Editoriale n.46

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Uno dei dati più commentati, citati e riportati (anche dai non addetti ai lavori) quando si parla di città oggi, riguarda la loro attrattività in termini di popolazione: nei prossimi dieci anni il 70% della popolazione mondiale vivrà nelle città e già oggi il 54% vive in aree urbanizzate. La portata dell’impatto di due miliardi di persone – in termini di infrastrutture, risorse, approvvigionamento – che si muovono verso le metropoli più grandi del pianeta, pone dei fattori di rischio macroscopici, numeri di questa portata ci toccano tutte e tutti, senza per forza essere ingegneri ambientali, demografi o economisti.


Ma anche se questa urgenza, questo fattore di rischio, è in grado di intercettare la preoccupazione di ognuno – a prescindere dagli strumenti teorici e critici di partenza – si tratta di dati e proiezioni così sproporzionati rispetto alla coscienza della persona, che lasciano spesso sprovvisti di strumenti. È il rischio di quella codificazione del reale – dolorosa e contemporanea – che passa attraverso gli iperoggetti, per dirlo in maniera suggestiva con Timothy Morton. È stato detto che oggi facciamo esperienza dell’impatto del genere umano sull’ambiente che lo circonda attraverso entità di una dimensione spaziale e temporale tale da incrinare la nostra stessa idea di cosa un «oggetto» sia. È il caso dei cambiamenti climatici, delle crisi economiche, delle pandemie, delle migrazioni e anche dell’urbanizzazione.


Costruire narrazioni che rendano conto di questi processi, senza edulcorarli, ma uscendo fuori dal colossale per entrare in una dimensione più vicina, quella dell’esperienza collettiva, della prossimità, del guardare le cose da vicino e insieme, del prendersene cura e capirle, permette al contrario di generare azioni, pratiche, elementi del discorso di cui abbiamo bisogno per agire sulla realtà. Identificare i segmenti di questo racconto e riappropriarsene è forse una delle sfide del giornalismo e della divulgazione oggi.


In questo numero ci abbiamo provato, identificando i nostri tre segmenti che hanno sì, un perimetro delimitato e possono sembrare narrazioni parziali, ma tangono invece – ognuno a suo modo – enormi pezzi di realtà che hanno a che vedere con i consumi culturali, le abitudini generazionali, la direzione dei modelli di governance degli spazi, con la loro sostenibilità e la possibilità di essere ancora abitati. «Pensare globale scrivere locale», qualcuno direbbe. Troverete tre approfondimenti molto diversi – per linguaggi impiegati, contenuto e forma – ma che ci parlano in molti casi di pezzi delle nostra vite ed esperienze: un fotoreportage su Piombino che inaugura X Town, un progetto fotogiornalistico e di inchiesta sulle company town italiane; un lungo articolo sul rapporto tra giovani generazioni e alcol elaborato grazie a migliaia di risposte di città in Italia e in Europa; il lavoro frutto di mesi di condivisione e confronto su Milano, alla quale hanno partecipato decine di giovani redattrici e redattori insieme a esperti e spazi della città.


Il fil rouge di questi lavori ha a che fare con i luoghi che abitiamo, con come li abitiamo e con quali forme di impatto, con come gli elementi culturali e materiali nei quali siamo immersi possano farci dimenticare che le alternative esistono e spesso sono necessarie, che le cose non sono affatto immutabili e non sono sempre state così. Questo vale per i modelli economici, di sviluppo spaziale, per le forme di consumo, per il rapporto che abbiamo con le sostanze e con i nostri corpi.

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