Ebbrezza

Puoi trovare questo nucleo nel numero 46 a pagina 41 del giornale.

Il rapporto tra nuove generazioni e alcol

Tutti quelli che hanno firmato questo pezzo sono giovani e bevono. Alcolismo? Siamo ancora in quella fase in cui se ne può ridere e non sembra una cosa così seria. Poi però realizzi che ti trovi a trascrivere un’intervista dove hai appena sentito che bere tra i 12 e i 25 anni può causare un danno diretto ai neuroni, che non verranno più riformati, con di fianco un bicchiere di vino. Non che qualcuno di noi non sapesse che l’alcol fa male, ma lavorare a questo pezzo ha cambiato – almeno in parte – la nostra percezione dell’argomento. 

Ognuno ha reagito a modo suo a questa rivelazione. Quando ci siamo visti per il lancio del mensile, ci siamo confrontati su come il vaso di Pandora che avevamo scoperchiato ci avesse colpito. Tutti con un bicchiere in mano. Le scoperte fatte hanno messo in discussione una parte della nostra vita che pensavamo fosse assolutamente esente da revisione. Ma a testamento della potenza sociale dell’alcol, nessuno di noi ha smesso di bere. Esplorare il rapporto che abbiamo con l’alcol quindi, ci è sembrato necessario più che mai. Nessuna risposta definitiva, solo un’analisi del nostro modo di comportarci. Conoscere la nostra cultura alcolica aiuta a capire chi siamo come società e come siamo cambiati e stiamo ancora cambiando, in tutta Europa.

Italia: bere tra città e campagna

Per gli italiani, non si tratta mai solo di bere qualcosa. La nostra cultura alcolica nasconde una ritualità precisa, le giornate sono scandite da una liturgia di azioni specifche. Ci sono diferenze tra le regioni, ma esistono delle norme non codifcate per le quali, lungo tutto il Paese, durante i pasti si predilige il vino, i liquori vanno bevuti sempre alla fne, magari tra dolce e cafè; i cocktail si ordinano quando si va in discoteca o nei locali la sera tardi. Metà pomeriggio, invece, è il momento riservato a spritz e stuzzichini. Alle 18 è l’ora dell’aperitivo, ma credere che questa pratica si limiti a un bicchiere di alcol e qualche patatina è sbagliato. L’aperitivo è un pretesto per uscire, l’occasione per incontrare persone e per ingannare il tempo mentre si sta con gli amici. Vero e proprio momento cardine della giornata, ha portato persino a modifche nel nostro modo di parlare: Emanuele Scafato – vicepresidente dell’EUFAS (European Federation of Addiction Societies) – ci fa notare che «oggi come oggi non è che si dice ci vediamo?, ma si dice andiamo a bere qualcosa?». Questo è indicativo di quanto radicata sia la visione dell’alcol come collante sociale.

«Oggi come oggi non è che si dice ci vediamo?, ma si dice andiamo a bere qualcosa?»

Essendo il consumo di alcol così intrecciato con quello del cibo, si tende a sottovalutare cosa comporti efettivamente bere. L’Italia detiene un record europeo allarmante: siamo il Paese in cui l’approccio alle sostanze alcoliche avviene prima. Capita sempre in un contesto familiare di festa, con il consueto assaggio dal bicchiere del genitore. Questa risulta essere una modalità controllata e protettiva, in cui l’alcol è associato alla situazione rituale e a un consumo moderato e soprattutto di qualità. Sempre Emanuele Scafato ci rivela che «c’è il concetto di normalizzazione del bere, che per i familiari ovviamente non è inteso come un “far bere il minore”, ma è inteso nel concetto di “celebrazione, festa, brindisi” e fa parte dell’idea degli adulti di socialità. Noi, sotto l’occhio dei nostri genitori, a 11 anni abbiamo già iniziato a bere». All’interno di un questionario redatto da Scomodo, compilato da 1840 persone, alla domanda «ricordi la prima volta che hai iniziato a bere? Perché l’hai fatto?» molti afermano di aver iniziato a tavola, incitati dai genitori.

Diverso è il consumo fuori casa. Spesso, soprattutto i minorenni, partecipano a festini privati in cui la finalità è quella di bere per ubriacarsi. Racconta il Dottor Cenedese, responsabile tecnico del centro delle Dipendenze Giovanili:: «I ragazzi vanno a comprare alcolici che per il basso prezzo possono essere acquistati in grandi quantità, e qui passa un messaggio per cui si può bere qualsiasi cosa pur di alterarsi, [un messaggio] che chiaramente si muove verso l’abuso». Questo abbassamento dell’età dei consumatori è un fenomeno a cui l’industria della produzione degli alcolici si sta adattando: le bevande tendono a essere più dolci e colorate, per attrarre un pubblico sempre più giovane. Secondo il racconto di Carlo, che lavora come barman in un ostello, la motivazione principale per cui i ragazzi bevono è perché utilizzano l’alcol come strumento per aumentare la propria disinibizione all’interno di un contesto sociale.

«In un paese come l’Italia bere tanto fino a sbrattare è quasi considerato normale»

«La cosa che noti è che se uno arriva e ti chiede 9 negroni non c’è proprio la volontà di percepire l’alchimia del negroni» e continua «una cosa è la birretta per la socialità, un’altra cosa è un Long Island alle 7 di sera. In un paese come l’Italia bere tanto fino a sbrattare è quasi considerato normale» ci dice, «io il Long Island lo posso anche fare, però mi sento di consigliare qualcosa di più calmo. Il problema è che alcuni di loro si sentono quasi sfidati». Anche Giulia, che lavora in una discoteca, la pensa così: «è un incubo, vedi gente che spende anche mille euro. La discoteca per quelle persone è una vetrina dove offri un’immagine di te, è Instagram nella vita reale. Le persone ti chiedono di lasciare le bottiglie perché vogliono far vedere che hanno consumato tanto. E ti giuro che non ho mai visto qualcuno divertirsi».



Aree rurali

Nelle aree rurali il consumo di alcolici segue delle mode diferenti rispetto a quelle delle città. Un esempio pratico è dato dal fatto che nelle campagne italiane la produzione del vino è estremamente difusa: l’Italia è il primo produttore di vini al mondo, fornendo circa il 18,5% della produzione mondiale ed è quindi impossibile negare il legame tra produzione e consumo. Sempre il dottor Cenedese ci dice che «l’aspetto culturale conta tantissimo: io lavoro in un ambito territoriale che è zona di produzione (provincia di Treviso) e quindi che è caratterizzato da una cultura di grande tolleranza nei confronti del consumo di alcol e ciò incide tantissimo, anche sull’iniziazione al consumo». Non stupisce che in queste regioni, come quella dei Castelli romani o della Val d’Orcia, sia presente anche un particolare tipo di turismo, il turismo enologico, caratterizzato da dei veri e propri percorsi alla scoperta dei vini del territorio, molto spesso con assaggi inclusi.

L’Italia è il primo produttore di vini al mondo, fornendo circa il 18,5% della produzione mondiale

Una zona in cui questo fenomeno si può osservare da vicino è l’Irpinia, una verde oasi montuosa situata nel cuore della Campania che produce bottiglie di Taurasi, Greco di Tufo e Fiano di Avellino. Si anima principalmente d’estate, grazie anche alle numerose sagre che vi si svolgono in quel periodo. Queste feste popolari, oltre a vivacizzare l’economia, sono fondamentali per la storia della cultura alcolica italiana. Ne nascondono il motivo nell’etimologia, perché sagra deriva direttamente da sacrum: da sempre il consumo di alcol è legato alla sacralità (prima con i riti pagani e poi con l’eucaristia) ed è in queste occasioni che il consumo del vino acquisisce una sorta di continuum tra la sacralità della vita rurale, in zone del genere ancora sentita come genuina, autentica, e la possibilità di rilassarsi e di staccare dalla frenesia odierna. Anche i più giovani la pensano più o meno così e se il senso del sacro è andato via via affievolendosi, di certo resta quel desiderio di perdersi e lasciarsi andare in questi pseudo-baccanali moderni. 

Gabriele, 25 anni, ci confessa che lui, così come la maggior parte dei suoi amici, attende febbricitante l’arrivo del Festival del Fiano. «Si tratta di tre giorni dove puoi bere vino all’infinito. È la sola occasione dove puoi lasciarti tutto alle spalle, dallo stress per l’università ai litigi in famiglia, senza poi sentirti eccessivamente in colpa con te stesso o giudicato per aver esagerato».

«Tre giorni dove puoi bere vino all’infinito. È la sola occasione dove puoi lasciarti tutto alle spalle»

Differente è invece la situazione nelle aree di montagna situate nel nord Italia. Lì il consumo di alcolici è legato prioritariamente a due fattori: da una parte quello di aggregazione, dall’altra quello legato alla durezza del lavoro e delle condizioni di vita. Si pensi per un attimo all’architettura di un classico paese dell’arco alpino: c’è un piccolo agglomerato di case, con un forno comune e se va bene una piccola cappella. Vivere in un contesto del genere, per un giovane, non è semplice: spesso gli spazi di aggregazione sono in paesi non facilmente raggiungibili, con strade tortuose e molti chilometri da percorrere. Per questo spesso si cerca come punto di socializzazione quello che si trova il più vicino possibile: nella maggior parte dei casi è un bar. Inoltre, come ci suggerisce il ricercatore Filippo Tantillo, «i giovani che rimangono nelle zone di montagna iniziano a lavorare molto presto: la scelta lì avviene intorno ai 16 anni, o lasci la montagna per andare a studiare, o resti e inizi a lavorare, se non in alpeggio molto spesso in fabbrica». Si tratta di lavori molto duri che richiedono enorme sforzo fisico: per questo la sera spesso ci si lascia andare a un consumo smisurato di bevande alcoliche, per alleviare questa pesantezza.

«Verso le sette arrivavano al bar gli operai, i muratori, gli allevatori. Scendevano dai furgoni e dai fuoristrada, sporchi di fango o di calce o di segatura […]. Si piazzavano al banco a lamentarsi e offrire giri di bevute». Si tratta di una descrizione estratta da Le otto montagne, il romanzo di Paolo Cognetti vincitore dello Strega. Eppure, quella che può sembrare una semplice suggestione letteraria, è la verità. Ce lo racconta Silvia, che frequenta la Valle d’A- osta da quando era bambina e ricorda dell’apertura di un disco pub all’interno di una baita alla periferia del paese in cui ha casa. «La baita si trova non troppo distante dal paese, ma comunque quasi tutti la raggiungono in mac- china. La cosa che mi ha colpito maggiormente è vedere le persone consumare quantità incredibili di alcol nono- stante dovessero andare a lavoro la mattina: lì sapevi che potevi trovare tutti quelli che il giorno dopo sarebbero stati sulle piste a lavorare, dal maestro di sci al tecnico degli impianti».

Portogallo: tradizione e marketing a Porto

Porto è un marchio, ancor prima che una città e una meta turistica. Il vino – o meglio, vino liquoroso – portoghese vanta un grado alcolico che tocca i 22 gradi, e i turisti non sembrano essere i soli ad apprezzarlo. La tipica merenda portoghese prevede pastéis de bacalhau, le frittelle di baccalà vendute in ogni angolo del centro, accompagnate da almeno un bicchiere di vino. «Mio nonno è capace di bersene una bottiglia da solo,» scherza Christian, un cantante di Porto abituato agli spettacoli nei locali notturni. In efetti la cultura portoghese legata all’alcol non sembra così diversa da quella italiana: anche qui, se i più grandi non si vietano qualche bicchiere a cena, i giovani preferiscono bere in discoteca. «La birra è la preferita, perché è economica. Se invece vuoi un cocktail scegli il gin, il gin è una cosa che beviamo molto in Portogallo. (In alternativa, ndr) c’è un liquore, si chiama Licor Beirão (…)». Secondo uno studio dell’OECD (Organization for Economic Co-operation and Development) più del 25% degli adulti portoghesi arriva ad ubriacarsi almeno una volta al mese, mentre il 13% delle ragazze e il 14% dei ragazzi si sono già ubriacati almeno due volte nella loro vita all’età di soli quindici anni. «I giovani vanno al supermercato e iniziano a bere a casa: così, quando vanno in discoteca sono già un po’… insomma. (…) Quando lavori con la vita notturna capita sempre di vedere persone che bevono troppo, e a volte può peggiorare: c’è chi sta male, chi si fa coinvolgere da risse. Per un cantante o un dee-jay è importante fermarsi e provare a chiedere aiuto, chiamare la sicurezza o chiunque altro se si ha il microfono, se continui a cantare o a usare la console la gente non sarà in grado di aiutare».

«L’alcol è al centro di tutto: non è la musica, non è il dee-jay, non è l’artista, è l’alcol»

D’altra parte, chi sta dietro al bancone non pare essere particolarmente sensibile ai rischi di chi consuma: «A chi vende alcol, spesso non importa nemmeno se hanno diciassette, sedici, diciotto, dodici anni… a loro non importa (…); non puoi avere una discoteca senza alcol. L’alcol è al centro di tutto: non è la musica, non è il dee-jay, non è l’artista, è l’alcol, il bere. È parte dello show-of» spiega Christian.

«Sanno che farai dei video, che posterai su Instagram, tutti vedranno che quella discoteca ha buoni drink, bella gente. L’alcol è parte dell’immagine, defnitivamente. È tutto parte del marketing (…) perché le ragazze hanno uno, due, tre drink gratis in discoteca? Il punto è attirarle». In Portogallo il marketing viene prima della salute non solo al bancone del bar, ma anche su larga scala: il programma redatto dalla DGS (Direzione Generale della Sanità, servizio centrale del Ministero della Salute portoghese) nel 2012 – mirato a defnire priorità e obiettivi per la salute pubblica nel Paese sino al 2020 – non menziona in alcun modo il controllo del consumo di alcol, nonostante le raccomandazioni del SICAD (Servizio di Intervento sui Comportamenti Additivi e sulle Dipendenze).

 La National Library of Medicine ha dimostrato, attraverso una ricerca del 2019, i continui rapporti tra le industrie portoghesi di alcolici e organizzazioni per la salute: incontri mensili con le autorità nazionali per discutere di politiche pubbliche, ma anche iniziative per l’implemento di consumo di alcol attraverso cinema, eventi culturali e musicali. Nel 2019, alla proposta di aumentare le imposte sugli alcolici l’ANEBE (Associazione Nazionale delle Imprese di Bevande alcoliche) avrebbe risposto con uno studio inviato al parlamento portoghese, citando i benefci dell’alcol quale componente di una dieta sana: la birra è ritratta come una fonte di vitamine e acqua, e assieme al vino preverrebbe malattie cardiovascolari, il morbo di Parkinson, Alzheimer e molto altro. Allo stesso tempo, l’ANEBE si dichiara attivissima nella promozione di un “consumo intelligente” e sottolinea il proprio ruolo di membro esecutivo del Forum Nazionale alcol e Salute.


Germania: il cambiamento di Berlino

Nel 2021, in Germania, sono stati consumati 96,1 litri di birra pro capite. Se il numero sembra impressionante, si pensi che nel 1990 i litri erano 145,9: i tedeschi stanno diventando più sobri. Non si direbbe. A Berlino, quando si vedono in metro gruppi di ragazzi e ragazze, la sera, o lavoratori che vanno e clubbers che tornano, la mattina, tutti quanti hanno una birra in mano. Tuttavia la scena risulta strana solo per uno sguardo poco familiare con le leggi tedesche riguardanti il consumo di alcol: qui, dai sedici anni in su, si può bere all’aperto e negli spazi pubblici, non solo in bar e ristoranti. Una volta fnita la birra, si è soliti abbandonarla al bordo del marciapiede, come gesto integrato nella vita della comunità, quasi di gentilezza. Infatti, per ogni bottiglia di vetro, si possono recuperare nei centri adibiti al riciclo fra gli 8 e i 15 centesimi, e molte persone in difcoltà economica hanno l’abitudine di pattugliare le strade per farne una bella raccolta. In ogni caso, nonostante l’atmosfera liberale, l’alcol rappresenta un problema per la salute pubblica tedesca: nel 2016 il 13,1% delle donne e il 18,5% degli uomini erano considerati consumatori a rischio, e, nel corso degli anni di pandemia, la mortalità legata all’uso di alcol è aumentata rispettivamente del 4,8% e del 5,5%. 

L’alcol rappresenta un problema per la salute pubblica tedesca

Francesco, dopo tre anni passati in Svezia, vive a Berlino da altrettanti, lavorando come guida turistico-enogastronomica e barman in un ostello a Friedrichshain, uno dei quartieri della club-life. Ci racconta di un fatto divertente: mentre in Svezia bere in giorni diversi dal venerdì e sabato è considerato un abuso vizioso – anche se poi, nel fne settimana, si aprono le danze, si compra il tassatissimo-alcol-monopolio-di-stato, e si beve fno a stare male – a Berlino il weekend, inteso nell’accezione di festa – quindi spesso consumo di sostanze ed elettronica – dura dal mercoledì al lunedì, e il martedì rimane l’ultimo baluardo della settimana “detox”, senza troppe serate in giro, né Gin Tonic in mano.

In ogni caso, da dietro il bancone dell’ostello, lui osserva una gioventù internazionale e viaggiatrice, che spesso non ha ancora trent’anni, che beve in modo moderato per poi andare al club e che quasi mai si trova sola con il proprio bicchiere. Descrive poi una Berlino ancora sconosciuta, quella estiva dei Biergärten, le birrerie all’aperto, e una che è ormai cara, ovvero quella dello Späti – da Spätkauf, il negozio aperto fno a tardi: simile a un alimentari, ma pieno di bottiglie e merendine – con fuori i tavoli, dove si acquistano birre economiche fno all’alba. «Non mi sembra che le persone qui abbiano un vero problema con l’alcol… se c’è, non è sicuramente l’alcol», conclude Francesco. Qui, quando vedi qualcuno in stato di profonda alterazione, molto spesso non è per una Pilsner di troppo. Infatti a Berlino, in questa città diversa da tutte le altre della Germania, in cui si mischiano underground, clubbing, ciclisti, e stili di tutti i tipi, l’alcol è un problema che c’è, ma – non è che non si veda – si mimetizza bene.


Danimarca: i drinking games di Copenaghen

Non è insolito, con l’arrivo del bel tempo, passeggiare per i parchi in Danimarca. Non è inusuale nemmeno vedere gruppi di ragazze e ragazzi che corrono scalmanati con delle casse di birra mentre cercano al tempo stesso di “tracannare” quanta più birra possibile. Andrea, studente di ventiquattro anni che si è trasferito a Copenaghen per frequentare una delle università locali, ne ha viste molte di scene come queste. Ci racconta che una delle particolarità della cultura alcolica danese è proprio la difusione dei drinking games, spesso svolti all’aperto già dalle prime ore del pomeriggio nei fne settimana.

È facile pensare che tra quei trenta ragazzi e ragazze molti non abbiano ancora diciotto anni: i giovani danesi detengono lo strano record di maggiori consumatori di alcol in Europa. Secondo uno studio del 2016, l’85% dei quindicenni danesi è già stato iniziato al consumo di alcol, il 42% ne ha abusato già almeno due volte e il 32% dei quindicenni e sedicenni si è ubriacato nell’ultimo mese. Questi dati sottolineano come la cultura del bere in Danimarca sia molto radicata, nonostante dal 2007 a oggi il consumo annuale sia diminuito da 12,1 litri a 10,4 litri. Stando alle stime del governo danese 4 adulti su 5 sono forti consumatori di alcol: il fenomeno seppur in diminuzione negli ultimi anni, si confgura come transgenerazionale. Questo atteggiamento nei confronti dell’alcol si fa risalire addirittura a più di un millennio fa, durante l’epoca dei Vichinghi. Questo popolo considerava l’atto di bere insieme un segno di fducia e rispetto reciproci (oltre a trovare il consumo di alcol più sicuro di quello dell’acqua a causa della scarsità della risorsa). Tuttavia, un fatto interessante è che nell’intera zona della Scandinavia, solo in Danimarca il culto dell’alcol è rimasto invariato in questo millennio. Le vicine Norvegia e Svezia, infatti, in seguito ai movimenti della temperanza che ne hanno alzato il prezzo, consumano anche meno della metà dell’alcol consumato della Danimarca, dove invece i prezzi sono ancora accessibili per tutte le tasche.

Il 32% dei quindicenni e sedicenni danesi si è ubriacato nell’ultimo mese

Questo clima positivo intorno al bere è sicuramente dovuto a degli aspetti culturali radicati, ma secondo Gianmarco, ventiquattrenne che da due anni vive nella capitale danese, esistono anche dei fattori pratici come la possibilità di poter bere nei luoghi pubblici e l’accessibilità, dai sedici anni in su, di bevande alcoliche con una gradazione inferiore a 16,5%. E se le possibilità pratiche non dovessero bastare come risposta, bisognerebbe poi considerare le necessità sociali. I danesi sono infatti considerati un popolo piuttosto chiuso e riservato, dunque è quasi automatico che l’alcol sia usato come mezzo per disinibirsi. Ce lo conferma Gustav, uno studente di Giurisprudenza danese, 24 anni. Parlandoci della sua esperienza, ci ha raccontato come non riesca a immaginare di uscire con altri danesi senza bere alcol, descrivendolo come un vero e proprio «comportamento di default». Continua dicendo che quasi non riesce a trovare fastidiose le persone ubriache, «è quasi una cosa divertente per smettere di fregarsene ed essere pazzi e caotici solo per un venerdì prima di tornare a sederti nel tuo ufficio per il resto della settimana».


Regno Unito: dal sober cool alle party town

Nel 2017 Londra era al primo posto sul podio come città con la più pericolosa drinking culture del Regno Unito, seguita da Leeds. Nel 2020 nel Regno Unito sono morte 8.974 persone per cause connesse ad un uso eccessivo di alcolici. Nel 2023 la situazione sembra essere cambiata. I giovani inglesi non sono più così attratti dal binge drinking, e bere fino a stare male non è più cool. Le cause sono molteplici. C’è un fattore importante da prendere in considerazione, quello economico. Molti giovani semplicemente non possono permettersi di spendere a cena quelle 20 sterline extra solo per un cocktail. La differenza di prezzi nei drink varia in base al luogo: è prassi comune che un locale abbia sul proprio menù cocktail a 20 sterline piuttosto che a 10, in base alla zona della città in cui è situato. Nel post-pandemia i prezzi sono saliti dappertutto e molti quartieri negli ultimi anni hanno visto un accelerato processo di gentrificazione. Ne è un esempio Brixton, quartiere situato nel sud di Londra, un tempo caratterizzato dalla forte presenza della comunità afro caraibica, e che, fino a pochi anni fa, si trascinava dietro una brutta reputazione.

Nel 2017 Londra era al primo posto sul podio come città con la più pericolosa drinking culture del Regno Unito​

Nel 2023 la situazione sembra essere cambiata.

Oggi le cose sono un po’ diverse: Brixton è diventata popolare grazie ai suoi graffiti, la street art, e al mercato (il famoso Pop Brixton). Sempre più persone, soprattutto giovani, vogliono viverci, di conseguenza i costi degli affitti sono saliti, e i locali in cui uscire e passare le serate si sono moltiplicati e sono diventati più trendy, con prezzi meno abbordabili rispetto a prima. Ci sono locali dove per entrare serve essere membri, pagando una quota mensile e/o annuale, stile Soho House per intenderci, come Upstairs At The Department Store, situato nel cuore del quartiere di Brixton. In conclusione: bere a Londra è diventato più costoso, e quindi molti giovani decidono di limitarsi. A differenza dell’Italia in Inghilterra non ci sono degli orari prestabiliti per bere, ma più ci si avvicina al fine settimana più i bicchieri aumentano. Dal giovedì alla domenica si beve a ruota libera: bottomless brunch, le famose colazioni a metà mattinata tipiche delle domeniche inglesi, in cui vengono servite innumerevoli caraffe di mimosa e Bloody Mary; pinte di birra a partire dalle cinque appena si esce dall’ufficio; calici di vino a cena; cocktails e shots nelle discoteche.

Non è un caso che bambini e minorenni non siano ammessi nei pub dalle cinque in poi durante i fine settimana. Questi i ritmi degli inglesi quando si tratta di bere. Tra le fasce d’età più giovani ci si sta però approcciando al bere con un mindset nuovo. Le statistiche rivelano come i giovani inglesi stiano gradualmente smettendo di bere, a differenza dei loro genitori. Tra il 2002 e il 2019 le percentuali di giovani inglesi tra i 16 e i 24 anni consumatori di alcol è calata dal 67% al 41%, e se ne possono vedere i risultati.

Tra il 2002 e il 2019 le percentuali di giovani inglesi tra i 16 e i 24 anni consumatori di alcol è calata dal 67% al 41%

I locali si stanno adattando a questa nuova tendenza. Sono sempre di più i bar che oggi ofrono nei loro menù un’ampia scelta di alcohol-free drinks, simili per l’aspetto ai classici cocktail amati da tutti, ma con un’eccezione importante: sono privi di alcol. Un tempo, forse, chi ordinava un Virgin Mojito veniva etichettato all’istante come “sfgato”, o se si trattava di una donna destava il sospetto di una gravidanza. Oggi, invece, ordinare uno di questi cocktail non comporta nessun tipo di commento o domanda (forse anche perché sono talmente simili ai “veri” cocktail che quasi nessuno si accorge della diferenza).


Città post industriali

Le radici storiche dei grandi siti industriali dell’Inghilterra del diciannovesimo secolo, tra i quali Manchester, Birmingham, Liverpool, Leeds e Newcastle, penetrano nel presente di queste città. Un tempo piene di beer houses e gin palaces frequentati da minatori, ora vedono pub, locali notturni e bar – ne contano la maggiore densità per chilometro quadrato – animati da giovani, diventando così party towns. Pur cambiando, sono rimaste uguali: la maggior parte della loro economia si basa su chi beve. «I giovani hanno un modo di bere non troppo distante da quello degli studenti bolognesi, per fare un esempio». Una peculiarità che Elena, ragazza italiana che studia fuori, dice di aver percepito è legata al background storico, sociale e culturale di Manchester. 

«È nata come città operaia e industriale e ancora oggi si discute spesso, sia tra adulti che studenti, del tema dei diritti della working class e della netta disuguaglianza economica tra le classi. Il consumo di alcolici è in parte legato al fatto che Manchester è una città abbastanza buia e l’alcol può rappresentare un qualcosa in cui rifugiarsi. Qui è molto comune ricercare nell’alcol la creatività che non esce fuori da sola. Mi capita spesso di parlare con persone che raccontano di aver passato intere giornate a bere perché dovevano fare progetti, soprattutto artistici, e non avevano fonti di ispirazione».

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Abbiamo chiesto ai nostri amici sparsi per il mondo di raccontarci in un breve audio qual è il loro rapporto con l’alcol e quali sono le usanze tipiche delle loro città.


Alcol e cultura alcolica

Pensando a tutte le scelte che si possono fare quando si parla di bevande alcoliche, viene quasi difcile credere che sia iniziato tutto ventimila anni fa, con del miele fermentato. Con il tempo, come sempre ci siamo evoluti, abbiamo afnato le nostre abilità: sono circa seimila anni che produciamo birra e vino, da milletrecento sappiamo distillare superalcolici – i gusti delle bevande sono diventati più piacevoli e le modalità di consumo si sono trasformate. Quello che è rimasto costante nel tempo però, è l’alto valore sociale e relazionale che si attribuisce al consumo di alcol. In effetti si può legare all’alcol allo scandire del tempo: compiuti i 18 anni, una delle prime cose che si ricorda al neo-maggiorenne è che ora può bere legalmente.

A seconda delle zone abbiamo culture diverse, come spiega Francesca Guarino – ricercatrice del Dipartimento di Sociologia presso l’Università di Bologna – si può fare differenza tra una cultura alcolica asciutta e una bagnata. Nel primo caso si fa riferimento al consumo di alcol lontano dai pasti, capace di spezzare il ritmo della settimana lavorativa: è il weekend e se si beve, lo si fa tanto. Nel secondo caso invece, parliamo di paesi del mediterraneo, come l’Italia: il consumo di alcolici – soprattutto il vino – è sfumato, presente in tavola, ma anche nei momenti di svago. È bene precisare però, che a causa della globalizzazione, questi due modelli ormai non hanno più i contorni nitidi che li hanno contraddistinti fino agli anni ‘70: complice anche l’ampio uso che ne viene fatto nei media. Film, libri, serie tv, video musicali, tendono a inserire nella loro narrazione il consumo di alcolici per mantenersi quanto più vicini a un racconto sincero della società, alimentando una vera e propria spirale di «normalizzazione». Ecco che il Vodka Martini di James Bond, i Cosmopolitan di Sex and the city, le pinte di birra in Peaky Blinders agiscono confermando l’idea generale che il consumo di alcolici sia qualcosa di scontato, normale, ovvio, direttamente collegato al successo sociale, alla gestione dell’ansia e al divertimento.

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Abbiamo chiesto a ragazzi e ragazze di raccontarci le loro esperienze. Qui puoi ascoltare delle brevi interviste che abbiamo raccolto. Dall’influenza della tv ai luoghi comuni: quanto siamo influenzati nella scelta di ciò che beviamo?

Uno studio condotto nel dall’ISS-OSSFAD (Osservatorio fumo droga e alcol dell’Istituto superiore di sanità) ha analizzato più di 900 ore di programmazione televisiva per capire quanto frequentemente, in film e fiction, venissero presentati comportamenti legati al consumo di alcolici e fumo, è risultata una cadenza media di un atto-alcol ogni 13 minuti. È sempre Scafato a sottolineare questo comportamento, dicendo che «a causa di finanziamenti e product placement delle fiction italiane per esempio, c’è sempre qualcuno che beve vino, birra, superalcolici, facendo passare per normale un’azione, che è portarsi di continuo qualcosa alla bocca, che normale non lo è affatto». Inoltre, in accordo con quanto rilevato da un altro studio condotto in America nel 1998, è emerso un dato interessante: nella maggior parte dei casi registrati il consumo di alcol è associato ad eventi positivi e\o a personaggi modello all’interno delle narrazioni. Accanto a film e serie TV si inserisce anche la pubblicità diretta, vietata per prodotti legati alla sfera del fumo ma non per gli alcolici. Tutti questi fenomeni non contribuiscono a rendere più consapevoli e a depotenziare la capacità attrattiva della «cultura del bere», ma rafforzano miti, status e modelli che attraggono soprattutto i più giovani.

Si può fare differenza tra una cultura alcolica asciutta e una bagnata

Un'auto-medicina

All’interno del questionario redatto da Scomodo, alla domanda «perché bevi?», alcune delle risposte recitano: «per tollerare la tristezza», «ero triste e vedevo gli adulti bere quando erano tristi» e ancora «per affrontare la noia o la tristezza» e «per scappare dalle emozioni brutte». Succede così, all’improvviso, prima un bicchiere, poi un secondo-terzo-quarto e quel malessere inspiegabile e pesante svanisce – ma non ci vuole molto prima che torni, più forte di prima. L’alcol diventa un’auto-medicina, capace di offrire una spalla per sopportare tutta la negatività dei pensieri. I giovani bevitori solitari consumano una quantità di alcol maggiore rispetto ai loro coetanei, che chiameremo bevitori “in compagnia”, che bevono per esaltare le emozioni positive e per un miglioramento sociale. Secondo il National Institutes of Health cominciare a bere prima dei 15 anni aumenta la probabilità di non poterne più fare a meno e di sviluppare il disturbo da consumo di alcol. «L’alcol è la base, è la madre di tutte le dipendenze» suggerisce il dott. Biagio Sciortino presidente dell’INTERCEAR – Coordinamento nazionale sul campo delle Dipendenze – una base su cui poi vengono abbinate altre sostanze, o il gioco d’azzardo, o lo sfruttamento sessuale e per questo sarebbe più corretto parlare di poli-assunzione

Perché bevi?

«Per tollerare la tristezza»

«Ero triste e vedevo gli adulti bere quando erano tristi»

I bevitori in compagnia sembrano guidati da un desiderio di miglioramento sociale, perché vi è la credenza che l’alcol aiuti con la regolazione emotiva, cioè le capacità di inibire o aumentare l’esperienza o l’espressione emotiva. Queste abilità vengono sviluppate sin dalla prima infanzia ma non sono innate, vanno esercitate nel contesto relazionale e sociale, il che richiede uno sforzo non indifferente. L’alcol è un modo economico e a prima vista efficace per risparmiare fatica e tempo, ricacciare tutto dentro e tirare avanti. La scelta non è casuale: punteranno sull’alcol i soggetti che reagiscono a stati ansiogeni e stress, dati gli effetti calmanti e distensivi. Un numero crescente di studi indica che le nuove generazioni soffrono in maniera diffusa di disturbo d’ansia generalizzato. Le sollecitazioni che riceviamo dall’esterno vanno tutte nella direzione della performatività: le prestazioni scolastiche, sportive e le relazioni sociali sono vissute con una tendenza al perfezionismo. L’iperstimolazione dovuta all’esposizione continua a immagini e informazioni amplia a dismisura gli stress emotivi e affettivi che in passato erano confinati negli spazi reali delle scuole e dei luoghi di ritrovo. Si accede così, con l’abuso di alcol, a un palliativo economico che sembra rendere tutto più sopportabile.

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Abbiamo parlato con chi ci ha rivelato di aver pensato di poter affrontare i propri problemi bevendo qualcosa. Queste sono le loro testimonianze:

Una questione di genere

Seduti al tavolo di un ristorante per cena, capita spesso di non sapersi destreggiare tra la lista dei vini, ricorrendo all’aiuto del personale di sala. Se siete donne, vi verranno proposti vini con bassa gradazione alcolica, poco strutturate. Un rosé. Un bianco foreale e profumato. Una bollicina, magari, ma niente di troppo articolato. Per i maschi, c’è l’immenso catalogo dei vini da veri uomini: alta gradazione alcolica, tannici, strutturati, persistenti. Forti. Bevande virili, da consumare senza remore, pena l’estromissione dalla categoria sociale.

Seduti al tavolo di un ristorante per cena, capita spesso di non sapersi destreggiare tra la lista dei vini, ricorrendo all’aiuto del personale di sala. Se siete donne, vi verranno proposti vini con bassa gradazione alcolica, poco strutturate. Un rosé. Un bianco foreale e profumato. Una bollicina, magari, ma niente di troppo articolato. Per i maschi, c’è l’immenso catalogo dei vini da veri uomini: alta gradazione alcolica, tannici, strutturati, persistenti. Forti. Bevande virili, da consumare senza remore, pena l’estromissione dalla categoria sociale.

«Esistono dei drink da donna e dei drink da uomo, quindi?»

«Esistono dei drink da donna e dei drink da uomo, quindi?». Teo, gestore di uno dei locali più famosi di Milano, il GhePensiMi, risponde a questa domanda biforcando la risposta dal punto di vista del consumo e da quello della formazione di chi lavora all’interno del locale. «Soprattutto negli ultimi anni l’uomo sperimenta anche gusti più dolci che magari prima erano intesi come gusti femminili» spiega, «io ho messo una birra acida alla ciliegia che, dal punto di vista del marketing e della pubblicità, viene venduta per le donne. In realtà, ci sono moltissimi uomini che la stanno apprezzando e che la richiedono». Parlando, ci rivela che alla scuola per Barman viene insegnato a diferenziare i gusti in base al genere: «quando si fanno i corsi la lezione è quella… bitter è per l’uomo, dolce per la donna. Questa bottiglia di rosato la proponi solo se c’è una donna al tavolo… Non è che i barman sono stronzi, è che ti insegnano questo».

«Questa bottiglia di rosato la proponi solo se c’è una donna al tavolo… Non è che i barman sono stronzi, è che ti insegnano questo»

Teo aggiunge che negli ultimi anni il mondo è cambiato e sta cambiando molto e con esso il mercato si è allargato: anche lo stesso vino bianco viene ordinato da uomini che hanno voglia di provare a concedersi un gusto un po’ meno da maschio alpha. «Una volta se avessi proposto una birra acida alla ciliegia ad un uomo mi avrebbe detto “vafanculo te e la birra”, adesso invece potrei trovarmi a servire una grappa o un amaro ad una ragazza e un rosè ad un uomo appena uscito dalla partita di calcetto». Con il tempo si è sedimentata l’idea per la quale l’uomo debba essere abbastanza maschio da bere anche quando non è il caso: quando deve guidare, quando deve svegliarsi presto il giorno dopo o anche solo quando non vorrebbe. Le cose, però, cambiano in fretta: negli ultimi anni sono stati condotti diversi studi che mostrano come il gender gap nel consumo problematico di alcol si sia assottigliato sempre di più negli ultimi 50 anni. I fattori che hanno portato a questa parità sono molteplici, dalle pubblicità di bevande alcoliche specifche per le donne al cambiamento del ruolo di queste nella società moderna: ma si tratta di una parità solo numerica perché c’è qualcos’altro che rimane addosso: lo stigma.

Se, perlomeno nelle nuove generazioni, si è accettato che una donna possa bere una birra, ci sono stereotipi che continuiamo a far fatica a scrollarci di dosso, soprattutto quando si parla di un consumo elevato di alcolici. Se sei una donna e bevi, e bevi tanto, sarai sempre “poco femminile”, “rozza”, ma allo stesso tempo sarai “promiscua”, “fuori controllo” e, nel peggiore dei casi, la poca lucidità tipica del post-bevuta viene usata per giustifcare eventuali molestie, o peggio – eventi più frequenti dopo che si è fatto uso di alcolici perché più vulnerabili. Commenta così anche la professoressa Di Blasi, docente ordinaria presso l’Università di Palermo, che dice «per le donne l’uso eccessivo, l’andare oltre, l’aspetto disinibente dell’alcol, è guardato in maniera molto più negativa, socialmente parlando. Nel caso della donna è come se noi aggiungessimo un giudizio di svalore in più: non è “bello da vedere”»

La percezione dell’alcolismo varia anche in base al contesto sociale, alla religione di appartenenza, all’etnia, allo status e all’identità sessuale

Questi pregiudizi sono introiettati dalle donne stesse, che portano addosso il peso della colpa del non rientrare nei canoni di genere. L’abuso e la dipendenza si trasformano in una questione morale, un difetto da nascondere e di cui non parlare, e non più un problema sanitario: non a caso, le donne sono molto meno propense rispetto agli uomini a ricercare gruppi di sostegno e trattamento delle dipendenze. La vergogna, dettata dalla colpa individuale, è una delle più grandi barriere che le persone con dipendenze devono superare prima di intraprendere un percorso di disintossicazione. Ma la colpa individuale nasconde una colpa sociale: la percezione dell’alcolismo varia anche in base al contesto sociale, alla religione di appartenenza, all’etnia, allo status e all’identità sessuale.

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Abbiamo chiesto a ragazze e ragazzi di raccontarci il loro parere a proposito dell’argomento. Ascoltali:

Parte VI

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Parte VII

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Parte VIII

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Con i contributi di

Anna Bonzanino
Anna Bonzanino

Redattrice

Francesca Cicconi
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Redattrice

Chiara De Felice
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Redattrice

Davide De Gennaro
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Redattore

Aurora De Tofoli
Aurora De Tofoli

Redattrice

Ludovica Di Sarro
Ludovica Di Sarro

Redattrice

Sara Marseglia
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Redattrice

Hanno collaborato

Beatrice Puglisi
Beatrice Puglisi

Redattrice

Katherina Ricci
Katherina Ricci

Redattrice

Gaia Russo
Gaia Russo

Redattrice

Alessia Sarrica
Alessia Sarrica

Redattrice

Alessandro Trevisin
Alessandro Trevisin

Redattore

Lorenzo Pedrazzi
Lorenzo Pedrazzi

Redattore

Sara Paolella
Sara Paolella

Redattrice

Con il supporto di

Carlo Cenedese
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Maria Di Blasi
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Emanuele Scafato
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Biagio Sciortino
Biagio Sciortino
Filippo Tantillo
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