Scendo dal bus accolto da un’avvolgente afa che per un momento mi toglie il respiro. Il sole è alto, mi picchia sulla testa e sulla faccia. Il gruppo di colleghi si incammina verso l’entrata, io seguo. Il percorso dal parcheggio ai cancelli appare ogni volta eterno. Supero il McDonald’s, il laghetto con le papere, le palme, le fontane, gli alberi, i campetti da calcio. Siamo di fatto nel deserto, ma il delirio di onnipotenza qatariota dell’ultimo decennio ha stravolto del tutto la conformazione territoriale. I lavori per lo stadio Al Bayt sono iniziati nel 2015. 847 milioni di dollari investiti per mutare in oasi turistico-sportiva un luogo che non avrebbe potuto ospitare nemmeno delle lucertole, ora se ho voglia posso mangiare un BigMac rinfrescando l’esofago con una Coca-Cola ghiacciata.
La simmetria delle foglie degli alberi, i fili d’erba verdi e lucenti, la pulizia maniacale, tutto in questo posto rasenta una ricerca della perfezione estetica. Mi ricorda la Casa sull’Albero di Prezzemolo, a Gardaland. Il siparietto presentato è pensato per un bambino, in modo tale da aggrapparsi alla sua ingenua e fanciullesca ricerca di veridicità, non a me, adulto consapevole della messa in scena. Acconsento tacitamente a prendere parte a uno spettacolo passato come realtà, il mostriciattolo verde dal contagioso sorriso lì ci abita per davvero, ma solo fintanto che io sono dentro e la giostra è azionata. Eppure qua, a 35 chilometri a nord di Doha, a quale bambino è rivolto questo teatrino?
Il poliziotto in tuta mi controlla il pass, mi chiede come va, gli dico che ho caldo. Poi metal detector e perquisizione personale. Mani placide scivolano sui miei jeans risalendo dal basso verso l’alto. Il palpeggiamento si ferma sotto le mie ascelle. Lo sbirro fa cenno a un collega, invitandolo ad avvicinarsi. L’altro mi indica la maglietta, alza il dito e guardandomi lo muove da destra a sinistra. Io, che con una certa sicurezza potrei ancora avere il segno del cuscino stampato sulla guancia, non ho la minima idea di cosa possa volere. Mi guardo la T-shirt. The Dark Side of the Moon, l’ottavo album dei Pink Floyd la cui copertina rappresenta un prisma triangolare con dispersione di luce, dal 1973 icona della musica prog, è oggi stampato sulla mia maglietta non stirata. L’indice della guardia indica i colori della dispersione di luce del prisma. Li conta.
One, two, three, four, five, six, seven. Gay. Take it off.
Attonito, provo a discutere col tizio che nel frattempo ha iniziato a controllare i miei colleghi, a cui sembra non fregare nulla della situazione, al fronte delle 12 o 13 ore di lavoro che ci aspettano. L’arcobaleno del prisma è un chiaro simbolo della comunità LGBTQAI+ e quindi non può entrare nello stadio. Mi rendo conto che parlarne sarebbe inutile e i capi sono già dentro che mi aspettano. Lascio la T-shirt in un bidone, mi dicono che, finito il mio turno, posso passare a recuperarla. Indosso la camicia da lavoro che ho nello zaino e me ne vado col broncio di chi vorrebbe litigare ma ne è impossibilitato.
Le prime ore passano con le cuffiette nelle orecchie e la tirata a lucido degli ultimi dettagli della zona in cui verranno accolti gli ospiti più importanti invitati all’evento. Presidenti, sceicchi, politici ed ex giocatori mangeranno e assisteranno alla prima partita dei mondiali di calcio in questa stanza, circondati da poltrone italiane da 20000 dollari l’una, buffet gourmet mangia-fino-a-scoppiare con piatti tipici da tutto il mondo, accompagnamento musicale live, servizio catering, giovani e splendide donne in abiti dai colori esotici impalate all’ingresso sfoggiando sorrisi e ripetendo a memoria, in diverse lingue, la parola “benvenuti”. Le uniche marche che possono essere visibili all’interno della zona sono quelle degli sponsor, tutte le altre devono essere coperte. Quando un responsabile FIFA si è accorto del minuscolo logo non sponsor sui porta-bicchieri appoggiati su ogni tavolo, ha radunato una task-force d’emergenza incaricandola di coprire il simbolo con degli adesivi del colore dell’oggetto incriminato, intimando una certa fretta.
Il sole cala. Le porte della zona VIP si aprono, due ore prima dell’inizio della cerimonia d’apertura. Bicchieri che tintinnano, camerieri che sgusciano tra le persone tenendo in equilibrio vassoi colmi di bevande, vociare assordante, fragorose risate, calorosi benvenuti, abbracci, pacche sulle spalle, rumore di posate, fornelli, bocche che masticano, tacchi che pestano il parquet e da fuori le vetrate i tamburi e le grida dei tifosi, i rimbombi delle prove tecniche, sound check, un presentatore munito di bandana e microfono che urla tra la gente. Le due ore passano. Lo spettacolo comincia. Il silenzio e il buio inondano lo stadio, gli ospiti escono sugli spalti rinfrescati dal sistema di aria condizionata.
In centro al campo, una donna indossa un lungo vestito nero e arancione. Il viso è coperto da un velo trasparente e con la mano regge, davanti al volto, una maschera teatrale. Canta cullanti note in lingua araba, dilatate e piene. Alla sua destra e alla sua sinistra uomini e donne si muovono simulando il movimento di un’onda. Alle spalle della cantante, dei cammelli ruminano. Un ragazzino entra in campo. Ha addosso un thobe e in testa un iqal. Ho scoperto in seguito il nome della condizione del giovane: sindrome da regressione caudale. Non essendo medico, mi sono limitato a notare che non possiede le gambe, obbligato quindi a camminare sulle mani, oscillando il corpo privo di arti inferiori. Si tratta del ventenne Ghanim Al-Muftah, di nazionalità qatariota, attivista per i diritti delle persone con disabilità, imprenditore, filantropo, youtuber e già volto immagine degli eventi sportivi tenuti in Qatar negli ultimi anni. Per le strade di Doha la sua faccia appare spesso, tra cartelloni pubblicitari alle fermate del bus e schermi nelle vetrine dei negozi. Sta per interagire con un ospite che noi occidentali identifichiamo con due diversi principali appellativi: nelsonmandela e dio. Vestito di nero e indossando un solo guanto dorato sulla mano sinistra, Morgan Freeman interroga il giovane qatariota. La conversazione assume toni onirici, mentre totem marroni vegliano alle loro spalle. Discutono di tolleranza, inclusione, accettazione. Al-Muftah cita il corano in arabo, Freeman, in inglese, afferma che ciò che ci unisce qui è tanto più grande di ciò che ci divide.
La retorica del contesto proposto mi convince in funzione della natura spettacolare della cerimonia d’apertura di un evento tanto sportivo quanto politico come i mondiali di calcio maschile FIFA. Come a Gardaland, qualcuno sta azionando la giostra con l’intenzione di convincere il mondo che nonostante le leggi omofobe, tutti qui sono i benvenuti, nonostante le inchieste per le migliaia di operai morti durante la costruzione degli stadi, siamo invitati a celebrare questi giorni, nonostante gli arresti e le tangenti FIFA dal 2015 a oggi, dobbiamo imparare dalle nostre differenze e farne tesoro.
Lo spettacolo prosegue permeo di esotismo. Il cantante sud coreano Jung-Kook duetta con il cantante qatariota Fahad Al-Kubaisi. Una versione gonfiabile della mascotte La’eeb fluttua sopra le teste degli artisti mentre le mascotte delle edizioni precedenti, più piccole in dimensione rispetto all’attuale, si rincorrono per il campo, spadaccini arabi ballano sorridenti, fuochi d’artificio esplodono nel cielo formando la scritta FIFA, lo stadio è in delirio, la partita inizia tra i fischi di stupore e gioia della folla.
Mi rendo conto di star assistendo a una guerra. È una guerra moderna che non comporta l’utilizzo diretto di armi da fuoco, bensì di strategie mediatiche e decisioni comunicative frutto di accurati studi. Il Qatar si è mobilitato contro la narrazione mediatica occidentalo-centrica. Negli ultimi vent’anni, questo piccolo paese ha perseguito il solo obiettivo di affermarsi nel panorama politico-economico globale, usando qualunque mezzo necessario, raggiungendo l’apogeo questo inverno, ospitando il più seguito evento sportivo al mondo. Per loro questo Inverno Arabo è il realizzarsi di un sogno e il bambino a cui è rivolto
lo spettacolo di celebrazione è l’intero Occidente mediatico, politico ed economico.
È notte, ho le maniche arrotolate, le ascelle sudate e macchie di dubbia origine sulla camicia. In silenzio raduno le ultime energie rimaste e mi avvio con il gruppo verso il bus. In cielo non vedo una stella. Penso alle mie riflessioni, al mio ruolo in questa “guerra”. Le palpebre si appesantiscono, la testa pende verso il finestrino. Dovrò passare un mese almeno seguendo questa routine. Interrompo i ragionamenti paranoidi sgranando gli occhi. Urlo spaventando il tizio seduto vicino a me. Mi aggrappo alla camicia sudicia, controllo sotto il sedile, dentro lo zaino, provo a ripercorrere il percorso dallo stadio fino al bus. Le speranze si confermano vane. Ho dimenticato la maglietta dei Pink Floyd.