Do you guys ever think about dying?

Come un confronto aperto e razionale con la morte può aiutarci a vivere una vita più piena: da Epicuro al movimento Death Positive

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C’è qualcosa di potente che permea le stanze bianche, gli arredi anonimi e le luci al neon di un hospice. Una struttura concepita per accogliere le persone che stanno per morire, in cui si è colpiti immediatamente dalla pulizia degli ambienti, dalla surreale gentilezza degli infermieri, dalla calma dei corridoi, in cui non esistono urgenze. In un hospice non si corre, non si intuba, non si rianima, non si fa nulla per fermare l’inevitabile, si cerca solo di alleviare il dolore, fisico ed emotivo.

Ciò che rende gli hospice posti fuori dal comune è che sono fra i pochissimi luoghi in cui la morte non viene rimossa, nascosta o evitata, ma viene invece accolta, aspettata e a volte sperata. Questo li rende luoghi assolutamente anomali, in una società e in una cultura che come mai prima d’ora cerca di negare la finitezza, di privare gli individui della catartica esperienza del confronto con la propria mortalità, feticizzando al contempo le immagini di violenza, con il risultato di una desensibilizzazione collettiva.

Il rifiuto della morte

Secondo Ernest Becker, autore dell’influente libro del 1973 La negazione della morte, il pensiero cristiano — con l’enfasi che pone sul concetto di vita eterna e resurrezione della carne—  può essere visto come uno sforzo di immortalità collettiva; uno dei meccanismi col quale l’umanità cerca di trovare, attraverso la negazione, un sollievo alla paura della morte. Infatti, nella preghiera eucaristica spesso la morte viene rimossa, «Ricordati dei nostri fratelli, che si sono addormentati nella speranza della risurrezione». Il cristianesimo, come gran parte delle religioni politeiste e le due altre grandi monoteiste , è una cultura della vita eterna.

 

Il pensiero classico ha un atteggiamento molto diverso nei confronti della morte. Parafrasando Galimberti, i Greci avevano preso sul serio la morte, non negandola o cercando di vincerla attraverso promesse di immortalità, ma accettando che l’uomo è mortale e che la morte avviene ed è definitiva. Lo avevano chiarito nel significato stesso della parola “uomo’’. All’epoca di Omero veniva chiamato Brotos colui che è destinato a morire: il mortale. All’epoca di Platone thnetós, colui che è mortale. Per i Greci l’unica cosa che durava in eterno erano le gesta, l’unica possibilità di esistenza oltre la morte.

L’atteggiamento che ha influenzato maggiormente la società contemporanea è quello cristiano (nel 2005, secondo stime di Adherents.com circa il 31,35% delle persone al mondo era cristiana). 

Gli stessi atteggiamenti di rifiuto della mortalità si possono ritrovare in innumerevoli esempi anche a livello individuale: spesso i pazienti oncologici prossimi alla morte accettano la diagnosi ma non la prognosi, un rifiuto che a volte li porta ad accettare terapie dolorose, anche se non risolutive.  Al contempo, i parenti spesso hanno un comportamento evitante nei confronti del malato e per timore di confrontarsi con la propria mortalità attraverso la visione della persona cara si privano di momenti preziosi di vicinanza e conforto, anche verso se stessi. 

Spesso, la rimozione della morte dalla coscienza individuale e collettiva inizia fin dalla prima infanzia. I bambini, nei primi anni di vita, non hanno gli strumenti cognitivi per comprendere appieno il concetto di morte. In un’intervista Ines Testoni, docente e direttrice del master in Death Studies & The End of Life dell’Università di Padova, dichiara che sempre più spesso, nelle società occidentali, i genitori non parlano ai bambini della morte, anche quando raggiungono un’età in cui potrebbero iniziare a capire. Inizia quindi da piccolissimi la cesura che l’uomo contemporaneo occidentale pratica nei confronti della mortalità propria e altrui. I genitori si lanciano in piroette bizzarre e in racconti assurdi pur di non far toccare con mano al bambino la questione. La mancanza che queste storie hanno di aderenza alla realtà – parafrasando Testoni – crea una narrazione fasulla instillando nel bambino fantasie foriere di incertezze e insicurezze, che si protrarranno fino all’età adulta, fino a quando da genitore si rifiuterà di parlare apertamente di morte ai propri figli.

 

Come la morte ci cambia la vita: da Epicuro a Camus

Nonostante i tentativi di rimozione, collettiva e individuale, l’interrogarsi con la propria finitudine è stata una costante nella storia dell’umanità. La filosofia nasce esattamente a questo scopo: a guardare negli occhi quell’enorme “elefante nella stanza” che ci accompagna da sempre e per sempre, l’orrore della morte. Vale la pena definire il pensiero della scomparsa propria come quella altrui motivo di orrore più che di spavento, paura, timore: “orribile” è l’aggettivo qualificativo più adatto per descrivere il senso di repulsione che spesso proviamo ed esprimiamo nei confronti di questa realtà, un distoglimento dello sguardo che il filosofo non dovrebbe neanche prendere in considerazione, per quanto possa essere tentato di farlo.

Se da una parte il filosofo si cala in questa condizione di timore comune a tutti gli uomini, cerca dall’altra di restituire alla morte una dimensione logico-razionale e un’analisi lucida. Nel cosiddetto “tetrafarmaco” epicureo, il ragionamento intorno a questa paura ancestrale assume un ruolo fondamentale. La morte, sostiene infatti il pensatore, non dovrebbe affatto spaventarci, perché in sua presenza non ci siamo noi ed in nostra presenza non c’è lei. Dunque, dal momento che è qualcosa con cui non ci dovremo mai confrontare direttamente, perché averne timore? Essa rappresenta la dissoluzione totale dell’anima e quindi della sua capacità sensibile di percepire il mondo, e di carpirne il suo bene come il suo male, una condizione non molto diversa da quella in cui ci troviamo prima di nascere, e quindi non completamente nuova. Si potrebbe criticare al pensatore di Samo una certa “semplificazione” nella volontà di neutralizzare la paura della morte, oltre al fatto che lasci aperte domande riguardanti l’idea che culturalmente assumiamo prima del momento stesso della nostra morte e il rapporto che abbiamo con la morte dei nostri cari.

Sono tutte riflessioni che hanno posto le basi per affrontare l’argomento anche in chiave contemporanea, e continuano a ispirare con la potenza del loro linguaggio le persone che ne vengono in contatto. Un esempio recente è quello dell’opera dello psichiatra Irvin Yalom scritta insieme alla moglie Marilyn, Una questione di morte e di vita. In questo testo gli autori affrontano il dolore della morte certa della donna, affetta da melanoma in stato terminale: la prospettiva di entrambi è che sia proprio la certezza della fine della vita a conferirle senso, a spingerci a fare tesoro di ogni attimo al massimo delle nostre capacità.

La consapevolezza data dall’accettazione della morte non porta dunque al pessimismo esistenziale, ma a un risveglio della volontà di vivere appieno un rapporto, un amore, un’esistenza. E pessimista di certo non è nemmeno il Sisifo di Albert Camus, pronto ad «accettare la scommessa meravigliosa e straziante dell’assurdo», dell’ignoto e dunque anche della morte. Anzi, sono proprio questi elementi a rendere “l’uomo assurdo” felice di sopportare il peso dell’esistenza e di continuare a rivoltarsi contro il proprio inesorabile destino e il non-senso.

 

Se siamo destinati a morire, cosa resta? La teoria dei cerchi nell’acqua e l’importanza delle relazioni

 

La scrittrice Michela Murgia, dopo aver ricevuto una diagnosi di cancro allo stadio più avanzato, ha deciso di acquistare una casa per tutti i membri di quella che lei stessa definisce la sua queer family. Una famiglia estesa, i cui legami non genetici ma di elezione, la aiutano ad affrontare la malattia e la morte imminente con grazia e forza. Anche quando lei non ci sarà più, i legami che ha creato resteranno e continueranno a influenzare le persone che ha amato, e non solo, la sua influenza si estenderà a cascata su infinite persone, su infinite coscienze.

Quello dei “cerchi nell’acqua” è un concetto particolarmente rassicurante per affrontare l’angoscia della morte e la caducità dell’esistenza. La metafora si riferisce al concetto per cui ognuno di noi, attraverso le proprie azioni, può avere un impatto duraturo sugli altri che si propaga nel tempo, anche oltre la nostra esistenza. La nozione che lasciamo dietro di noi qualcosa, anche senza saperlo, può quindi offrire una risposta alla sensazione di mancanza di senso dell’esistenza e sottolinea l’importanza delle nostre azioni quotidiane e delle relazioni che instauriamo, anche a distanza di tempo e spazio e di quanto sia essenziale che esse siano significative, autentiche, arricchenti.

Il movimento Death Positive

Infine, frutto di correnti e movimenti formatisi a cavallo degli anni ’70 ed ’80, il “Death Positivity Movement” ha preso piede nel mondo anglosassone con il chiaro intento di rinnovare la coscienza comune intorno al tema della morte e spendendosi  attivamente in battaglie sociali per l’istituzione di hospice per malati terminali e la loro qualità di vita rimanente più che un inutile prolungamento delle sofferenze al fine di evitare il decesso, di conseguenza impegnandosi nel percorso di accettazione da parte dei familiari, nella creazione di spazi verdi e sostenibili per la sepoltura e tanti altri interventi nel campo dei diritti civili (femminismo, identità di genere, Black lives matter). Su queste basi, nel 2011, l’impresaria funebre, scrittrice e youtuber Caitilin Doughty ha fondato The order of the good death, occupandosi di aiutare sia economicamente che psicologicamente le persone che subiscono il trauma della perdita di un caro ed avviando una campagna di divulgazione riguardo un nuovo tipo di sensibilità che dovremmo sviluppare nei confronti della morte. I principi del movimento sono i seguenti, e sintetizzano al meglio la volontà, per certi versi anche filosofica, di cambiare atteggiamento riguardo un momento che prima o poi ci vedrà tutti protagonisti. Il movimento si basa su otto punti, il cui scopo è ribadire che la morte dovrebbe essere argomento di discussione  in quanto fenomeno naturale attraverso molteplici mezzi, e che si debba abbattere questa “cultura del silenzio” e del nascondimento di cui abbiamo parlato prima; ma non solo. I principi fondanti del Movimento riguardano il coinvolgimento dei parenti nella cura dei propri morti, il rispetto dei desideri dei defunti indipendentemente dall’identità sessuale, religiosa, di genere o razziale. Molta attenzione viene poi posta nei confronti dell’ambiente, verso cui la gestione della morte di un essere umano non deve arrecare gravi danni. Insomma, un’onesta e aperta consapevolezza riguardo la morte propria e altrui porterebbe grandi cambiamenti culturali in più ambiti.  

Possiamo quindi riconsiderare la nostra relazione con la morte, abbracciandola come parte integrante della nostra esistenza e riconoscendo il valore della consapevolezza e della cura nelle nostre azioni quotidiane. Affrontare apertamente la morte può portare a un cambiamento culturale significativo, permettendo a tutti noi di vivere una vita più autentica e piena di significato.

 

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