarie alla produzione della gomma e per ottenerle son state messe a punto tecniche di estrazione che escludono l’utilizzo di solventi tossici: è sufficiente della semplice acqua.

La gomma si produce a livello microscopico all’interno delle cellule parenchimali, motivo per cui il lattice non fluisce liberamente come nel caso della Hevea. Per estrarre le particelle gommose è necessario trattenere interamente la parte vegetale dalle singole cellule. L’estrazione può avvenire con l’uso di solventi, ma il metodo più ecosostenibile ed efficace prevede la pressatura per la fuoriuscita del lattice, seguita da un processo di centrifugazione e successivi passaggi di scrematura per la purificazione del materiale.

 

Le componenti “non gommose” della pianta possono venir sfruttate per lo sviluppo di ulteriori prodotti. In particolare la bagassa, parte fibrosa della pianta scartata dopo il processo di estrazione e spremitura dei rami, risulta essere una soluzione alternativa come materia prima per la produzione di biocarburanti (attraverso processi di pirolisi), preferibile alle fonti di tipo vegetale ad oggi utilizzate nella produzione di biocarburanti, ma richieste anche per scopi alimentari.

Dal deserto del Chihuahua alla Sicilia

Promettenti risultati ottenuti da diversi studi di fattibilità agro-industriale condotte a livello accademico hanno portato a valutare più seriamente il profitto derivante dalla produzione di lattice di gomma naturale a partire dal guayule, con particolari benefici relativi allo sviluppo economico sostenibile di quelle zone rurali del sud Europa come la realtà di Gela.

Come descritto all’interno del Protocollo d’Intesa, Versalis, con la collaborazione dell’ESA (Ente per lo Sviluppo Agricolo), ha l’obbiettivo di verificare, in via sperimentale, l’idoneità della coltivazione del prodotto del guayule rispetto al microclima della Regione Sicilia, ai fini di una coltivazione su larga scala.

I semi e germogli della pianta, forniti da Versalis, vengono coltivati sperimentalmente su territorio siciliano dall’ESA e successivamente monitorati e analizzati dai green labs di Eni, con il coinvolgimento di alcune università italiane tramite lo stanziamento di alcune borse di studio ai fini di ricerca.

Tuttavia risulta che, a oggi, i progetti pilota citati nel Protocollo d’Intesa relativi allo sviluppo di sperimentazioni riguardanti il guayule a Gela, per i quali erano stati assegnati 5 mila ettari di territorio, non siano ancora partiti. Al momento, le uniche prove della fattibilità agronomica effettuate per la coltivazione e introduzione della pianta in Sicilia sono quelle dei campi sperimentali nei comuni di Sparacia di Cammarata (AG) e Barcellona Pozzo di Gotto (ME).

Nel 2017 era stata presentata l’idea di creare un nuovo corso di laurea triennale in Ingegneria nel settore delle tecnologie verdi con sede a Gela, frutto della collaborazione tra pubblico e privato dell’Università di Palermo con Eni, sponsor del progetto. Nonostante fosse parte degli accordi fra Regione e Comune di Gela, anche in questo caso, come fatto presente dal prof. Francesco Paolo La Mantia, responsabile dei rapporti Eni-UNIPA, «il progetto non è mai partito e le risorse furono spostate altrove».

Vera innovazione o interesse economico?

Dal 2012 l’azienda chimica di Eni sta tessendo, a livello mondiale, tutta una serie di accordi e partnership strategiche con diverse società ed enti pubblici che hanno in comune un unico interesse: l’approvvigionamento di butadiene da biomasse vegetali, con l’obiettivo di sviluppare un mercato indipendente dall’importazione asiatica di gomma naturale. Tra i vari nomi coinvolti risaltano: Genomatica, Novamont, Bridgestone, Pirelli.

 

Anche il sistema per la raccolta e smaltimento dei rifiuti, tuttavia, può essere un’interessante fonte di reddito per un’azienda che si vuole affermare nella produzione di biocombustibili. Per il progetto di Waste for Fuel son stati stretti degli accordi: con Utilitalia(Federazione delle imprese energetiche idriche e ambientali di proprietà pubblica) e CONOE (Consorzio nazionale di raccolta e trattamento degli oli e dei grassi vegetali ed animali esausti) per il recupero degli oli alimentari esausti, con la Cassa Depositi e Prestiti per avviare progetti congiunti nella de-carbonizzazione con la nascita di CircularIT (nuova società di Eni e CDP).

 

Come al solito, l’innovazione di Eni in campo scientifico non sembra basarsi solamente sull’interesse nel creare un futuro più ecosostenibile, ma traspare anche una questione di dinamiche (geo)politiche, tutt’altro che sconosciute, che interessano principalmente i grossi profitti economici dell’azienda.

Si è tanto parlato di energy revolution, ma i progressi continuano a essere lenti e, come sostenuto da Legambiente, la compagnia sembra ben lontana dalla svolta green di cui parla.

Il cane a sei zampe pubblicizza con enfasi un “grande impegno” nella riconversione della raffineria e nei progetti (come appunto Waste to Fuel o la ricerca sul guayule) che contornano l’azienda . Nel farlo, però, tace sul proprio core business e continua a perseguire la sua vera strategia, focalizzata strettamente su petrolio e gas. Anche nella “verde” Gela.

 

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